Marinai,  Racconti,  Un mare di amici,  Velieri

Dal mio diario di bordo, 1984

di Giuseppe Pavich

2 giugno 1984/ 4 giugno 1984 Pregherei il lettore di queste righe (sperando che ce ne sia uno) di tenere presenti le ultime parole che ho scritto: “ Addio (Bermuda); e quanto vorrei che fosse un arrivederci!”.

Sono stato accontentato, se così si può dire. E’ il quattro giugno, e sono all’interno della base inglese di Malabar, a Bermuda. E’ un torrido pomeriggio; il sole illumina il mare di una luce più chiara del cielo, come sempre qui. Ero partito esattamente quarantott’ore fa per la regata alla volta di Halifax. C’era il sole, un tripudio di vele di ogni tipo, e il mare mosso, ma in termini accettabili. Partenza veloce, con vento al traverso; ci sono davanti solo il Canada Maritime ed il Donald Searle, due imbarcazioni più nuove della nostra. Dopo due ore, il mare aumenta fino a forza cinque; abbiamo visto di peggio, ma siamo molto invelati, come è giusto per una regata, e quindi la barca ne risente di più.
Prendiamo inizialmente la prima, poi la seconda mano di terzaroli. Cominciamo a ballare come maledetti, mentre mare e vento vanno a salire rapidamente; si sentono male in tanti, e per il momento è facile ricollegare la cosa al fatto di aver perso il “piede marino”[1]; ma stranamente anche io, quando vado a fare i panini (non si può fare di più in queste condizioni), provo una incontenibile sensazione di ribrezzo, e sono sul punto di vomitare; ma mi trattengo e vado in branda. Sono le otto di sera. Mi sveglio a mezzanotte, quattro ore dopo, per la guardia. Il mare è ancora aumentato, e il cielo non è così limpido, mentre il vento è sui 30-35 nodi. Mentre tentavo di dormire, alle 22, Marco era volato letteralmente via dalla sua branda alta, producendosi per fortuna solo un taglio, abbastanza profondo, alla mascella. L’ho sentito, nel dormiveglia, urlare come un disperato, rantolare e vomitare, mentre il dottore gli cuciva i punti a crudo, e mentre Franco, che aiutava il dottore, vomitava anche lui. Quando ho dato un’occhiata alla scena dalla mia branda (con Marco pieno di sangue, con gli occhi sbarrati, in un ambiente come una barca a vela in cui entrava acqua a secchiate in tuga dalla coperta, mentre per terra le tute cerate gettate in disordine si mischiavano ai sacchetti che ognuno di noi si portava appresso per vomitare), la barca era inclinatissima; mi hanno pregato, giustamente, di non intervenire. Durante la mia guardia, ci siamo infilati in un paio di temporali, con contemporaneo aumento nella forza del vento e del mare. Mi sembra che siamo troppo invelati, ma il mio parere vale quel che vale. Alle quattro e tre quarti, appena smontato di guardia, vengo chiamato insieme a tutti gli altri: dicono che c’è da dare la terza mano[2]; ma torniamo sulla decisione, per poi riprenderla alle cinque e venti. In coperta andiamo in cinque o sei, i soli in condizioni accettabili. Comunque, ogni tanto qualcuno si sporge da bordo e vomita. Prima di prendere la terza mano, c’è qualche indecisione. E qui, il casino: il vento, giunto a 70 e passa nodi, dà il colpo di grazia all’anello di prora dello strallo[3], che è di bronzo massiccio. Il fiocco parte in mare, legato alla scotta, e prende acqua. Il forte attrito e la trazione della vela in mare, a quella velocità, esercitata sull’albero privato del suo maggiore sostegno, sono un pericolo. Non c’è altro da fare che tagliare e perdere la vela; mettiamo su niente meno che la trinchetta[4], mentre siamo col cuore in gola a guardare l’albero che sta su Dio sa perché. Il mare è almeno forza 8-9. Il timone sgrana con rumore sinistro, ma soprattutto, e non si capisce da dove, entra un sacco d’acqua; sono io che, pompando dalla sentina, tiro fuori fino a cento litri l’ora. Pattiniamo su onde gigantesche, schiumanti, in una livida alba, a 130 miglia dalle Bermude.

Spariamo i razzi rossi per segnalare la nostra posizione: equivale ad un  S.O.S.. Siamo in contatto con l’Urania, barca olandese da regata, anch’essa in difficoltà. Mi chiedono di preparare qualcosa di caldo: metto su un tè (anche se la cucina è basculante: è più quello che va fuori che quello che resta dentro) e mi procuro dei biscotti; ma la pentola con gli avanzi del pollo del pranzo prima della partenza, e il fatto che Luca viene a vomitare in cucina, nel bidone, e poi mi chiede di spostarlo (poveraccio, avrà raccato tutta la notte, è debolissimo) sono cose che mettono Ko. Passo il thè e i biscotti in coperta, non riesco a vomitare, ma colto da nausea mi infilo a letto. Sono le sette del mattino. Nel dormiveglia vengo a sapere che, costretti dagli eventi, abbiamo piegato verso le Bermude: era logico. Ogni tanto mi svegliano le urla di quelli che raccano, un po’ dovunque; quando, a mezzogiorno, mi alzo e monto di guardia, apprendo la tragedia che ci ha sfiorati: è affondato, in trenta secondi, il Marques, barca da regata inglese con 28 persone a bordo. Solo 9 sono state recuperate vive; fra i 19 morti, un bambino di un anno e mezzo[5]. Al momento sono disperse altre due barche, una polacca e una francese[6]. Il mare calma progressivamente; prima a vela, piano piano, poi a motore, torniamo verso Bermuda. Alle 8 del mattino di oggi, 4 giugno, siamo ormeggiati a Malabar, ove per telefono apprendiamo che in Italia ci hanno dati per morti: ci affrettiamo a rassicurare le nostre famiglie[7]. Intanto, le condizioni della barca (non tanto lo strallo o il timone, che sembrano cose riparabili[8], quanto l’acqua che entra e soprattutto l’albero deformato) fanno fondatamente dubitare sul prosieguo dell’impresa; sono stanco, esaurito, e per di più nutro dubbi sull’efficienza della barca: comincio ad accarezzare l’idea di tornare a casa anzitempo.

[1] In gergo, per piede marino s’intende quella condizione di progressivo adattamento del fisico alla costante fluttuazione di un’imbarcazione, adattamento che cresce a misura che la navigazione si protrae nel tempo: riprendere a navigare dopo un lungo intervallo comporta, spesso, una iniziale maggiore difficoltà dell’organismo ad abituarsi di nuovo all’innaturale  condizione di instabilità di ogni natante che affronta il mare.
[2] Evidentemente, di terzaroli.
[3] Si tratta di una componente destinata a tenere in efficienza (ed a sostenere) la cima di raccordo dell’albero maestro con la vela anteriore dell’imbarcazione (fiocco o randa che sia) : in pratica, una delle parti più importanti della nave. [4] Una delle vele prodiere più adatte al tempo pessimo.
[5] Solo uno dei cadaveri fu recuperato; il bambino di un anno e mezzo era il figlio del comandante, il quale a sua volta morì nel naufragio, unitamente alla moglie, anch’essa presente a bordo. La tragedia del Marques, avvenuta all’alba del 3 giugno 1984, getterà una luce sinistra su tutta la regata. Non è noto a chi scrive se  ci sia stata o meno un’inchiesta, ma sembra che l’imbarcazione –un brigantino costruito nel 1917, spesso utilizzato a quanto si diceva all’epoca per girare spot pubblicitari, il cui equipaggio era in realtà composto da un certo numero di membri effettivi, di varia nazionalità, e da una restante parte di passeggeri ospiti- sia partita con circa tre ore di ritardo rispetto al previsto (all’incirca verso le 18,30 anziché alle 15,30) perché prestò assistenza prima della partenza ad un’imbarcazione francese che, a causa della corrente e del vento che avevano raggiunto anche la banchina, aveva riportato alcuni danni mentre era ancora ormeggiata. Il naufragio avvenne a circa 75 miglia di distanza da Bermuda, e a qualche decina di miglia dal punto in cui il Corsaro si trovava al momento del sinistro (infatti eravamo partiti qualche ora prima). Ciò che appare comunque accertato è che la causa occasionale della tragedia fu il succedersi di 2 onde anomale. La rivista Science Frontiers (nov.-dic. 1989), riportata sul sito www.knowledge.co.uk,  fornisce una breve ricostruzione della vicenda, inquadrandola nel fenomeno delle rogue waves (le onde anomale, stimate in un’altezza di 50/100 piedi), attraverso il racconto di uno dei membri superstiti dell’equipaggio, l’allora ventiduenne Philip Sefton. “Successivamente una violenta raffica di vento spinse giù il Marques sul lato dritto. Contemporaneamente un’ondata di incredibile forza e grandezza si rovesciò sull’imbarcazione, sospingendo gli alberi nell’acqua tempestosa. Una seconda ondata scaricò il suo peso sul veliero appena esso cominciò ad affondare. Il Marques si riempì d’acqua ed affondò in meno di un minuto. La maggior parte dei membri dell’equipaggio restarono intrappolati, perché dormivano sotto coperta”.
[6] Per fortuna, nessun’altra imbarcazione risulterà coinvolta in sinistri irreparabili come quello del Marques, e tutte –sebbene, in qualche caso, danneggiate- faranno rientro o proseguiranno la regata.
[7] Stando a quanto apprendemmo in quei drammatici momenti, in Italia qualcuno aveva fatto confusione ed aveva creduto che l’incidente del Marques (descritto, però, come una vera e propria collisione tra due barche) fosse capitato a noi: delle 19 persone affogate, 16 dovevano essere i membri del Corsaro (cioè noialtri) e 3 quelli dell’altra barca. Sia come sia, non ci volle molto a ristabilire la verità dei fatti ed a tranquillizzare tutti.
[8] E invece non fu così: ci portammo appresso il problema dello strallo di prora, come si vedrà, fino al rientro in Italia.

Un commento

  • Giuggiola Magrini

    Si marinai e oggi ho pure iniziato il corso da vfp4..che incuboooo aiuto è proprio da botti 😛 poi aggiornerò con calma anche la mia avventura

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