Fotografi di mare

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    Maestrale

    di Eugenio Montale
    foto Carlo Di Nitto

    MAESTRALE ….

    “… Una carezza disfiora

    la linea del mare e la scompiglia

    un attimo, soffio lieve che vi s’infrange e ancora

    il cammino ripiglia.

    Lameggia nella chiarìa

    la vasta distesa, s’increspa, indi si spiana beata

    e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia

    vita turbata….”

    Eugenio Montale (1896 – 1981) da “Maestrale” 

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    Conchiglia (Carlo Di Nitto)

    di Carlo Di Nitto

    …dal musco materno
    lontana riposi,
    riposi marmorea
    dell’onde già figlia,
    ritorta conchiglia.
    Occulta nel fondo
    d’un antro marino,
    del giovane mondo
    vedesti il mattino;
    vagavi co’ nautili,
    co’ murici a schiera,
    e l’uomo non era.

    …”Osservate con quanta previdenza la Natura, madre e artefice del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse nell’uomo più passione che ragione perché la vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica severità. Se i mortali si fossero guardati da qualsiasi rapporto con la saggezza, e avessero vissuto sempre sotto la mia insegna, la vecchiaia neppure ci sarebbe stata, e avrebbero goduto felici di un’eterna giovinezza…
    La vita non è altro che un gioco della follia“.
    Erasmo da Rotterdam

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    4 novembre 1918 – 4 novembre 2023: nessuno canti vittoria!

    
di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra + altri.




    Nessuno canti vittoria!
    
Si potrà dire che il popolo avrà vinto quando si avrà il piacere di constatare che la democrazia riprenderà il suo cammino nella giusta direzione, quando avremmo sconfitto quella povertà che ancora avanza.
    
Nessuno gioisca! C’è ancora tanta strada da fare!


    sanfrancesco
    Così come sento le diffuse lamentele della gente, esasperata dal carovita e dalle “tasse spalmate” sulla povera gente per pagare gli errori globali delle banche (dovrebbero essere proprio le banche a pagare per questa assurda situazione internazionale), mi sono soffermato ad ascoltare i commenti e le dichiarazioni rilasciate dai politici (vincitori e perdenti): non mi sono piaciuti tanto! 
Si ostinano a parlare di “destra”, di “centro” e di “sinistra”, di comunisti e di liberali, come se il benessere potrà mai essere di destra, di centro o di sinistra, come se la fame, la sete, il vestirsi, il vivere decentemente potessero essere condizioni da definirsi di destra, di centro e di sinistra. 
Destra, centro e sinistra sono definizioni ottocentesche che, com’è noto, indicavano parti delle aule parlamentari dove sedevano i gruppi di senatori e di deputati ovvero schieramenti con un certo orientamento politico.

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    Oggi, con la fine delle ideologie, non contano più gli schieramenti politici, mi piacerebbe pensare, e mi illudo, che contano gli uomini e il loro operato di meritocrazia. 
Purtroppo, fino adesso, non mi pare che tale operato sia stato negli interessi del popolo sovrano 
(conta solo il potere economico o peggio il denaro, pulito o sporco che sia).
    
Sono smaliziato abbastanza per comprendere che di fronte ai soldi molti, moltissimi, non guardano in faccia a nessuno, però i tempi cambiano, e i politici, illuminati di niente, se ne sono accorti. 
Sì, i tempi cambiano: fino a ieri i politici entravano nelle nostre case, senza alcun invito, con la prepotenza di certa “Televisione”. Oggi c’è internet, i social network ed altro ancora, e per non soccombere, cioè per “comunicare” ancora tra di noi, ci scambiano idee, pareri e ci emozioniamo. Abbiamo compreso e deciso finalmente (e ne era ora) con chi “condividere” quel po’ del nostro tempo migliore: corrotti, bugiardi, parassiti, volgari, lacchè, santi, poeti, navigatori, qualunquisti, fancazzisti ecc. ecc.

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    I vincitori di oggi potrebbero essere i perdenti di domani… ma la gente come noi non canta vittoria ….continua a vigilare in nome del Popolo sovrano, in nome della Democrazia!


    ‘O surdato ‘nnammurato
    a cura Antonio Cimmino

     

    Prima Guerra Mondiale (28.7.194 – 11.11.1918)
    a cura Antonio Cimmino

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    a cura Carmine Spronelli

    Interno chiesa Sant’Andrea delle Fratte Roma.

    Il 4 novembre cosa festeggiamo?
    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra



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    Il 28 giugno 1914 uno studente serbo spara contro l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria. L’attentato, di matrice anarchica, innesca una serie di reazioni che culminano il 28 luglio del 1914 quando l’Austria presenta la dichiarazione di guerra alla Serbia: è l’inizio di un conflitto che, per la prima volta nella storia, assume un carattere mondiale. L’Austria, la Germania e poi la Turchia scendono in campo contro la Serbia, mentre con quest’ultima si schierano la Russia, la Francia, l’Inghilterra e poi il Giappone e gli Stati Uniti.
In una prima fase la guerra si caratterizza come “guerra di movimento”. Gli imperi centrali contavano di risolvere il conflitto in tempi rapidi, ma la speranza si spegne e si passa ad una vera e propria guerra di logoramento.

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    Protagonista è la trincea. 
Per quasi un anno il nostro Paese mantiene una posizione neutrale all’interno del conflitto, rimanendo per tutto il tempo diviso in due schieramenti contrapposti: gli interventisti e i neutralisti. Sono favorevoli alla guerra i Nazionalisti, i Repubblicani, i Conservatori e i sindacalisti rivoluzionari: invocano l’intervento contro l’Austria allo scopo di ottenere la liberazione di Trento e Trieste, città simbolo dell’unità incompleta dell’Italia. Contro gli interventisti e a favore della pace si schierano i cattolici, i Socialisti riformisti e i Liberali guidati da Giovanni Giolitti. Pur se in minoranza, gli interventisti hanno la meglio: il 24 maggio 1915 il Governo italiano dichiara guerra all’Impero Austro – Ungarico, ma non alla Germania (la dichiarazione di guerra alla Germania si avrà soltanto il 27 agosto 1916).

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    Il nostro esercito combatterà quasi esclusivamente nelle regioni nord-orientali d’Italia essenzialmente nelle trincee scavate nelle montagne da soldati reclutati fra le fasce più povere della popolazione. L’anno più difficile per l’esercito italiano è il 1917. In questo anno, infatti, a seguito di un’offensiva austriaca divenuta sempre più pressante, il nostro esercito subisce una pesante sconfitta a Caporetto (24 ottobre 1917) ed è costretto a ripiegare fino al Piave. 
Le perdite italiane e in uomini e in materiali sono gravissime. Ma presto ha inizio una grande controffensiva delle truppe italiane, che dal Grappa e dal Piave dilagano fino a Trento e Trieste. Nel pomeriggio del 3 novembre i delegati austriaci firmano la resa. L’armistizio (patto di Villa Giusti) entra in vigore il 4 novembre 1918. Termina così la guerra sul fronte italo – austriaco, pochi giorni prima della conclusione generale del conflitto, che vede il crollo della Germania e dell’Impero austro – ungarico. La guerra sul fronte italiano durò 41 mesi: più di tre anni di freddo e fame sotto il rombo delle artiglierie nemiche, con in prima linea ragazzi provenienti dalle più diverse aree geografiche d’Italia, uniti tutti da una bandiera: il Tricolore. Di quei morti, di quei feriti, degli invalidi, delle distruzioni a 91 anni di distanza è restata una pallida memoria. “L’Italia ricorda male o ricorda parzialmente perché uno stato giovane, dalla identità debole, ed anche la scuola non insegna nel dovuto dei modi una pagina di storia che segna il ‘900”.
Il 4 novembre la data dell’armistizio che nel 1918 pose fine alle ostilità tra l’Italia e l’Austria – Ungheria, concluse sul campo con la vittoriosa offensiva di Vittorio Veneto. Una vittoria frutto della dedizione, del sacrificio e dell’unità del popolo italiano. Una vittoria che costò la vita a 689.000 italiani mentre 1.050.000 furono i mutilati e i feriti: cifre che devono far riflettere, numeri da ricordare.

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    Il 4 novembre è un giorno importante per la storia d’Italia. Una data, una ricorrenza annuale che può apparire scontata: non è così.

    Il 4 novembre 1968, Messina mi parve quasi un’apparizione
    di Giuseppe Magazzù

    IN MEMORIA DI GIUSEPPE MAGAZU’ SCOMPARSO NEL 2018

    giuseppe-magazzu-per-www-lavocedelmarinaio-comRitornando alla base, in navigazione di trasferimento da La Spezia a Messina, dopo un periodo di esercitazioni di dragaggio, facemmo qualche giorno sosta a Napoli ed un’altra, brevissima, di qualche ora, a Vibo Marina.
Per la terza volta, da quand’ero imbarcato, mettevo piede da mare sulla terra calabra.
    Eravamo da poco attraccati alla banchina del porto vibonese che una persona anziana mi si avvicinò con discrezione, mentre ero alle prese a controllare l’assetto della passerella per la scesa a terra del comandante, e si presentò come marinaio reduce combattente della Grande guerra. Si mise a raccontare con voce emozionata, tremula e quasi velata da un pianto denso di ricordi … Quanto erano rimasti impressi quei ricordi, lo si notava dalla fatica del racconto e dall’orgoglioso scintillio degli occhi, pervasi da un giovanile entusiasmo. In breve tempo descrisse i tragici eventi da lui vissuti.
    Ma, cosa vorrà? – mi domandai. Semplice, far visitare al suo nipotino, ch’era poco distante da lui, la nave. Diedi un sguardo verso il ragazzo esile, dai capelli e dagli occhi neri e vispi, poteva avere circa dieci-undici anni e pensai: come fare? La sosta era breve e non erano previste visite alla nave, il nostro era uno scalo tecnico; eppoi, il poco tempo a disposizione non dava la possibilità di soffermarmi nei particolari se ci fossero state delle domande da soddisfare. Sicché, senza tergiversare, decisi di farli salire a bordo e li accompagnai verso prora facendoli entrare in plancia a visitare la timoneria.

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    Descrissi loro i compiti che si svolgevano durante la navigazione e gli strumenti usati per la conduzione della nave, lo scopo della bussola e del ripetitore della girobussola, la ruota del timone e le manopole del comando ai motori che davano la propulsione (sui dragamine ex Usa i due motori di propulsione si comandavano direttamente entrambi ed anche singolarmente (avanti, avanti mezza, avanti tutta-ferma- indietro, ecc…). Una volta a bordo, però, le domande vennero puntuali. Sia il reduce che il nipotino ascoltavano con molto interesse e altrettanta curiosità le risposte che davo.
    nave-frassino-5508-www-lavocedelmarinaio-comFinita la visita ritornammo verso la passerella, badai a non soffermarmi davanti alle apparecchiature utilizzate per il dragaggio meccanico, magnetico ed acustico: galleggianti e divergenti, il rullo col cavo d’acciaio e quello col cavo elettrico e la campana, quasi nascosta dal fumaiolo, che si trovavano sistemati a bella vista e sparse ordinatamente nelle adiacenze dello specchio di poppa.
    Li accompagnai con fare spedito fino a terra: ‘sono stato nei tempi’ – mi son detto.
Il reduce, la cui mano stringeva quella del nipotino, si congedò allo stesso modo di come si era presentato. Una forte e calorosa stretta di mano suggellò il suo ringraziamento mentre notavo ancora in lui, soffocata dall’emozione, la timida voce e lo scintillio degli occhi ora appagati dall’esaudito desiderio. Lo salutai con la stessa intensità.
Passai le mie dita, a mo’ di carezza, tra i capelli del fanciullo e rientrai sulla nave.
Di lì a poco giunse il comandante e salì a bordo.
    Issammo la passerella e mollati gli ormeggi, col sole al tramonto, riprendemmo il mare. Messina 4 novembre 1968.
    Ps.: La sosta nel porto di Vibo Marina, dove attraccammo alle ore 16:15 e ripartimmo alle ore 17:00, avvenne il 29 ottobre 1968.

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    4 novembre, a Patria
    segnalato da Nico Vernì

    Il prof. Giovanni Vernì di Sannicandro di Bari (1916-2014), considerava la parola PATRIA sacra e soffriva tantissimo nel vedere i nostri politici – per tanti anni – impauriti e quasi restii a pronunciarla…

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    Egli vedeva oramai di fatto decaduti non pochi valori fondamentali del viver civile (e della stessa sacralità della Storia umana)… e considerava strana, amara ed illogica la messa in quarantena di talune parole che meglio li rappresentano…
    Tra le più bersagliate, le più osteggiate, le più incomprese e, anche, le più irrise, quasi che essa sia una sorta di appestato o di untore di manzoniana memoria da fuggire, da bandire o da relegare in un lazzaretto ad ogni costo, trovò, con sommo rammarico e stupore, la parola Patria (scritta con la maiuscola come la si scriveva nei periodi di maggiore fulgore).
    Codesta avversione la valutava anche come mero voltafaccia, ostracismo, falsa convinzione ch’essa sia simbolo e coagulo di retorica…
    A ben guardare, sembra che la nostra bella parola Patria abbia gettato le barbe nel fertilissimo terreno della nostra stessa civiltà, in quella civiltà greco-latino-mediterranea…
    Per Giovanni la Patria impersonava, incarnava, rappresentava, uomini e cose della nostra piccola famiglia (padri, madri, nonni, bisnonni), ma anche cimiteri, chiese, monumenti, paesi, città, stato, territorio, capitale, gente, nazione, nome, bandiera, storia, glorie, memorie, tradizioni, passato, presente ed altro ancora; lui era convintissimo che Patria indica o viene a indicare il luogo dove sono nati e cresciuti i nostri antenati, i nostri amici, i nostri conoscenti; il luogo dove risiedono tutte le nostre persone più care, lo Stato cui è stato imposto il nome Italia.
    Per questo, per Giovanni, era giusto e doveroso che ogni prevenzione nei confronti della parola “Patria” dovesse cessare; che l’odiosa quarantena o delegittimazione avesse finalmente fine e che questa magnifica parola tornasse a inquietare, a interrogare, a risplendere nella nostra lingua del fulgore della sua immensa sacralità, fatta di tre cose fondamentali:
    – il senso dello Stato;
    – la fedeltà ai valori nazionali;
    – l’amore per la Bandiera;
    senza più pregiudizi, senza tentennamenti, senza falsi pudori, senza preclusioni ideologiche, soprattutto e prima di tutto, in ogni momento.
    La Patria – ce lo ha ripetuto – va onorata e rispettata sempre, in pace come in guerra, in umiltà e silenzio, secondo verità e giustizia.

    Don, don, don, la campana Maria Dolens
    di Roberta – Ammiraglia88 (*)

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    roberta-ammiraglia88-per-www-lavocedelmarinaio-com-copiaLa Campana dei Caduti di Maria Dolens ogni sera suona “cento rintocchi” per ricordare i caduti di tutte le guerra.
    L’enorme campana è stata creata dalla fusione dei cannoni, senza distinzione  di nazionalità e bandiere, di color che si sono sacrificati nella Prima Guerra Mondiale.
    Sul suo manto ci sono incisi gli autografi dei Sommi Pontefici Pio XII e Giovanni XXIII.
    In particolare sono riportate rispettivamente le due frasi che i Pontefici hanno espresso sulla guerra:
    – “Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra”;
    – “In pace hominum ordinata concordia et tranquilla libertas”;
    unitamente ad alcuni disegni e rappresentazioni in bassorilievo.
    All’argomento  mi permetto di aggiungere una poesia che compare su molte cartoline che raffigura la Campana dei Caduti di Maria Dolens:

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    DON … DON … DON …
    Tutto nel buio tace,
    sol la campana dice ai morti: pace!
    Tra fossa e fossa sotto l’erme croci
    passa un brusio di palpiti e di voci.
    E’ la campana dai rintocchi mozzi
    da un convulso di pianti e di singhiozzi.
    Odono i morti e ascoltano in silenzio,
    bevon dai fiori lacrime d’assenzio.
    E’ la campana nella notte bruna,
    chiama le stelle in cielo ad una ad una.
    Or dormono i caduti sotto terra,
    sognano, sogni d’amor, sogni di guerra.
    Ogni croce ha una stella
    e tutto è pace …
    Dormono i morti
    e la campana tace.

    (*) http://www.ammiraglia88.it/SEZIONE_NORMALE/PAGINE_SITO/IGM/Campana_Caduti/M