Curiosità

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    17.3.1947, lo scudo sannitico con gli stemmi delle quattro Repubbliche Marinare nella Bandiera della Marina Militare

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra


    Esattamente tanti anni fa, come oggi, il decreto legislativo nr. 1305/47, sanciva che la Marina Militare poteva fregiarsi al centro della bandiera tricolore nazionale, dello scudo sannitico con gli stemmi delle quattro Repubbliche Marinare italiane rigorosamente in ordine di antichità ed importanza: Venezia, Pisa, Genova ed Amalfi (suddiviso in quattro parti e in senso orario partendo dalla prima a sinistra) sormontato da una corona turrita, successivamente sostituita da una corona navale romana.

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    2.1.1868 – 15.3.1868, la traversata della regia pirocorvetta Magenta

    VIAGGIO INTORNO AL GLODO DELLA PIROCORVETTA MAGENTA - www.lavocedelmarinaio.comPartimmo da Montevideo il 2 gennaio; appena usciti dal Rio della Plata spegnemmo i fuochi, e spinti da alquanto vento variabile fra il N.O. e il S.O. corremmo a levante onde tagliare il 30° parallelo possibilmente per 35 gradi di longitudine Ovest Greenwich. La stagione non era favorevole per una traversata breve: venti contrari e fiacchi quasi fino alla linea, circa 6800 miglia da fare. E dopo due giorni di navigazione si pose a soffiare il vento del Nord, il quale regna quasi tutto l’anno in vicinanza della costa d’America.
    Il giorno 19 non avevamo ancora passato il tropico e si restava in bonaccia: poco o nulla s’era guadagnato nei giorni precedenti sul bordeggio. Si accesero due caldaie e corremmo a macchina 36 ore finché trovammo una leggera brezza dall’Est la quale ci condusse in vista delle isole della Trinità dove rimanemmo nuovamente in bonaccia.
    L’aliseo E S E s’incontrò soltanto per il 18° di latitudine il giorno 27 gennaio; egli variò dall’E all’E S E e ci condusse fino alla linea equatoriale. Sulla linea (6 febbraio) in 23° di longitudine Ovest Greenwich vedemmo parecchie navi mercantili e con alcune scambiammo segnali usando la serie Marryat, la quale per esclusione di ogni altra è divenuta un vero codice internazionale. Si comunicò una lista di queste navi al R. Console di Gibilterra perché la facesse pubblicare per utile degli armatori. Per traversare la regione di bonacce fra gli alisei dei due emisferi adoperammo la forza motrice di due caldaie. In questo viaggio non ottenemmo risultati soddisfacenti nel cammino in proporzione del carbone consumato, e questo per la mediocre qualità di Cardiff avuta a Montevideo. Con 165 tonnellate di carbone bruciato avremmo dovuto correre 800 miglia in mare tranquillo, mentre invece ne facemmo poco più di 600. Quando arrestammo s’era in 3°40’ di latitudine N, ma rimanemmo sette giorni in aspettativa del vento. Sotto la linea la macchina rimase in moto solo 36 ore.

    Regia nave Magenta - www.lavocedelmarinaio.com
    Il tedio di questi giorni perduti fu diminuito dall’emozione d’una pesca straordinaria di dorate che si fece il giorno 12 e di cui il prodotto fu sufficiente per l’intero equipaggio.
    Corremmo fino al 35° meridiano Ovest con venti variabili dal N. all’E, prima di volgere alquanto la prua a Levante; ma passato il 19° grado di latitudine il vento girò all’E e al SE. Nei giorni 28 e 29 febbraio la Magenta ebbe una media di 204 miglia in 24 ore, cosa insolita in questa campagna.
    Ebbimo vento da ponente nei giorni 3, 4, 5, 6, 7, 8 marzo.
    Li 6 marzo (Lat. 26° 38’ N; Long. 20° 18’ O Green) ci chiese del biscotto la barca francese Félicie diretta da Sterboro (costa d’Africa, Sierra Leone) a Marsiglia.
    Il capitano signor Solaro e il nostromo erano ammalati piuttosto gravemente: un marinaro era morto di malattia di petto. La nave avea già settanta giorni di viaggio e le provviste erano esaurite; non rimaneva neppur legna da accendere il fuoco. Si mandò una lancia con 53 chilogrammi di biscotto e tutti gli altri generi necessari, Credevamo arrivare a Gibilterra per 14 marzo e di festeggiarvi la nascita di S.M., ma i giorni 12, 13 e 14 il vento si mantenne fra il N.E. e l’E., e probabilmente saremmo rimasti qualche giorno di più di mare se non ci fossimo aiutati colla macchina.
    Accendemmo a 126 miglia da Gibilterra e nel giungervi avevamo 73 giorni di mare; cioè 20 di più della traversata che fece il Principe Umberto nel 1866.
    (7 marzo – 29 aprile)
    Il Comandante
    V. Arminjon

    Indigeni del Brasile - foto internet - www.lavocedelmarinaio.com

    Vittorio Arminjon (Chambéry (Savoia), 9.10.1830 – Genova, 4.2.1897)
    a cura Antonio Pisanelli (*)

    (Chambéry (Savoia), 9.10.1830 – Genova, 4.2.1897)

    Vittorio Arminjon nacque a Chambéry (Savoia) il 9 ottobre 1830 dal senatore Mathias Arminjon e Henriette Dupy. Entrò a far parte della Regia Scuola Navale di Genova nel 1842 e divenne ufficiale nel 1847. Prestò servizio nel mare Adriatico (1848-1849) e si dimise nel 1860 per entrare nella Marina francese al comando dello Zenobia e successivamente dell’Asmodeus. Fu nominato Cavaliere dell’Ordine della Legion d’Onore. Nel 1861 si unì nuovamente alla Regia Marina Italiana in cui prestò servizio come Capitano di fregata. Nel 1865 comandò la fregata Regina da Napoli a Montevideo e da lì il piroscafo Magenta per un viaggio intorno al mondo. La nave trasportava anche i naturalisti Prof. Enrico Hillyer Giglioli e Filippo de Filippi che raccolsero e descrissero vari esemplari zoologici tra cui un genere di Pterodroma che prese il nome di Arminjon come Pterodroma arminjoniana. Nel 1866 firmò trattati commerciali per l’Italia con il Giappone e la Cina. Fu nominato Comandante dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazare nel febbraio 1867. In seguito prestò servizio come Direttore degli armamenti e fu nominato Comandante della Royal Naval School. Nel 1876 fu promosso Contrammiraglio e prestò servizio sulla corazzata Roma. Si dimise nel 1877 e trascorse il tempo studiando agraria e sperimentando la chimica applicata nelle sue terre piemontesi.
    Scrisse numerose opere quali: Il Giappone e il viaggio della corvetta Magenta nel 1866 per V. F. Arminjon (1869), Elementi di attrezzatura manovra, Corazzate e Torpediniere (1888) e Le métayage dans ses rabboris avec la coutume (1894). Taciamo poi dei suoi molti studi ed articoli comparsi sulla Rassegna Nazionale di Roma di cui era assiduo collaboratore.
    Nel 1882, in occasione del quarto centenario del servizio di Cristoforo Colombo a Isabella I di Castiglia, l’ammiraglio Arminjon ricevette la Croce al merito navale dal re Alfonso XII di Spagna.
    E’ deceduto  
    a Genova il 5 febbraio 1897.

    (*) per conoscere le altre sue ricerche digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome.

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    15.3.1937, entra in servizio regia nave Cigno (3^)

    di Carlo Di Nitto

    La regia torpediniera “Cigno” (3^), classe “Spica”, serie “Climene” dislocava 1010 tonnellate a pieno carico. Era stata impostata l’11 marzo 1936 presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona. Varata il 24 novembre 1936, entrò in servizio nella Regia Marina il 15 marzo 1937.
    Dopo un breve periodo di addestramento in Alto Adriatico, fu assegnata all’11^ Squadriglia facente base in Sicilia. Qui svolse notevole attività addestrativa effettuando anche crociere di repressione del contrabbando di guerra diretto in Spagna.
    Allo scoppio del 2° conflitto mondiale venne assegnata al Comando della Marina in Libia ed iniziò una intensa attività effettuando numerose missioni di scorta tra l’Africa Settentrionale e la Sicilia. Venne anche impiegata in pattugliamenti notturni, ricerca di sommergibili avversari e anche trasporto di truppe e materiali quando lo sfavorevole andamento delle operazioni belliche in Nord Africa lo impose.
    Complessivamente effettuò 153 missioni di guerra, scontrandosi più volte con unità ed aerei nemici. In particolare il 17 luglio 1941, stando in porto a Bengasi, durante un bombardamento ebbe 24 morti fra i suoi Marinai. In altre occasioni la sua reazione conseguì, in varie riprese, l’abbattimento di ben otto aerei avversari. Anche le sue azioni anti sommergibile furono oltremodo efficaci. Particolarmente importante fu l’opera di salvataggio dei naufraghi degli incrociatori “Da Barbiano” e “Di Giussano” che erano stati affondati la notte del 13 dicembre 1941 presso le coste tunisine. In quel contesto la “Cigno” recuperò ben 550 uomini, in gran parte feriti e ustionati.

    Il 16 aprile 1943, verso le ore 01.00, l’unità, insieme alla gemella “Cassiopea”, era partita da Trapani per scorta avanzata ad un convoglio diretto a Tunisi. Verso le ore 02.40, le due nostre torpediniere avvistarono due cacciatorpediniere inglesi. Si sviluppò immediatamente un vivace scontro durante il quale la “Cigno” centrò una delle due unità avversarie. Purtroppo alle ore 03.00 venne colpita in caldaia e poco dopo un siluro la fece affondare spezzata in due, mentre continuava a sparare. Poco dopo  le unità nemiche si disimpegnarono e dopo quattro ore uno dei due CC.TT. affondò per i danni subiti ad opera della nostra unità. La “Cassiopea”, anche se duramente danneggiata, riuscì invece a rientrare in acque nazionali.
    Nell’affondamento della torpediniera “Cigno”, soltanto 47 componenti dell’equipaggio sopravvissero.  Altri 103 persero la vita.
    ONORE AI CADUTI!

    La regia torpediniera Cigno e la mascotte Leda
    di Orazio Ferrara (*)

    La regia nave Cigno(**), torpediniera della classe Spica tipo Climene, si distinse particolarmente nel secondo conflitto mondiale per la sua combattività, partecipando come unità di scorta ai nostri convogli di rifornimento per la Libia prima e per la Tunisia dopo.
    La Cigno, costruita dai Cantieri Navali di Ancona ed entrata in servizio il 15 marzo 1937, aveva un dislocamento di 1.010 tonnellate a pieno carico e poteva raggiungere la velocità di 34 nodi orari. L’armamento era costituito da 3 cannoni da 100/47 OTO Mod. 1931, da 4 impianti binati di mitragliere da 13,2 mm Breda Mod. 31, da 4 tubi lanciasiluri da 450 mm, da 2 lanciabombe di profondità e da attrezzature per il trasporto e la posa di 20 mine. Nel corso dell’anno 1941 le mitragliere da 13,2 mm, ormai sorpassate, vennero sostituite dalle ben più efficaci mitragliere  da 20/65 mm, inoltre si aggiunsero altri 2 lanciabombe di profondità.
    Nella sua scorta ai convogli per l’Africa Settentrionale la Cigno salpava solitamente dal porto di Trapani e, o all’andata o al ritorno, spesso faceva una breve sosta gettando l’ancora nella rada antistante il porto di Pantelleria. Una lancia della torpediniera andava quindi a riva, subito dopo, mentre il guardiamarina si recava in Capitaneria per eventuali urgenti comunicazioni, i marinai davano vita ad una sorta di primitivo baratto con gli isolani. Il tutto in una manciata di ore.
    Quelli della Cigno offrivano prodotti particolarmente ricercati in quel tempo di guerra quali caffè, zucchero, sigarette, ma anche scatolette di carne e confezioni di gallette, in cambio i panteschi davano vino, moscato, passito, uva passola, dolci tipici del posto, pollame e conigli. Lo scambio era sì particolarmente vivace e contrastato, ma per la verità non ci furono mai litigi di sorta e alla fine ambedue le parti risultarono sempre contente e soddisfatte.

    Si stabilì così un’intensa e immediata corrente di simpatia tra i panteschi e i marinai della Cigno, tanto che quando quest’ultima fu affondata nel ’43 con la perdita di gran parte dell’equipaggio, nell’isola vi fu profonda commozione e costernazione come se la comunità avesse perduto dei suoi figli. Pantelleria non dimenticò mai quei prodi, tant’è che 75 anni dopo, con deliberazione della Giunta Municipale n° 41 del 15 marzo 2018 uno slargo alla via  Palazzetto Errera venne intitolato “Slargo Caduti Torpediniera Cigno”. Il gesto del pietoso ricordo fa onore a quegli amministratori e alla cittadinanza tutta.
    Ma torniamo alla nostra storia. Nella primavera del 1941, nelle ore pomeridiane, gettò l’ancora nella rada di Pantelleria la torpediniera Cigno. Ben presto fu calata la lancia, dove presero posto un guardiamarina e quattro marinai con altrettanti grossi pacchi per il consueto baratto. La banchina fu presto raggiunta con la solita voga accelerata e, mentre il guardiamarina si recava in Capitaneria, i marinai iniziarono con gli isolani lo scambio delle merci. Dopo qualche ore la lancia ritornò alla nave e fu issata a bordo. Come sempre si radunò gran parte dell’equipaggio per vedere e commentare il frutto del baratto appena concluso, ma nel mentre si apriva la grossa cesta del pollame e dei conigli saltò fuori scodinzolando un piccolo bastardino di cane. Era di colore bianco pezzato di nero.
    Il cucciolo, anzi la cucciola come sentenziò dopo una rapida occhiata l’infermiere di bordo, cominciò subito a far festa  ai marinai presenti, che la osservavano piacevolmente sorpresi. La decisione fu subitanea e unanime, dal quel momento quella cagnetta sarebbe stata la mascotte della Cigno. Del fatto fu immediatamente informato il comandante, il capitano di corvetta Nicola Riccardi, che si dichiarò pienamente d’accordo. Anche per il nome non si perse tempo, si sarebbe chiamata Leda. E non poteva essere altrimenti, Leda e Cigno, un amore millenario che si perdeva nella notte dei tempi della mitologia.
    Intanto il conflitto continuava e la torpediniera Cigno era continuamente impegnata in missioni belliche. Tutti i marinai erano all’occasione compagni di gioco della cagnetta-mascotte che li riconosceva uno per uno. Rimpinguata di cibo dagli stessi, essa crebbe a vista, restando però alla fine una cagnetta di piccole dimensioni. La sua cuccia  fu costruita a ridosso del cannone di poppa, mentre l’armaiolo Cuccurullo le fece un collare con la piastrina di riconoscimento, su cui era inciso  al davanti “Leda R.M. Italiana” e al retro la data d’imbarco. Non si menzionò il nome della nave in quanto, come da precise e rigorose disposizioni, in caso di naufragio quel nome non si rendesse così noto al nemico. E proprio per un eventuale e malaugurato naufragio il cannoniere Impalomeni  fece per Leda un apposito giubbotto di salvataggio con del sughero ricoperto di vivace stoffa rossa da scorgersi anche tra le onde.
    Da quella primavera del 1941 la torpediniera Cigno partecipò a numerosissime missioni di guerra, molte delle quali assai pericolose e spesso in diretto combattimento col nemico. E sempre ne uscì in qualche modo indenne o con danni non gravi. I suoi marinai la ritenevano una nave fortunata e ne davano il merito alla sua mascotte, la piccola e discola cagnetta Leda. Si sa che nell’angolo più riposto del cuore di ogni marinaio alberga da sempre una forma larvata di superstizione (non ci credo, ma però…).
    Quella cagnetta, col suo andare velocemente da poppa a prua scodinzolando, rasserenava e rincuorava i marinai anche nelle ore più cupe e disperate, come nelle tragica notte di Santa Lucia del dicembre ’41 quando furono affondati i nostri due incrociatori leggeri Alberico da Barbiano e Alberto di Giussano. La Cigno, facente parte di quella squadra, dopo uno scontro a fuoco con la nave nemica Isaac Sweers raccolse oltre 500 naufraghi, riportandoli in salvo a Trapani.
    Nell’andirivieni delle missioni della Cigno in Mediterraneo, Leda ebbe modo di conoscere tutti i porti e le loro banchine, da Napoli a Trapani, da Tobruk a Tripoli, da Tunisi, a Biserta. Il copione era sempre lo stesso, scendeva a terra e andava a gironzolare nei dintorni e a cercare bambini con cui giocare, immancabilmente dopo qualche ora di libertà tornava a bordo, non poche volte accompagnata da un cagnetto innamorato, che quasi sempre si fermava al limite della passarella. Però c’era il solito bastardino temerario che voleva salire anch’esso, a questo punto il marinaio di guardia aveva un bel po’da fare per fermare l’intruso.
    Un giorno dell’inverno di guerra ‘42/’43 la torpediniera Cigno gettò l’ancora nella rada di Pantelleria. Come al solito Leda prese posto nella lancia e andò a riva con i marinai. Si allontanò quindi per il suo consueto giretto. Generalmente i marinai la ritrovavano poi al ritorno sul molo presso la lancia. Ma quel giorno la cagnetta non c’era ad aspettarli. Frenetiche ricerche, chiamandola ripetutamente per nome. Ma niente, Leda sembrava scomparsa nel nulla. Si aspettò alquanto tempo, ma invano. La guerra non permetteva sentimentalismi di sorta, fu quindi giocoforza ritornare a bordo. Qui si dovette dar conto del triste accadimento agli altri membri dell’equipaggio, perché tutti si erano ormai affezionati a quella cagnetta.
    Al momento di togliere l’ancora e salpare la costernazione tra i marinai era generale. Qualcuno disse che in fondo era meglio così perché Leda era ritornata al luogo natio, ma qualcun altro espresse ad alta voce quello che pensavano tutti; perdendo la sua mascotte porta-fortuna anche la fortuna si sarebbe allontanata dalla Cigno. Si corse ai ripari, appendendo il rosso giubbotto di salvataggio presso  il cannone di poppa, dov’era la cuccia della cagnetta. Era il simulacro della mascotte scomparsa e forse poteva bastare ad allontanare i pericoli della guerra. Ma non bastò.

    E venne il giorno del tragico epilogo, dove mancò la fortuna, ma non il valore degli uomini della Leda.
    Era l’una di notte del 16 aprile 1943 quando dal porto di Trapani salpò alla volta di Tunisi la motonave Belluno, carica di materiale bellico strategico per le nostre truppe, che combattevano le loro ultime eroiche e disperate battaglie in terra d’Africa. Scortavano la nave la torpediniera Cigno e la gemella  Cassiopea. Due ore dopo, per aggregarsi sempre alla scorta della Belluno, partivano da Palermo anche le torpediniere Climene e Tifone.
    Alle ore 02.38, a sud dell’isola di Marettimo, il convoglio di rifornimento, non ancora raggiunto dalle torpediniere salpate da Palermo, incappò, per sua malasorte, nei due caccia britannici HMS Paladin e HMS Pakenham, partiti poche ore prima da Malta. Lo scontro era impari e l’esito scontato a favore degli inglesi, perché le due torpediniere per dimensioni e potenza di fuoco nulla potevano contro i due caccia avversari.
    Malgrado ciò la Cigno, aprendo il fuoco, serrò coraggiosamente sotto al Pakenham, così anche la Cassiopea nei confronti del Paladin. Queste manovre suicide degli italiani erano state fatte per far allontanare, in sicurezza, dalla zona di combattimento la Belluno con il suo prezioso carico. Infatti la motonave riuscì a proseguire senza danni verso Tunisi.
    Intanto lo scontro divenne ben presto più duro e accanito. La Cigno colpì ripetutamente con le sue salve il Pakenham, uccidendo 10 uomini del suo equipaggio. Particolarmente accurato e preciso il tiro delle mitragliere del complesso di prora, diretto in coperta dal guardiamarina Armando Montani da Bologna di anni 23, già decorato di croce di guerra per un precedente atto di coraggio nel 1942.
    Purtroppo un colpo del Pakenham colpì la sala macchine della Cigno, immobilizzandola e quindi rendendola un bersaglio immobile sotto i devastanti e ripetuti colpi dei cannoni del caccia nemico. In breve la torpediniera divenne un relitto galleggiante, che un successivo siluro spezzò letteralmente in due tronconi, i quali s’inabissarono rapidamente trascinando con loro, negli abissi marini, decine e decine di marinai.
    Anche lo scontro tra la Cassiopea e il Paladin stava volgendo al termine. Il caccia inglese aveva sì subito dei seri danni, ma il fuoco dei suoi cannoni sovrastava ormai quello di minore potenza della torpediniera italiana, peraltro già gravemente danneggiata. Sembrava ripetersi il triste copione della Cigno, quando improvvisamente il Paladin abbandonò il combattimento e si diresse velocemente verso il Pakenham in evidente difficoltà. Poco dopo le due unità della Royal Navy abbandonarono la zona.
    Nell’affondamento della torpediniera Cigno persero la vita 103 membri dell’equipaggio, se ne salvarono soltanto 43. Tra i caduti il prode guardiamarina Armando Montani. Si raccontò poi, da parte dei superstiti, che il Montani avesse continuato a far sparare le mitragliere fino a quando le onde lambirono la coperta, quindi, lanciatosi in acqua, si era messo in salvo su una zattera di fortuna. Ma vedendo due marinai dei suoi pezzi sul punto di affogare, non esitò a buttarsi nuovamente in mare e con sforzi inauditi a salvare ambedue, issandoli infine sulla zattera. Lo sforzo sovrumano però aveva schiantato il generoso cuore del guardiamarina, che così scomparve tra i gorghi del mare, ma prima ebbe la forza di gridare ai suoi marinai “Se vi prendono prigionieri non dite il nome della vostra nave”.
    Forse era stato proprio lui a non voler fare incidere il nome della nave sul collare della mascotte Leda.
    All’eroico guardiamarina veniva poi concessa la medaglia d’argento al valor militare (ma avrebbe meritato di certo quella d’oro). Bellissima la motivazione.
    A Montani Armando Guardiamarina, nato a Bologna il 29-1-1920. Alla memoria – Sul campo. “Ripetutamente chiedeva ed otteneva l’imbarco su naviglio silurante. Destinato alle mitragliere su una torpediniera più volte fatta segno, in numerose missioni di scorta a convogli a violenti attacchi aerei e subacquei,  contribuiva all’abbattimento di numerosi aerei e alla salvezza di molti convogli. In rapido e duro combattimento notturno contro preponderanti forze navali nemiche, apriva il fuoco delle mitragliere con prontezza e decisione. Colpita ed immobilizzata la propria unità restava al suo posto sino all’ultimo. Raggiunta faticosamente una zattera esauriva le proprie forze per salvare ripetutamente altri naufraghi, rivolgendo altresì nobili parole di incitamento ai superstiti ai quali raccomandava, qualora fossero catturati dal nemico, di non rivelare il nome della loro nave.
    Infine scompariva nei flutti, conscio di avere, col proprio sacrificio, contribuito alla salvezza del convoglio.
    Canale di Sicilia, 16 aprile 1943”.


    Ma anche per il cacciatorpediniere inglese Pakenham, colpito più volte dalla Cigno, andò malissimo. Il Paladin cercò di trainarlo verso un porto alleato, ma per il peggioramento delle sue condizioni di galleggiabilità l’Ammiragliato britannico ordinò di affondarlo. Scompariva così negli abissi del mare, a nord di Pantelleria, l’HMS Pakenham da 2.270 tonnellate. Era l’alba del 17 aprile 1943 ed era passata solo una manciata di ore dalla fine del Cigno.
    Oggigiorno fanno sorridere (?) alcuni siti inglesi che citano la perdita del Pakenham senza mai collegarla direttamente con la piccola torpediniera italiana Cigno.
    Qualche giorno dopo la battaglia del 16 aprile nelle acque di Pantelleria veniva ritrovato il corpo di un marinaio della Cigno con un giubbotto di salvataggio con scritto il nome di Athos D’Orazi. E con quest’ultimo nome vennero quindi sepolti quei miseri resti nel cimitero dell’isola. Soltanto anni dopo salterà fuori la verità. Il corpo sepolto era di un altro marinaio, sempre della Cigno, che rispondeva al nome di Rolando Bulletti, toscano, di anni 22, dichiarato “disperso”. A svelare il mistero era stato il fiorentino Athos D’Orazi non affatto morto, era stato lui, all’epoca dei fatti sergente sulla torpediniera affondata, a dare al suo compaesano quel giubbotto ritenendolo più sicuro. Successivamente i resti del Bulletti vennero traslati nel luogo natio e adesso riposano al cimitero di “La Querce” di Prato.
    E la cagnetta-mascotte Leda? Per quante ricerche effettuate non abbiamo trovato nulla. Eppure… un lumicino c’è nel buio assoluto. Sfogliando le nostre foto d’archivio su Pantelleria in guerra, abbiamo trovato una foto del giorno della resa dell’isola, che ritrae un gruppo di abitanti d’isola. Nella foto in questione si vede un ragazzo con un cagnetto in mano, che grosso modo rassomiglia, per dimensioni, colore e orecchie abbassate, a Leda in una foto scattata sulla Cigno a Tripoli, soltanto che quest’ultima  foto è assai grossolana nei dettagli per fare un raffronto più preciso e giungere a delle conclusioni.

    Noi comunque preferiamo immaginare che sia Leda, l’amata mascotte della Cigno, in ambedue le foto e che quindi la cagnetta sia uscita indenne dai terribili bombardamenti alleati e abbia continuato a giocare con i ragazzi di Pantelleria, la sua terra natia.

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    La prima vasca navale

    di Antonio Cimmino

    Per lo studio della resistenza al moto (attrito) e dei coefficienti propulsivi di una carena, si usano delle prove sperimentali su modelli di ridotte dimensioni in apposite vasche all’uopo attrezzate. I risultati così ottenuti sono trasferiti alla reale carena applicando una apposta legge studiata dall’ingegnere inglese William Froude, considerato il padre della moderna architettura navale e dell’idrodinamica sperimentale.


    La Regia Marina utilizzò per tali esperimenti la vasca navale costruita a Spezia per volere del ministro Benedetto Brin e realizzata dagli ingegneri del genio navale Nabor Soliani e Giuseppe Rota nel 1889. Tutti e tre, in epoche diverse e con diverse mansioni, sono stati nel cantiere di Castellammare.

    La vasca nell’arsenale di Spezia, fatta costruita nel 1887 da Brin, Ministro della Marina, era quella del tipo di Gosport presso l’arsenale di Portsmouth, alla quale ricorrevano, per gli esperimenti per le loro navi, i governi di Germania, Austria-Ungheria e Portogallo. La vasca era lunga metri 146, larga 6 e con la massima profondità di 8 metri. Prima della realizzazione della vasca a Spezia, però, gli esperimenti di Froude furono compiuti proprio nel cantiere navale stabiese.

    Brin, infatti, durante la costruzione della corazzata Duilio, fece approntare in cantiere una specie di vasca navale, lunga circa 45 metri, collegando tra loro due vasche utilizzate per la conservazione del legname. I lavori eseguiti dall’ingegnere del genio Alfredo Lettieri, permisero di calcolare, secondo il metodo Froude, su un modello di carena del Duilio, gli elementi per le alette di rollio. L’esperimento fu fatto utilizzando modelli di legno foderati di stagnola. Giuseppe Rota nel volume “Esperienze di architettura navale nel R. arsenale di Spezia” edito dal Ministero della Marina nel 1898, così descrisse l’esperimento:
    Apparecchio per la trazione dei modelli, formato da un cilindro C formato di lamiere sottile, il quale può ruotare intorno al suo asse. Nell’interno del cilindro vi è un adeguato sostegno per una puleggia V, sulla cui gola si abbraccia un cavo di piccolo diametro che sorregge un piattello S, fornito di una matita z, la quale mantenendosi sempre a contatto col cilindro C. L’altro capo della piccola fune viene fissati al tamburo t, dopo che si è avvolta una lunghezza m-n della fune stessa.
    Il tamburo t è girevole intorno allo stesso asse della puleggia R, con la quale fa corpo, e su di essa si avvolge la piccola fune f, che al suo estremo tiene legato il modello. Sul cilindro C si segnano le circonferenze r,r’,r” a distanze eguali in altezza. Sovra ognuna di esse si traccia la scala del tempo. Infine la parte inferiore del cilindro C si ingrana con l’altra ruota T ad asse orizzontale, calettata al tamburo V, il quale, abbracciata da una cinghia, serve a trasmettere il movimento. Tale in succinto il meccanismo. Per farsi un’idea del funzionamento dell’apparato, supponiamo che nel piattello s vi sia un peso P, e supponiamo all’estremità della piccola fune flegato il modello, il quale sia tenuto nella posizione di partenza da un ritegno r. Si metta in moto la trasmissione: allora il cilindro girerà e la punta z segnerà una circonferenza. All’istante cui lo zero passa nuovamente per la posizione della matita si lasci libero il modello.
    Per effetto del peso P il piattello discenderà e svolgendosi la fune già avviluppata al tamburo t,si avvolgerà l’altra fune f sulla puleggia R, cosicché il modello inizierà il suo movimento. Nello stesso tempo, per effetto del moto combinato del piattello e del cilindro, la matita z segnerà su quello una curva la quale sarà un’elica allorché, stabilitosi l’equilibrio dinamico, il modello acquisterò moto uniforme.

    Con questo apparecchio si aveva la possibilità di ricavare con qualche approssimazione le resistenze dei modelli a diverse velocità di trascinamento.

    Si effettuarono così alcune esperienze col modello della corazzata Duilio, in quell’epoca in costruzione nel cantiere di Castellammare di Stabia, determinando gli elementi delle chiglie laterali di rollio”. 

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    11.3.1936, impostazione della regia nave Cigno

    di Carlo Di Nitto

    La regia torpediniera “Cigno” (3^), classe “Spica”, serie “Climene” dislocava 1010 tonnellate a pieno carico. Era stata impostata l’11 marzo 1936 presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona. Varata il 24 novembre 1936, entrò in servizio nella Regia Marina il 15 marzo 1937.
    Dopo un breve periodo di addestramento in Alto Adriatico, fu assegnata all’11^ Squadriglia facente base in Sicilia. Qui svolse notevole attività addestrativa effettuando anche crociere di repressione del contrabbando di guerra diretto in Spagna.
    Allo scoppio del 2° conflitto mondiale venne assegnata al Comando della Marina in Libia ed iniziò una intensa attività effettuando numerose missioni di scorta tra l’Africa Settentrionale e la Sicilia. Venne anche impiegata in pattugliamenti notturni, ricerca di sommergibili avversari e anche trasporto di truppe e materiali quando lo sfavorevole andamento delle operazioni belliche in Nord Africa lo impose.
    Complessivamente effettuò 153 missioni di guerra, scontrandosi più volte con unità ed aerei nemici. In particolare il 17 luglio 1941, stando in porto a Bengasi, durante un bombardamento ebbe 24 morti fra i suoi Marinai. In altre occasioni la sua reazione conseguì, in varie riprese, l’abbattimento di ben otto aerei avversari. Anche le sue azioni anti sommergibile furono oltremodo efficaci. Particolarmente importante fu l’opera di salvataggio dei naufraghi degli incrociatori “Da Barbiano” e “Di Giussano” che erano stati affondati la notte del 13 dicembre 1941 presso le coste tunisine. In quel contesto la “Cigno” recuperò ben 550 uomini, in gran parte feriti e ustionati.

    Il 16 aprile 1943, verso le ore 01.00, l’unità, insieme alla gemella “Cassiopea”, era partita da Trapani per scorta avanzata ad un convoglio diretto a Tunisi. Verso le ore 02.40, le due nostre torpediniere avvistarono due cacciatorpediniere inglesi. Si sviluppò immediatamente un vivace scontro durante il quale la “Cigno” centrò una delle due unità avversarie. Purtroppo alle ore 03.00 venne colpita in caldaia e poco dopo un siluro la fece affondare spezzata in due, mentre continuava a sparare. Poco dopo  le unità nemiche si disimpegnarono e dopo quattro ore uno dei due CC.TT. affondò per i danni subiti ad opera della nostra unità. La “Cassiopea”, anche se duramente danneggiata, riuscì invece a rientrare in acque nazionali.
    Nell’affondamento della torpediniera “Cigno”, soltanto 47 componenti dell’equipaggio sopravvissero.  Altri 103 persero la vita.
    ONORE AI CADUTI!

    La regia torpediniera Cigno e la mascotte Leda
    di Orazio Ferrara (*)

    La regia nave Cigno(**), torpediniera della classe Spica tipo Climene, si distinse particolarmente nel secondo conflitto mondiale per la sua combattività, partecipando come unità di scorta ai nostri convogli di rifornimento per la Libia prima e per la Tunisia dopo.
    La Cigno, costruita dai Cantieri Navali di Ancona ed entrata in servizio il 15 marzo 1937, aveva un dislocamento di 1.010 tonnellate a pieno carico e poteva raggiungere la velocità di 34 nodi orari. L’armamento era costituito da 3 cannoni da 100/47 OTO Mod. 1931, da 4 impianti binati di mitragliere da 13,2 mm Breda Mod. 31, da 4 tubi lanciasiluri da 450 mm, da 2 lanciabombe di profondità e da attrezzature per il trasporto e la posa di 20 mine. Nel corso dell’anno 1941 le mitragliere da 13,2 mm, ormai sorpassate, vennero sostituite dalle ben più efficaci mitragliere  da 20/65 mm, inoltre si aggiunsero altri 2 lanciabombe di profondità.
    Nella sua scorta ai convogli per l’Africa Settentrionale la Cigno salpava solitamente dal porto di Trapani e, o all’andata o al ritorno, spesso faceva una breve sosta gettando l’ancora nella rada antistante il porto di Pantelleria. Una lancia della torpediniera andava quindi a riva, subito dopo, mentre il guardiamarina si recava in Capitaneria per eventuali urgenti comunicazioni, i marinai davano vita ad una sorta di primitivo baratto con gli isolani. Il tutto in una manciata di ore.
    Quelli della Cigno offrivano prodotti particolarmente ricercati in quel tempo di guerra quali caffè, zucchero, sigarette, ma anche scatolette di carne e confezioni di gallette, in cambio i panteschi davano vino, moscato, passito, uva passola, dolci tipici del posto, pollame e conigli. Lo scambio era sì particolarmente vivace e contrastato, ma per la verità non ci furono mai litigi di sorta e alla fine ambedue le parti risultarono sempre contente e soddisfatte.

    Si stabilì così un’intensa e immediata corrente di simpatia tra i panteschi e i marinai della Cigno, tanto che quando quest’ultima fu affondata nel ’43 con la perdita di gran parte dell’equipaggio, nell’isola vi fu profonda commozione e costernazione come se la comunità avesse perduto dei suoi figli. Pantelleria non dimenticò mai quei prodi, tant’è che 75 anni dopo, con deliberazione della Giunta Municipale n° 41 del 15 marzo 2018 uno slargo alla via  Palazzetto Errera venne intitolato “Slargo Caduti Torpediniera Cigno”. Il gesto del pietoso ricordo fa onore a quegli amministratori e alla cittadinanza tutta.
    Ma torniamo alla nostra storia. Nella primavera del 1941, nelle ore pomeridiane, gettò l’ancora nella rada di Pantelleria la torpediniera Cigno. Ben presto fu calata la lancia, dove presero posto un guardiamarina e quattro marinai con altrettanti grossi pacchi per il consueto baratto. La banchina fu presto raggiunta con la solita voga accelerata e, mentre il guardiamarina si recava in Capitaneria, i marinai iniziarono con gli isolani lo scambio delle merci. Dopo qualche ore la lancia ritornò alla nave e fu issata a bordo. Come sempre si radunò gran parte dell’equipaggio per vedere e commentare il frutto del baratto appena concluso, ma nel mentre si apriva la grossa cesta del pollame e dei conigli saltò fuori scodinzolando un piccolo bastardino di cane. Era di colore bianco pezzato di nero.
    Il cucciolo, anzi la cucciola come sentenziò dopo una rapida occhiata l’infermiere di bordo, cominciò subito a far festa  ai marinai presenti, che la osservavano piacevolmente sorpresi. La decisione fu subitanea e unanime, dal quel momento quella cagnetta sarebbe stata la mascotte della Cigno. Del fatto fu immediatamente informato il comandante, il capitano di corvetta Nicola Riccardi, che si dichiarò pienamente d’accordo. Anche per il nome non si perse tempo, si sarebbe chiamata Leda. E non poteva essere altrimenti, Leda e Cigno, un amore millenario che si perdeva nella notte dei tempi della mitologia.
    Intanto il conflitto continuava e la torpediniera Cigno era continuamente impegnata in missioni belliche. Tutti i marinai erano all’occasione compagni di gioco della cagnetta-mascotte che li riconosceva uno per uno. Rimpinguata di cibo dagli stessi, essa crebbe a vista, restando però alla fine una cagnetta di piccole dimensioni. La sua cuccia  fu costruita a ridosso del cannone di poppa, mentre l’armaiolo Cuccurullo le fece un collare con la piastrina di riconoscimento, su cui era inciso  al davanti “Leda R.M. Italiana” e al retro la data d’imbarco. Non si menzionò il nome della nave in quanto, come da precise e rigorose disposizioni, in caso di naufragio quel nome non si rendesse così noto al nemico. E proprio per un eventuale e malaugurato naufragio il cannoniere Impalomeni  fece per Leda un apposito giubbotto di salvataggio con del sughero ricoperto di vivace stoffa rossa da scorgersi anche tra le onde.
    Da quella primavera del 1941 la torpediniera Cigno partecipò a numerosissime missioni di guerra, molte delle quali assai pericolose e spesso in diretto combattimento col nemico. E sempre ne uscì in qualche modo indenne o con danni non gravi. I suoi marinai la ritenevano una nave fortunata e ne davano il merito alla sua mascotte, la piccola e discola cagnetta Leda. Si sa che nell’angolo più riposto del cuore di ogni marinaio alberga da sempre una forma larvata di superstizione (non ci credo, ma però…).
    Quella cagnetta, col suo andare velocemente da poppa a prua scodinzolando, rasserenava e rincuorava i marinai anche nelle ore più cupe e disperate, come nelle tragica notte di Santa Lucia del dicembre ’41 quando furono affondati i nostri due incrociatori leggeri Alberico da Barbiano e Alberto di Giussano. La Cigno, facente parte di quella squadra, dopo uno scontro a fuoco con la nave nemica Isaac Sweers raccolse oltre 500 naufraghi, riportandoli in salvo a Trapani.
    Nell’andirivieni delle missioni della Cigno in Mediterraneo, Leda ebbe modo di conoscere tutti i porti e le loro banchine, da Napoli a Trapani, da Tobruk a Tripoli, da Tunisi, a Biserta. Il copione era sempre lo stesso, scendeva a terra e andava a gironzolare nei dintorni e a cercare bambini con cui giocare, immancabilmente dopo qualche ora di libertà tornava a bordo, non poche volte accompagnata da un cagnetto innamorato, che quasi sempre si fermava al limite della passarella. Però c’era il solito bastardino temerario che voleva salire anch’esso, a questo punto il marinaio di guardia aveva un bel po’da fare per fermare l’intruso.
    Un giorno dell’inverno di guerra ‘42/’43 la torpediniera Cigno gettò l’ancora nella rada di Pantelleria. Come al solito Leda prese posto nella lancia e andò a riva con i marinai. Si allontanò quindi per il suo consueto giretto. Generalmente i marinai la ritrovavano poi al ritorno sul molo presso la lancia. Ma quel giorno la cagnetta non c’era ad aspettarli. Frenetiche ricerche, chiamandola ripetutamente per nome. Ma niente, Leda sembrava scomparsa nel nulla. Si aspettò alquanto tempo, ma invano. La guerra non permetteva sentimentalismi di sorta, fu quindi giocoforza ritornare a bordo. Qui si dovette dar conto del triste accadimento agli altri membri dell’equipaggio, perché tutti si erano ormai affezionati a quella cagnetta.
    Al momento di togliere l’ancora e salpare la costernazione tra i marinai era generale. Qualcuno disse che in fondo era meglio così perché Leda era ritornata al luogo natio, ma qualcun altro espresse ad alta voce quello che pensavano tutti; perdendo la sua mascotte porta-fortuna anche la fortuna si sarebbe allontanata dalla Cigno. Si corse ai ripari, appendendo il rosso giubbotto di salvataggio presso  il cannone di poppa, dov’era la cuccia della cagnetta. Era il simulacro della mascotte scomparsa e forse poteva bastare ad allontanare i pericoli della guerra. Ma non bastò.

    E venne il giorno del tragico epilogo, dove mancò la fortuna, ma non il valore degli uomini della Leda.
    Era l’una di notte del 16 aprile 1943 quando dal porto di Trapani salpò alla volta di Tunisi la motonave Belluno, carica di materiale bellico strategico per le nostre truppe, che combattevano le loro ultime eroiche e disperate battaglie in terra d’Africa. Scortavano la nave la torpediniera Cigno e la gemella  Cassiopea. Due ore dopo, per aggregarsi sempre alla scorta della Belluno, partivano da Palermo anche le torpediniere Climene e Tifone.
    Alle ore 02.38, a sud dell’isola di Marettimo, il convoglio di rifornimento, non ancora raggiunto dalle torpediniere salpate da Palermo, incappò, per sua malasorte, nei due caccia britannici HMS Paladin e HMS Pakenham, partiti poche ore prima da Malta. Lo scontro era impari e l’esito scontato a favore degli inglesi, perché le due torpediniere per dimensioni e potenza di fuoco nulla potevano contro i due caccia avversari.
    Malgrado ciò la Cigno, aprendo il fuoco, serrò coraggiosamente sotto al Pakenham, così anche la Cassiopea nei confronti del Paladin. Queste manovre suicide degli italiani erano state fatte per far allontanare, in sicurezza, dalla zona di combattimento la Belluno con il suo prezioso carico. Infatti la motonave riuscì a proseguire senza danni verso Tunisi.
    Intanto lo scontro divenne ben presto più duro e accanito. La Cigno colpì ripetutamente con le sue salve il Pakenham, uccidendo 10 uomini del suo equipaggio. Particolarmente accurato e preciso il tiro delle mitragliere del complesso di prora, diretto in coperta dal guardiamarina Armando Montani da Bologna di anni 23, già decorato di croce di guerra per un precedente atto di coraggio nel 1942.
    Purtroppo un colpo del Pakenham colpì la sala macchine della Cigno, immobilizzandola e quindi rendendola un bersaglio immobile sotto i devastanti e ripetuti colpi dei cannoni del caccia nemico. In breve la torpediniera divenne un relitto galleggiante, che un successivo siluro spezzò letteralmente in due tronconi, i quali s’inabissarono rapidamente trascinando con loro, negli abissi marini, decine e decine di marinai.
    Anche lo scontro tra la Cassiopea e il Paladin stava volgendo al termine. Il caccia inglese aveva sì subito dei seri danni, ma il fuoco dei suoi cannoni sovrastava ormai quello di minore potenza della torpediniera italiana, peraltro già gravemente danneggiata. Sembrava ripetersi il triste copione della Cigno, quando improvvisamente il Paladin abbandonò il combattimento e si diresse velocemente verso il Pakenham in evidente difficoltà. Poco dopo le due unità della Royal Navy abbandonarono la zona.
    Nell’affondamento della torpediniera Cigno persero la vita 103 membri dell’equipaggio, se ne salvarono soltanto 43. Tra i caduti il prode guardiamarina Armando Montani. Si raccontò poi, da parte dei superstiti, che il Montani avesse continuato a far sparare le mitragliere fino a quando le onde lambirono la coperta, quindi, lanciatosi in acqua, si era messo in salvo su una zattera di fortuna. Ma vedendo due marinai dei suoi pezzi sul punto di affogare, non esitò a buttarsi nuovamente in mare e con sforzi inauditi a salvare ambedue, issandoli infine sulla zattera. Lo sforzo sovrumano però aveva schiantato il generoso cuore del guardiamarina, che così scomparve tra i gorghi del mare, ma prima ebbe la forza di gridare ai suoi marinai “Se vi prendono prigionieri non dite il nome della vostra nave”.
    Forse era stato proprio lui a non voler fare incidere il nome della nave sul collare della mascotte Leda.
    All’eroico guardiamarina veniva poi concessa la medaglia d’argento al valor militare (ma avrebbe meritato di certo quella d’oro). Bellissima la motivazione.
    A Montani Armando Guardiamarina, nato a Bologna il 29-1-1920. Alla memoria – Sul campo. “Ripetutamente chiedeva ed otteneva l’imbarco su naviglio silurante. Destinato alle mitragliere su una torpediniera più volte fatta segno, in numerose missioni di scorta a convogli a violenti attacchi aerei e subacquei,  contribuiva all’abbattimento di numerosi aerei e alla salvezza di molti convogli. In rapido e duro combattimento notturno contro preponderanti forze navali nemiche, apriva il fuoco delle mitragliere con prontezza e decisione. Colpita ed immobilizzata la propria unità restava al suo posto sino all’ultimo. Raggiunta faticosamente una zattera esauriva le proprie forze per salvare ripetutamente altri naufraghi, rivolgendo altresì nobili parole di incitamento ai superstiti ai quali raccomandava, qualora fossero catturati dal nemico, di non rivelare il nome della loro nave.
    Infine scompariva nei flutti, conscio di avere, col proprio sacrificio, contribuito alla salvezza del convoglio.
    Canale di Sicilia, 16 aprile 1943”.


    Ma anche per il cacciatorpediniere inglese Pakenham, colpito più volte dalla Cigno, andò malissimo. Il Paladin cercò di trainarlo verso un porto alleato, ma per il peggioramento delle sue condizioni di galleggiabilità l’Ammiragliato britannico ordinò di affondarlo. Scompariva così negli abissi del mare, a nord di Pantelleria, l’HMS Pakenham da 2.270 tonnellate. Era l’alba del 17 aprile 1943 ed era passata solo una manciata di ore dalla fine del Cigno.
    Oggigiorno fanno sorridere (?) alcuni siti inglesi che citano la perdita del Pakenham senza mai collegarla direttamente con la piccola torpediniera italiana Cigno.
    Qualche giorno dopo la battaglia del 16 aprile nelle acque di Pantelleria veniva ritrovato il corpo di un marinaio della Cigno con un giubbotto di salvataggio con scritto il nome di Athos D’Orazi. E con quest’ultimo nome vennero quindi sepolti quei miseri resti nel cimitero dell’isola. Soltanto anni dopo salterà fuori la verità. Il corpo sepolto era di un altro marinaio, sempre della Cigno, che rispondeva al nome di Rolando Bulletti, toscano, di anni 22, dichiarato “disperso”. A svelare il mistero era stato il fiorentino Athos D’Orazi non affatto morto, era stato lui, all’epoca dei fatti sergente sulla torpediniera affondata, a dare al suo compaesano quel giubbotto ritenendolo più sicuro. Successivamente i resti del Bulletti vennero traslati nel luogo natio e adesso riposano al cimitero di “La Querce” di Prato.
    E la cagnetta-mascotte Leda? Per quante ricerche effettuate non abbiamo trovato nulla. Eppure… un lumicino c’è nel buio assoluto. Sfogliando le nostre foto d’archivio su Pantelleria in guerra, abbiamo trovato una foto del giorno della resa dell’isola, che ritrae un gruppo di abitanti d’isola. Nella foto in questione si vede un ragazzo con un cagnetto in mano, che grosso modo rassomiglia, per dimensioni, colore e orecchie abbassate, a Leda in una foto scattata sulla Cigno a Tripoli, soltanto che quest’ultima  foto è assai grossolana nei dettagli per fare un raffronto più preciso e giungere a delle conclusioni.

    Noi comunque preferiamo immaginare che sia Leda, l’amata mascotte della Cigno, in ambedue le foto e che quindi la cagnetta sia uscita indenne dai terribili bombardamenti alleati e abbia continuato a giocare con i ragazzi di Pantelleria, la sua terra natia.

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    Gli albori della navigazione a vapore

    di Antonio Cimmino

    L’invenzione nel 1769 della macchina a vapore, ad opera dello scozzese James Watt, spinse l’americano John Fitch ad applicarla ad una imbarcazione.
    Era il 22 agosto 1787 e sul fiume Delaware, alcuni padri fondatori degli U.S.A. tra cui Giorgio Washington e Beniamino Franklin, quando il  battello Perseverance (prima nave a vapore), lungo 18 metri, risalì il fiume controcorrente, percorrendo più di un miglio inglese (1609 metri) alla velocità di 5,5, nodi e in meno di 15 minuti.
    Un motore a vapore composto da un cilindro sistemato orizzontalmente sul fondo dell’imbarcazione, mediante un sistema di alberi e manovelle, faceva muovere dei remi (6 a sinistra e 6 a dritta) sistemati alla fiancate che, similmente alla voga, davano la spinta alla Perseverance.
    Il motore era stato presentato nel 1785 da Fitch alla Società filosofica di Filadelfia e descritto l’1 dicembre 1786 sul giornale cittadino “Colombian Magagni”.
    Nel 1788 Fitch ottenne il brevetto di privativa, valevole 14 anni, negli stati della Virginia, Maryland, Pensilvania, Nuova Yersey e New York.Fu costituita un’apposita società di navigazione a vapore e apportate le necessarie modifiche alla macchina a vapore e aumentata la stazza dell’imbarcazione.
    Era nata la navigazione a vapore!