Emigrante di poppa

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    Il cammino della solidarietà

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Molti di noi pensano di avere tante strade da scegliere, da percorrere, per giungere alla solidarietà.
    Alcuni per scoprire realtà diverse, altri per tornaconti personali.
    La strada della solidarietà viaggia a senso unico, è già stata tracciata da “Lui” e  non si può fare marcia indietro.
    E’ un viale pieno di rose e di spine, di profumi e di miasmi. Nel percorrerla bisogna purificarsi l’anima e non è facile perché  lo zerbino dove ci siamo puliti i piedi, prima di accedervi, era stracolmo di “sterco del diavolo”, direbbe “Francesco”.
    Lui”, prima di proseguire il suo viaggio, ci ha lavato umilmente i piedi ma il fetore ancora si sente, e c’è tanto da lavare per purificare i panni sporchi e soprattutto i piedi perché sudano e puzzano e ancora dobbiamo imparare a camminare.

    E come possiamo intenderci se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose che sono dentro me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente, le assume col senso e il valore che hanno per sé del mondo che egli ha dentro?“.
    (L. Pirandello)

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    21.2.2024, in Brasile si festeggia l’emigrante italiano

    🇮🇹21 febbraio: giorno dell’immigrato italiano in Brasile.
    Perché si festeggia oggi?
    Perché il 21 febbraio 1874 arrivava in Brasile il Vapore ′′ La Sofia ′′ con la prima leva di immigrati italiani, composta da 380 famiglie.
    Un viaggio sofferto, in nave, in condizioni precarie, tanta paura, fame, il cuore spezzato per lasciare la propria terra, gli amici, i familiari, per aver scommesso tutto quello che possedevano e senza essere sicuri di niente, solo la speranza di un futuro migliore .
    Dal 1874 al 1930 quasi 30 milioni di italiani, uomini e donne di grande coraggio, hanno scelto il Brasile come luogo di un nuovo inizio, un luogo di speranza e di un futuro migliore per loro e per i loro discendenti.
    Sono anch’io un’immigrata, arrivata in Brasile nel 2007, ma il mio viaggio è stato ben diverso: sono arrivata nella comodità di un aereo, in poche ore, senza soffrire la fame, la sete e la precarietà e l’insalubrità di quasi 1 mese di viaggio in nave. Avevo i miei soldi, riuscivo a comunicare, anche se poco, in portoghese e, se la nostalgia stringeva, potevo parlare con i miei genitori e i miei fratelli con una semplice chiamata. Comunque mi sento parte di questa storia. Mi sento parte dei milioni di italiani e italiani che pur amando la propria terra, le proprie origini, hanno avuto il coraggio di inseguire i propri sogni e lottare per loro, a qualunque costo.
    Un brindisi a tutti i milioni di immigrati italiani in Brasile! Un brindisi a tutti coloro che hanno il coraggio di inseguire i propri sogni!
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    I miei parenti stretti …di Ognina

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Mi addormentavo sognando paradisi tropicali e sirene bellissime di tutte le razze che si prendevano cura di me, che mi svezzavano come una mamma con i propri figli, come una puttana con il suo cliente, come una nonna quando accarezza i propri nipotini, come una fata turchina con il suo Pinocchio.
    Forse è per questo che amo il mare, perché mi fa sognare.
    Io frequento i sogni e penso che chi rinuncia a sognare, rinunci alla vita stessa.
    Amo il mare e la sua gente, come fossero parenti stretti.
    (tratto da “Emigrante di poppa” di Ezio Vinciguerra – Edizioni Eva)

    di FAI -Delegazione di Catania
    In epoca dapprima preistorica e poi storica, il Golfo di Ognina era molto più accentuato di quanto lo sia adesso, tanto da poter ospitare, ben riparate dalle intemperie del mare, molte decine di imbarcazioni del tempo.
    Grazie alla presenza di questa profonda insenatura il porticciolo di Ognina era molto più capiente e sicuro di quello chiamato Porto Saraceno, che si trovava appena fuori da Piazza S. Placido, alla fine dell’attuale Via Porticello, tanto che talvolta gli autori di testi storici, davano per scontato che ci si riferisse a quello di Ognina quando si scriveva del Porto di Catania.
    Plinio il Vecchio (23 d.C. – 79 d.C.) nella sua Naturalis Historia, lo denominò Porto Ulisse e lo considerò il grande porto naturale della vicina Catania. Questo nome piacerà e rimarrà fino ai giorni nostri. In epoca romana sulla spiaggia sorgeva il famoso tempio di Athena Longatis, di cui parla Diodoro Siculo, e Longatis divenne Lòngona fin dal IV secolo a.C. E’ plausibile che attorno ad esso un pugno di pescatori abbiano costruito le loro povere capanne, fondando di fatto il Borgo di Ognina.
    Nello spigolo occidentale dell’insenatura si versava allora un piccolo fiume chiamato Longane, che si formava dall’unione dei rivoli generati da alcune sorgenti che scaturivano alle pendici della Collina di Santa Sofia, ai margini della odierna Cittadella Universitaria e che scorreva in direzione del mare, con un tracciato non dissimile dall’ultimo tratto dell’odierna Circonvallazione.
    Il Golfo di Ognina, o di Lognina secondo un’altra dizione, fu stravolto nel 1381 (ma secondo l’I.N.G.V. un secolo prima), quando la lava fuoruscita da una lunga fenditura sorta poco ad Est dell’attuale strada che congiunge Gravina con Mascalucia, giunta a metà del suo corso, si inserì nel letto del Fiume Longane, disperdendone le acque, e si gettò in mare in corrispondenza dell’insenatura, riempiendola parzialmente e rendendola meno accentuata. Come avviene immancabilmente in questi casi (vedi il caso del Fiume Amenano) l’acqua continuò a scorrere sotto la lava e ancor oggi si percepisce la presenza di acqua dolce in alcuni punti del golfo ben noti ai pescatori.
    L’eruzione che chiamiamo del 1381 ridusse il porto alle attuali dimensioni, ma intorno ad essa seguitò a crescere e a svilupparsi l’attività marinara e di pesca che si è conservata intatta per secoli.
    Nel frattempo il piccolo borgo di pescatori era cresciuto e così fu premiato con l’edificazione di un edificio sacro rispondente alle accresciute esigenze spirituali dei fedeli. Nel 1392 sui ruderi del tempio di Athena Longatis, venne eretta la Chiesa di Santa Maria di Lògnina, dedicata alla Natività della Vergine dal vescovo Simone del Pozzo.
    Nel 1548, nell’ambito dei lavori per l’ampliamento del sistema delle torri costiere voluto dall’Imperatore Carlo V, fu costruita la torre cilindrica, che si collegava visivamente con le garitte realizzate lungo il litorale, di cui una si conserva in Piazza Europa, per dare un veloce avviso ai maggiorenti della Città di Catania, in caso di avvistamento di flottiglie di pirati. La torre oggi si trova sul retro della Chiesa Madre del borgo.
    Dopo tre secoli dalla sua costruzione, col terremoto del 1693, l’edificio sacro crollò. Fu riedificato sugli stessi muri perimetrali del 1392. Dalle rovine furono recuperati alcuni importanti segni del passato: una splendida tela della Sacra Famiglia, di attribuzione incerta (alcuni propendono per un allievo della scuola del Caravaggio, forse lo stesso Minniti) e un’antica acquasantiera, attualmente accanto al fonte battesimale. L’8 settembre 1697 la chiesa fu consacrata dal vescovo Andrea Reggio.
    Nel 1854 il porto ebbe una prima sistemazione ed il borgo tutto viveva della straordinaria ricchezza, bontà e varietà della pregiatissima pesca del golfo. Le sue antiche origini, l’essere isolato e relativamente lonta¬no, per secoli, dalla città di cui costituiva una vicina ma autonoma entità urbana, viene confermata dalla suggestiva denominazione delle strade: via Calipso, via del Tritone, via Scilla, via dei Delfini e poi ancora via dei Conzari e via Porto Ulisse.
    Verso il 1830 fu costruito il primo dei due moli, quello chiamato vecchio o Molo di Ponente. Nei primi anni dell’ultimo dopoguerra ad esso si aggiunse, più all’esterno e più capiente, il Molo nuovo o Molo di Levante.
    Nel 1962 il Borgo di Ognina ricevette un colpo al cuore, una vera stilettata, quando, per dare continuità al collegamento viario tra la nuova strada litoranea oggi conosciuta col nome di Viale Artale Alagona e la strada per Acicastello, fu costruito un viadotto in cemento armato esattamente a metà altezza della facciata della chiesa, impedendone la visione dai principali punti di vista e imbruttendo e penalizzando la spiaggetta utilizzata dai pescatori per scendere in acqua.
    Un’altra stilettata si prepara, se si deve dare credito ad una frase inserita nella Relazione Tecnica di un progetto presentato col titolo “Richiesta di Concessione Marittima” come ampliamento di una precedente concessione. La frase recita: “Lungo l’area in oggetto e precisamente ad est in corrispondenza del molo di ponente e a sud a confine con la via marittima sarà realizzata una ringhiera con montanti, corrimano e trefoli in acciaio. In corrispondenza dei gradini a sud della richiesta di ampliamento verrà collocato un cancello scorrevole a due ante con struttura in acciaio e vetro stratificato antinfortunistico trasparente con stampigliato il logo del concessionario. Sulla via Marittima saranno collocati delle siepi piantumate su vasi.”
    Ringhiera e cancello scorrevole, certamente per impedire ai pescatori e ai comuni cittadini l’accesso ad un’area (vedi linea rossa tratteggiata nella pianta allegata) fin ad oggi liberamente fruita da tutti da decenni e forse da secoli.
    Riuscirà la società civile catanese ad evitare questa seconda offesa?

    Ringraziamo il nostro Delegato FAI Catania Giambattista Condorelli per questo interessantissimo approfondimento al fine di portare alla luce delle riflessioni al riguardo.

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    La vita è bella

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Pronunciare questa frase “la vita è bella”, nel tuo periodo più buio, non è cosa da niente.
    Dirlo forse è più semplice che crederci, ma se ci credi forse riuscirai a comprendere il vero significato di questa vita.
    La vita è bella non perché tu hai, ma perché tu dai, nonostante tutto.
    La felicità la trovi nei piccoli gesti quotidiani, nei silenzi ascoltati, nei vuoti riempiti, nei sorrisi regalati e nell’amore vissuto.  La vita è bella se cerchiamo di vivere la felicità e non d’inseguirla.

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    Giorgio Brancatelli, era mio padre

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra
    tratto da Emigrante di poppa (diritti riservati)

    L’ultima partita di campionato mi riservò gioia e dolore. La gioia per aver segnato il primo gol della mia vita in un torneo ufficiale. I compagni mi sostennero, mi abbracciarono, gioivano per “Ricciolino” che finalmente aveva segnato un gol. In quella partita ricevetti un calcio al volto, più esattamente nella guancia destra, dove ancora oggi porto una cicatrice che sembra avermi scolpito, quando rido, una fossetta. Ma non fu il vero dolore, per me che aspettavo la fine dell’incontro di calcio per rientrare a casa e dare la bella notizia ai miei familiari. Ma l’uscio era spalancato. La casa piena di vicini con aria mesta, triste e sconsolata. Le donne piangevano, percepivo le voci dei vicini che esclamavano:
    – “Ecco è arrivato il figlio, povero bambino”.
    Capii. Corsi verso la ringhiera del balcone per nascondere le lacrime, mi accartocciai su me stesso in posizione fetale per covare il dolore. Piangevo, singhiozzavo e mi soffiavo ripetutamente il naso. Se ne era andato troppo in fretta: non avevo fatto a comunicargli che suo figlio aveva fatto finalmente “goal”, che aveva vinto qualcosa di importante e che adesso l’avrebbe fatto felice anche studiando la musica.
    Giorno triste, per quel bambino che si apprestava a diventare ragazzo. Senza un fratello, senza un confidente.
    Nell’immediatezza non ebbi il coraggio di guardare mio padre sul letto di morte. Volevo ricordarlo da vivo, mi parve. Solo l’insistenza di parenti e conoscenti mi convinsero a vederlo prima che fosse chiuso nella sua povera bara di legno di ebano liscio lucidato. Giaceva fermo e rigido sul talamo nuziale al centro della stanza con due enormi candelabri ai piedi del letto, una coroncina del rosario fra le mani e l’immaginetta di San Giorgio, il suo santo protettore, adagiata su quell’esile corpo ridotto a pelle ed ossa.
    La messa ed il funerale furono maggiormente strazianti. Il dolore di mia madre, la disperazione delle mie sorelle, specialmente di mia sorella Angela, ricordo; e l’interminabile omelia funebre del sacerdote che, pur esaltando i pregi in vita di mio padre, non esitò a dire che la vita, seppur nel dolore, continua. Continua un corno, pensavo io.
    Il rientro a scuola fu ancora piú difficile per Ricciolino, anche se erano gli ultimi giorni di lezioni. Alla vista dei compagni scoppiai in lacrime. Avvertivo come un senso di vergogna. L’insegnante di matematica, la professoressa Sozzi, mi venne subito incontro, il suo alunno prediletto aveva perso il genitore: l’unico della classe con tale lutto. Lei non era sposata ma ci sapeva fare con i ragazzi. Aveva modi spiccioli, decisi e atteggiamenti quasi maschili. Mi disse di non piangere e di comportarmi da uomo. In effetti non aveva torto.
    Il bambino che era in me, invece di diventare ragazzo, divenne uomo. Tra poco iniziavano le vacanze estive e si ritornava a Castelmola.
    Ma di quell’estate non ricordo nulla!