Curiosità

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    Quei marinai italiani nelle operazioni in Cina contro i Boxers nel 1° periodo del ‘900

    di Francesco Carriglio
    http://www.augusta-framacamo.net

    Già alla fine del 1899 il movimento xenofobo in Cina si andava intensificando in modo allarmante e le sette segrete dei Boxers (*), che erano a capo di tale rivolta ricevevano l’appoggio delle autorità costituite, di cui la Corte Imperiale del Celeste Impero aveva deciso di farsene strumento per la cacciata degli stranieri. Il movimento di opposizione agli stranieri, in un primo momento era limitato alle lontane provincie, dove la furia distruttrice e sanguinaria si scagliava contro le missioni cristiane e contro gli indigeni convertiti. Nella primavera del 1900 il movimento rivoluzionario era presente anche nelle provincie di Pelano e di Tien’tsin, dove l’etnia europea era numerosa e dove risiedevano le concessioni bancarie, i consolati e le ambasciate più importanti.

    L’incrociatore italiano Elba che già si trovava nei mari dell’Estremo Oriente ebbe l’invito dall’ambasciatore italiano di far rotta su Ta-Ku, mentre l’incrociatore Calabria che navigava lungo le coste americane del Pacifico ricevette ordine da Roma di portarsi immediatamente verso i porti cinesi. L’incrociatore Elba, appena giunta a Ta-Ku sbarcò un distaccamento di 39 marinai con due ufficiali, il tenente di vascello Paolini Federico ed il sottotenente di vascello Angelo Olivieri che dovevano recarsi a Pekino, dove era minacciata non solo la sicurezza dei connazionali residenti ma anche quella del corpo diplomatico.

    Il distaccamento italiano giungeva nella capitale cinese il 31 maggio prendendo subito posizione di difesa della delegazione italiana. Il 1° giugno il sottotenente Olivieri con 12 marinai, insieme ad un ufficiale francese e 30 militari fu distaccato alla difesa della Missione Cattolica del Pe-Tang, distante qualche chilometro dal quartiere della delegazione. Da quel momento ebbe inizio l’assedio delle due località effettuato dai boxers e dai soldati regolari cinesi che durò più di due mesi, ed è veramente straordinario che poche decine di soldati abbiano potuto tener testa per tanto tempo alle insidie nemiche nonostante la penuria delle munizioni e dei viveri.


    Il 5 giugno giungeva a Ta-Ku l’incrociatore Calabria da cui sbarcarono 39 marinai con due ufficiali che avrebbero dovuto raggiungere i militari dell’incrociatore Elba, ma a Tien-tsin la linea ferroviaria interrotta li costrinse ad aggregarsi alla colonna internazionale di soccorso, comandata dall’Ammiraglio inglese Seymour, il cui obiettivo era Pekino. La spedizione partì il 10 giugno, ma durante il tragitto essendo stata attaccata dai Lo-fo, Lang-fang, e An-ping, non riuscì a raggiungere l’obiettivo non potendo ricevere rinforzi ed il 26 giugno fu inevitabile il rientro a Tien-tsin. Nello scontro di Lang-fang il sottocapo torpediniere Rossi del distaccamento italiano, con il sacrificio della propria vita salvava la colonna da un attacco a sorpresa.

    Dall’incrociatore Elba sbarcarono 20 marinai al comando del sottotenente di vascello Ermanno Carlotto che avrebbero dovuto congiungersi con lo scaglione dell’incrociatore Calabria, se l’avessero trovata ancora a Tien-tsin altrimenti si dovevano fermare in tale città per la difesa dei cittadini europei, cosi fecero. Le navi ed i marinai italiani durante questo cruento periodo presero parte a molte altre azioni di conquista, come la presa dei Forti di Ta-Ku e lo sbarco a Shang-hai-Kwan. Le nostre unità vennero in seguito rinforzate da altre Unità provenienti dall’Italia, sicché l’insieme delle Unità costituirono una Divisione Navale.

    Infine un reggimento di soldati, corpo speciale del Regio Esercito Italiano, sbarcò in Cina dando un appoggio sostanziale ai militari presenti nel territorio e alle loro azioni. Breve periodo in questo inserto, la storia della colonizzazione in Cina continua.

    (*) Boxers  una organizzazione di cinesi popolari, contro l’influenza straniera colonialista.

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    Perché le navi a fine attività non diventano musei?

    di Giuseppe Procopio

    … riceviamo e pubblichiamo.

    Qualche tempo fa’ , uno degli argomenti dei gruppi ex marinai era il perché non si potessero realizzare musei navali in Italia.
    Le emozioni non sono mancate, ognuno ha scritto belle e toccanti frasi; altri, molto più addentro alla questione, hanno spiegato le ragioni valide che impediscono la creazione di tali musei come fatto dagli americani e penso anche dai francesi.
    Il cuore del discorso si è soffermato sugli affetti che ognuno ha conservato nel tempo verso la nave dove è stato imbarcato.
    Grandi momenti di confronto.
    Guardando questa foto mi e’ tornato in mente quel momento di discussione su Facebook.

    Una unità navale rappresentativa di una serie.
    Perché nessuno ha mai pensato di farle diventare un museo?
    Se consideriamo i costi e tra radiazione e demolizione… almeno una sarebbe stato un libro da leggere e presentare ai giovani, per una migliore interpretazione di quel mondo che spesso risulta lontano più di quanto lo sia in realtà.
    Qualche gruppo dell’associazione Marinai d’Italia ha abbellito, in un un enorme giardino, la propria sede, poche città hanno richiesto le unità navali, per esempio i numerosi Bacini  di carenaggio potrebbero lasciarle vivere lì (Beh … è una battuta naturalmente)
    Forse non siamo più un Paese che rispetta la sua storia e tradizione marinara , che inizia ancor prima delle Repubbliche Marinare
    Una cordiale buona notte Italia …


    Marinai: una famiglia immensa.
    A ognuno di noi la Divisa ha regalato un micro pezzo di un infinito e immenso puzzle.
    Insieme completiamo il quadro.
    Anche se di diversa età, provenienza ed esperienze diverse, abbiamo un elemento in comune: il Mare. Soprattutto a tenerci uniti è stata una Nave e l’appartenenza ad un equipaggio.

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    Bagno penale e le prigioni galleggianti a Castellammare di Stabia

    di Antonio Cimmino

    Personale Bagno Penale del Real Arsenale di Castellammare di Stabia
    (Ordinane Generali della Real Marina, Titolo XVIII, Sez. 1, art.6):

    • Un Comandante del bagno penale (posto agli ordini del Comandante del Corpo Custodi di Napoli) che gestiva  la Guardia di truppa dell’Esercito e quella del Corpo de’ Custodi addetta al bagno penale stabiese.
    • Un Ufficiale del Corpo Amministrativo
    • Un Capellano
    • Un Medico-cerusico
    • Comiti, specie di guardiani addetti anche al controllo dei ferri dei galeotti. Il comita incaricato di controllare ogni sera i ceppi ai piedi dei detenuti o di inserirli ai nuovi arrivati, era chiamato “butta-fuori”.
    • Agozzini come sorveglianti ed addetti alle punizioni corporali dei galeotti come, ad esempio, le correggiate, fustigazione con cinghia di cuoio in caso di mancanze gravi.
    • Militari dell’Esercito e del Corpo dei Custodi alloggiati nella Caserma Cristallina.
    • Galeotti, diverse centinaia addetti ai lavori più pesanti e pericolosi. Tra i galeotti vi erano anche dei pericolosi delinquenti chiamati “sforcati” cioè scampati alla forca per patteggiamento (truglio)  con il giudice. In cambio della vita e con destinazione ai bagni penali effettuavano delazioni o fornivano notizie su eclatanti fatti di delinquenza comune o politica. Galeotti con precedenti esperienze nel settore, era addetto anche alla veleria e alla costruzione di cordami oppure destinati ad altre officine.

    Nel Libro IIIº, Titolo XIV del «Codice per lo Regno delle Due Sicilie» del 1819, l’articolo 606  prevedeva che le autorità giudiziarie e amministrative, a norma dei regolamenti, “prenderanno cura perché i luoghi di custodia o di pena sieno non solamente sicuri, ma mondi e tali, che la salute de’ detenuti non ne venga alterata”, e le stesse erano tenute a vigilare che il trattamento dei detenuti fosse conforme alle norme regolamentari (articolo 607), che non venissero quindi commesse su di essi restrizioni vietate dalle leggi penali del regno.

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    Museo della Piazzaforte Augusta

    di Francesco Carriglio
    tratto dal sito internet (Notiziario) 
    http://www.augusta-framacamo.net/museo/

    Divise esposte al museo della Piazzaforte ad Augusta (foto p.g.c. Freancesco Carriglio) - www.lacovedelmarinaio.comIl Museo della Piazzaforte di Augusta fu istituito dal Comune nel 1986 e aperto al pubblico il 16 febbraio 1990. Era sito nei locali del Bastione San Giacomo nell’ala di sud-ovest del Castello Svevo di Augusta. Il Museo si prefiggeva di catalogare, conservare ed esibire cimeli, reperti storici, fotografie e varie documentazioni riguardanti la città di Augusta e non solo. Era diviso prevalentemente in tre settori: l’Evo Medio (dalla fondazione al XIV secolo), l’Antico Regime (fino all’unità d’Italia) e l’Età Contemporanea. E’ stato chiuso al pubblico il 31 gennaio 1996 a causa di lavori di restauro e consolidamento dell’area, e mai più riaperto. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di visitarlo parla di un museo veramente ricchissimo di oggetti in esposizione, frutto soprattutto dell’impegno che l’Ingegnere Marcon ha compiuto nel corso degli anni. Da tempo gli augustani attendono che il museo venga restituito ai cittadini e alla città, per visionare la testimonianza di eventi e di storia ma, soprattutto, di stimolo per chi è, o sarà, preposto alla sua rinascita.
    Sabato 19 maggio 2012 è stato ufficialmente riaperto al pubblico il “Museo della Piazzaforte” del Comune di Augusta, il cui Direttore è stato nominato l’Avv. Antonello Forestiere (storico militare), allestito presso i nuovi locali posti a piano terra lato ponente di Palazzo del Città. Finalmente, dopo sedici anni di chiusura al pubblico, il Museo della Piazzaforte ha così finalmente riaperto le sue porte ai cittadini e agli appassionati di storia militare, esponendo la sua collezione in una sede definitiva, di pregio monumentale e facilmente raggiungibile. Con l’apertura della nuova sede del Museo è stato rimesso a posto un importante tassello contenitore della nostra storia cittadina. Il Museo, fondato dall’indimenticabile storico militare di fama internazionale Ing. Tullio Marcon, ha così finalmente una sede dignitosa dove gli appassionati di storia possono proseguire il proprio percorso di ricerca, di studio e di conservazione di cimeli. Esso costituisce al contempo un preciso, quanto prezioso punto di riferimento culturale e turistico, anche ben al di là dei confini cittadini.
    Il Museo custodisce inoltre, alcuni grandi cimeli presso i due cortili esterni ed il comunicante sottoportico del comprensorio del Commissariato P.S., nella zona del Castello Svevo.
    Se vi trovate ad Augusta e siete appassionati di storia militare non perdete l’occasione di visitarlo, resterete stupiti per il numero di cimeli e per la loro importanza storica.
    In breve ho descritto la storia di un tassello importante della città di Augusta nel quale vi è conservata e custodita la testimonianza della propria storia.

    Il museo della Piazzaforte ad Augusta - www.lavocedelmarinaio (foto internet)

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    8.1.1980, Aldo Goi

    di Antonello Goi

    (Milano, 15.11.1903 – 8.1.1980)

    … riceviamo e, con orgoglio e commozione, pubblichiamo questo  ritratto e racconto di amore per la famiglia e per la vita.

    Grazie dell’invito, approfitto del suo blog per inviare una breve biografia di mio padre Aldo (pagina 29 della rivista Ritrovarsi del dicembre 2012) e alcune foto quasi centenarie. 
    Inoltre le invio un mio racconto, un poco romanzato di un fatto vero che coinvolse due giovani sommergibilisti la cui amicizia durò tutta la vita, mio padre e un suo commilitone. Intanto ringrazio per il bellissimo interessamento.
    Antonello

    Arsenale Venezia 1921, papà era classe 1903. Ho alcune foto del sommergibile tra cui una del F17 e F14 (poi affondato 6 agosto 1928) con il (credo capitano) Fontanive (indicato dalla freccia) che qui di seguito posto (papa è il marinaio accucciato).

    La penna stilografica –  Storia di sommergibilisti
    di Antonello Goi

    Faceva freddo, un freddo così intenso che intorpidiva l’aria che si respirava e sembrava che stormissequando si diffondeva nei polmoni, ma, almeno, aveva smesso di piovere e il cielo, appena colorato con un grigio pallido e velato sembrava schiarirsi ed a tratti lasciava scorgere trasparenze sfumate d’azzurro e attraversate da deboli fasce di luce. Le bancarelle del mercatino dell’usato, al riparo di ombrelloni di variefogge, quadrate, rotonde, erano poche e si separavano con ampi spazi tra loro. L’asfalto era ancora bagnato equa e là qualche pozzanghera costringeva i passanti a brusche deviazioni.
    Edmondo De Fortis non aveva rinunciato ad andarci, lo faceva tutte le domeniche, da quando era stato messo in pensione.
    Aveva insegnato greco e latino per quasi quaranta anni, sempre nello stesso liceo classico dove si era diplomato. Quando aveva lasciato la scuola gli avevano donato una pergamena dove erano riusciti a recuperare molte firme dei suoi ex alunni, e alcuni erano figli di questi. E gli avevano regalato una scatola, un raro elemento di antiquariato art nouveau in palissandro, finemente intarsiata in ottone, decorata sul fronte con due uccelli del paradiso che si intersecano con un albero stilizzato, realizzata in Francia nella prima decade del 1900, e riempita con delle vecchie cartoline ritrovate dai suoi studenti e dai suoi colleghi.
    Fin da ragazzo Edmondo aveva il singolare capriccio di collezionare vecchie cartoline, così quelmercatino dell’usato era una fonte preziosa per arricchire la sua collezione. Tutto sommato il suo giro tra lebancarelle era molto veloce, bastava osservare i banchetti e con una rapida occhiata vedere se c’eranocartoline. Edmondo aveva un insolita sensibilità per riconoscerle anche da lontano.
    – Eccola là, quella è proprio quella che cercavo!
    Un signore giovane, con un paio di occhiali da sole a specchio e con al guinzaglio un barboncino bianco che sembrava una pecorella, lo guardò con aria interrogativa, poi, dopo qualche istante gli chiese
    – Dice a me?
    – No, no, scusi, stavo cercando una bancarella con delle vecchie cartoline, e mi sembrava di avene vista una …
    – Ah si! Quella la laggiù, vicino all’edicola, ci sono appena passato davanti, ne ha due grandi scatole piene!
    – Anche lei colleziona cartoline?
    – No, francobolli, ma mi spiace staccarli dalle cartoline, è come strappare un pezzo di vita!
    – È vero! Io, poi, colleziono solo quelle viaggiate!
    – Viaggiate?
    – Si, quelle spedite …
    – Ah! Come i francobolli timbrati!
    – Appunto! Buona giornata.
    De Fortis si toccò con la punta delle dita la tesa del cappello, accennò un breve inchino e si diresse alla bancarella. Era un piccolo banchetto, forse un tempo un tavolo da trattoria, coperto da una vecchia tovaglia gialla con vistosi rammendi. Sopra tre scatole di scarpe piene di cartoline, fotografie e figurine Liebig. A parte, una grande cartella di cartoncino verde scuro aperta e con sopra delle stampe con scene di caccia di diverse dimensioni.

    – Buon giorno professore!
    Dietro il piccolo banchetto c’era il venditore delle cartoline, seduto su uno sgabello di legno comequello che una volta usavano i lustrascarpe, un uomo piccolo con in testa uno cappello di velluto rosso e un sigaro spento che gli penzolava dalla bocca come un fiore avvizzito.
    – Buon giorno Efisio! hai talcosa di nuovo?
    – Forse, quella scatola proprio davanti a lei, era di un vecchio frate. Sul coperchio della scatola c’era scritto in grande, e lo può vedere anche lei: da regalare. Il nipote del frate è mio cognato, me l’ha portata. Cisono anche delle vecchie fotografie. Ma io però le cartoline le vendo, non le regalo …
    – Beh! Vediamo cosa trovo …
    Edmondo prese un piccolo mazzetto di cartoline e incominciò a passarle in rassegna velocemente, scartava quelle con qualche piccolo difetto, qualche piega o macchia, si soffermava sulle date, sui messaggi, sugli indirizzi. Poi, ecco un bell’esemplare! Si disse. Una veduta dell’arsenale di Venezia del 1921. Le vecchie torri, una gru a ponte e in primo piano un sommergibile, sulla torretta l’insegna della classe F.

    Mentre la osservava sul suo volto si era disegnato un ampio sorriso di soddisfazione. Poi la girò e lessel’indirizzo di una via di Milano, era destinata a “Coniugi Lodetti” e il messaggio: Cari genitori per Natalevengo con il mio amico Nello. Dormirà nella mia stanza. Vostro figlio Alberto.
    – Intanto prendo questa, disse rivolgendosi al venditore.
    Mise da parte la cartolina, infilò la mano nella scatola per prendere alcune vecchie fotografie stampate in colore seppia. Erano state tutte scattate al sommergibile illustrato nella cartolina e raffiguravanol’equipaggio. Alcune erano foto di gruppo, altre erano ritratti di marinai, raffiguravano vari momenti dellavita a bordo.
    – Le prendo tutte! E il tono della voce era sostenuto da una nota di improvvisa emozione.
    – Vedo che le interessa e anche molto! Facciamo così, prenda tutta la scatola e … e gliela regalo!
    – Come sarebbe a dire: la regalo?
    – Era la volontà del suo proprietario, ora che rifletto … non mi va di contravvenire alle sue ultime volontà.
    Edoardo rimase per un attimo a guardare la scatola e poi Efisio.
    Tutti e due erano in silenzio, e si poteva vedere sul volto di Edmondo un’espressione di malcelato turbamento.
    – Facciamo così Efisio, tu mi regali la scatola e io ti regalo dieci euro per farti un bel cappuccino e una brioche! Con questo freddo hai bisogno di qualcosa per riscaldarti.
    Si strinsero forte la mano e quella sensazione di turbamento parve scorrere dalla mano di Edmondo fin dentro il cuore di Efisio.

    Nello si era arruolato volontario in marina a diciotto anni, nel 1921 nella regia squadra sommergibili. Era rimasto orfano di entrambe i genitori, e quella era una possibilità per avere una, sia pure minima, fonte di sostegno. L’incarico che gli avevano affidato, dopo il corso di istruzione, era quello di sottocapo elettricista. Aveva deciso di continuare a studiare. Era arrivato in Marina con la sola licenza ginnasiale e da autodidatta si preparava per acquisire il diploma.
    L’equipaggio del battello era composto da due ufficiali, ventiquattro tra sottufficiali e marinai, tra questi Alberto Lodetti.
    Alberto si era arruolato perché non aveva voglia di continuare gli studi e la vita da sommergibilista, oltre ad appagare lo spirito di avventura, era una buona scusa per non andare più a scuola. Veniva da Como ed era figlio unico di un ricco commerciante di tessuti.
    Tra Nello e Alberto nacque da subito una amicizia quasi fraterna. E sarebbero stati imbarcati insieme per quattro anni.
    La vita nel sommergibile trascorreva abbastanza tranquilla, Nello cercava di nascondere la difficoltà economica che lo costringeva a rinunciare alle libere uscite a Venezia. Tra libri di scuola e ripetizioni private la paga da marinaio veniva del tutto dissipata.
    Ma Alberto aveva trovato modo di invitare in libera uscita il suo amico senza destare sospetti.
    – Dai Nello! E dai! Vieni a fare quattro passi fuori da questa scatola di sardine. Andiamo a cercare qualche bella ragazza!
    Poi, dopo una lunga passeggiata in piazza San Marco lo portava in una trattoria e gli diceva:
    – Beh? io ho fame, mi fai compagnia? I miei genitori mi hanno mandato qualche liretta, che vuoi che me ne faccia? Non fumo, non bevo, almeno fammi mangiare con il mio solo amico!
    – Ma … paghi sempre tu!
    – Sempre? No, questa volta, poi verrà il giorno che sarai tu a pagare, ma non farti fretta, siamo ancora giovani.
    E avvenne che nel corso di una di quelle passeggiate Alberto conobbe Elvira, una cassiera del teatro La Fenice.


    Quando il sommergibile andava in missione in qualche altro porto, Nello scriveva per conto di Alberto delle delicate lettere ricolme di affetto a Elvira e così il loro amore andava sempre più consolidandosi. Per scrivere quelle lettere Alberto aveva comperato una penna stilografica. L’aveva mostrata a Nello e gli aveva detto:
    – Questa penna ci costa più di cinque pranzi in trattoria! – Ci costa?
    – Nel senso che … e dai! Siamo amici o no?
    Alberto e Nello si abbracciarono.
    – Fammi vedere questo prodigio della scienza e della meccanica.
    Alberto gli porse la penna, era una Sheaffer, dotata di sistema a levetta laterale che provocava la compressione di un gommino al suo interno per consentire la carica dell’inchiostro in un piccolo serbatoio.- Però, quasi quasi mi ricorda il lanciasiluri di prua …
    – Dai Nello! Smetti di fare il sommergibilista … dobbiamo scrivere ad Elvira …
    – Dobbiamo?
    – Nel senso, questa volta, che tu pensi, scrivi e dopo io esco con la mia ragazza!
    – Ah! Io semino e tu raccogli i frutti?
    – Beh, tu sei un sommergibilista io sono un … innamorato, c’è una bella differenza!
    – Di bella c’è solo Elvira e la penna, una bella coppia!
    La stilografica provava piacere a stare nelle mani di Nello, le piacevano quelle parole che scriveva e scorreva volentieri con il pennino sulla carta, cercando di non sbavare e di non far uscire qualche macchiolina del suo inchiostro. Quando Nello le rimetteva il cappuccio e il buio la circondava, si metteva in attesa e cercava di ricordare le parole che aveva appena vergato.

    Gli anni della ferma passarono, Nello si era diplomato con il massimo dei voti, Alberto si era fidanzato con Elvira e aveva deciso di restare a Venezia e sposarsi.
    Quando giunse il momento di salutarsi, Alberto porse la stilografica a Nello e gli disse:
    – Tienila tu, tu sai scrivere, io che ne farei? Poi con Elvira ci siamo fidanzati, e tu non dovrai più a scrivere per me.
    – Ma è una penna … preziosa …
    – Tu sei il mio solo amico, senza di te questi anni non sarebbero passati mai! Tienila, è il pegno della nostra amicizia, anche se dovessimo perderci di vista, la penna sarà come una promessa a ritrovarci.
    Nello era ritornato a Milano, aveva trovato un impiego come progettista di impianti elettrici. Aveva una buona competenza tecnica acquisita durante la ferma in marina e in breve tempo aveva fatto carriera. Aveva acquisto anche una buona indipendenza economica e aveva iniziato a frequentare studi artistici di pittori per imparare a dipingere. Non aveva avuto più notizie di Alberto e di Elvira.
    Era tornato a Venezia per cercarli, ma a casa di Elvira non abitava più nessuno e i vicini non avevano saputo dire dove fossero andati. Anche i genitori di Alberto si erano trasferiti senza lasciare detto dove. Il tempo trascorreva e i ricordi del tempo della marina si erano piano piano sbiaditi e quasi scomparsi, tranne il nastrino del berretto da marinaio che Nello portava sempre con sé nel portafoglio e la penna stilografica.
    La Sheaffer non aveva più scritto frasi d’amore, ma relazioni tecniche, parole fredde, scarne, brulle come un campo arido, che scorrevano veloci, ma prive di emozioni. E la penna scriveva perché era il suo lavoro, ma quel compito non le piaceva. Ogni tanto il pennino grippava sul foglio, quasi a non voler proseguire, oppure sbavava qualche goccia di inchiostro come se fosse una piccola goccia di sangue che proveniva da quel suo cuore di gomma che era il suo serbatoio. E quando Nello richiudeva il tappo avviandolo sullo stelo, la penna si addormentava e sognava di scrivere poesie.

    E arrivò la guerra.
    Nello aveva aderito al movimento clandestino dei partigiani e, nonostante fosse sposato da poco, aveva dovuto allontanarsi da casa e vivere nascosto per non essere catturato. Spesso doveva cambiare, insieme ad altri partigiani, i vari rifugi. E, quando possibile, scriveva delle lettere a sua moglie. E per scriverle utilizzava la stilografica che Alberto gli aveva regalato. E la stilografica era lieta di trascrivere i pensieri di Nello e quasi si compiaceva di condividere con lui quella insolita vita da clandestino. E ancora, Nello scriveva lettere anche per gli altri compagni di lotta e la stilografica si sentiva orgogliosa di partecipare a quella banda di ribelli e di aiutarli a comunicare con i loro cari.
    Nello scriveva anche dispacci con informazioni militari che le staffette si incaricavano poi di recapitare ai vari comandi partigiani e alla Sheaffer pareva che le parole che il suo pennino scriveva fossero come pallottole sparate in battaglia contro il nemico.
    Poi la guerra finì, Nello poté riprendere il suo lavoro, tornare a casa e pensare ad avere dei figli. Ne nacquero due: Edmondo e Laura. Il tempo riprese a trascorrere, i figli crescevano, Edmondo sarebbe diventato un professore di greco e latino, Laura un architetto, mentre i capelli di Nello diventarono grigi e poi bianchi. La stilografica aveva dovuto cambiare abitudini: non più lettere d’amore, messaggi intimi e informazioni segrete, ma solo firme e auguri di buon Natale e buona Pasqua. Poca fatica, ma belle parole per bei momenti.
    Alberto, dopo il congedo dalla marina militare, era rimasto a Venezia, aveva trovato un impiego come commesso usciere al comune. Aveva preso in affitto una stanza in un pensionato per soli uomini. Quando mi sposerò – si diceva – allora avrò una casa vera, una casa mia.
    Poco dopo il fidanzamento era stato lasciato da Elvira senza saperne il motivo. Mentre stava preparando il matrimonio, Elvira e la sua famiglia erano partiti all’improvviso senza lasciare detto dove e senza lasciare nessun messaggio. Preso dallo sconforto, Alberto aveva pensato in un primo momento di suicidarsi. Passava le giornate a bere e a smaltire le sbornie fuori dalle taverne e dalle osterie.
    Una notte, densa come un mantello di velluto scuro, passando davanti ad una cartoleria vide, esposta nella vetrina, una penna stilografica, una Sheaffer, come quella che aveva comprato e regalato al suo amico Nello. E gli tornò alla mente quando era imbarcato, a come era felice in quel periodo. E ancora ripensò alle lettere scritte con quella penna a Elvira, a quell’amore nato all’improvviso e all’improvviso finito.
    Si mise a correre finché il fiato non gli mancò. Si fermò sul bordo del canale. Guardava l’acqua scorrere sotto di lui, scura, densa e invitante. Gli apparve il viso di Elvira, teso, lo sguardo trasparente come una ampolla e cereo come un cadavere. Chiuse gli occhi deciso a buttarsi nel canale, ma una voce lo scosse come se una mano enorme lo avesse afferrato e scrollato con prepotenza.
    – Alberto! Che fai?
    Apri gli occhi e vide il volto di Nello palpitare sul pelo dell’acqua appena increspata da un leggero tremolio, e avverti come una vibrazione sospesa tra i loro sguardi. La voce continuò e questa volta sembrava bloccarlo come inchiodato al pavimento
    – Signore? Sta bene?
    Alberto si girò per vedere chi lo avesse chiamato, poi tornò a guardare in basso, dentro il canale. Il volto di Nello non c’era più.
    – Signore? Sta bene?
    Alberto si era irrigidito, non vedeva, non sentiva, aveva la sensazione di non esistere, di non sapere più chi fosse, di essere immerso in una densa caligine.
    – Signore? Sta bene? Questa volta sentì la stretta di una mano sulla sua spalla che lo scuoteva e all’improvviso si ritrovò sulla sponda del canale. Davanti a lui un frate intabarrato in una saio così grande che lo faceva apparire come un tappeto ondeggiante.
    – Allora?
    – Si, si, sto bene, solo che … forse ho bevuto troppo … poi ho corso, mi manca il fiato.
    – Dai, si segga, qua – e indicò il gradino di accesso ad un portone dietro di loro.
    Alberto ubbidì come se a dirgli di sedersi fosse stato un ufficiale quando era imbarcato sul sommergibile. Accanto a lui si sedette anche il frate che prese dal tascapane che aveva a tracolla un pacchetto di sigarette Macedonia e ne offrì ad Alberto.
    – Su, fuma che ti ritorna il fiato!
    Alberto sorrise spontaneamente, prese una sigaretta e la mise in bocca e la accese con la fiamma dello zolfanello acceso dal frate. Aspirò una larga boccata di fumo e mentre lo rilasciava lentamente con la bocca, dagli occhi scendevano le lacrime come piccole gocce perlacee di rugiada.
    Si sentiva solo il rumore dell’acqua che sciabordava sulla sponda del canale.
    Poi alle lacrime si aggiunse un affannoso singhiozzare. Alberto aveva gettato la sigaretta lontano e aveva nascosto il volto tra le mani.
    – Che succede? Raccontami …
    – Che vuoi che dica? Sono disperato …
    – Io mi chiamo Marcello, ma tutti mi chiamano Fra Lello, tu come ti chiami?
    – Come hai detto che ti chiami?
    – Lello! perché?
    – Avevo capito Nello, avevo un amico che i chiamava Nello e prima mi pareva che mi avesse chiamato. – Qui ci sono solo io, non c’è nessuno, neanche prima.
    – Io sono Alberto.
    – Dai, prendi, ma questa volta fumala tutta!
    Lello porse il pacchetto delle Macedonia ad Alberto.

    Alberto aveva iniziato a raccontare la sua storia, di come si era imbarcato sui sommergibili, di Nello, di Elvira, della stilografica, e della disperazione che gli riempiva il cervello e il cuore per essere stato lasciato.L’alba era come sorta dal fondo del mare della laguna e la luce del sole aveva rischiarato il canale che ora appariva meno scuro, meno tetro. Sul pelo dell’acqua fluttuava, incastrata tra i gradini di una scaletta e la sponda, la pagina di un giornale con una foto di una donna.
    – Ecco quello che ho visto! La pagina di un giornale e … Elvira era quella donna e Nello che mi parlava eri tu! Eri Lello e …
    – Ora basta! Dai! Vieni con me, passeggiamo, devi smaltire tutto quello che hai bevuto.
    Lello e Alberto camminarono fino a San Marco. Entrarono nella basilica. Alberto si inginocchiò e rimase col viso nascosto dalle mani giunte. Ogni tanto un singulto, a stento trattenuto, lo scuoteva, le lacrime cadevano lente, sdrucciolando e insinuandosi tra peli della barba trascurata che spuntava sulle guance, sul mento, sul collo che metteva in risalto, nel volto smunto e scavato, tutta la sua disperazione.
    Passò il tempo, e quanto fosse trascorso non fu possibile percepire né da Lello né da Alberto.
    Quando uscirono dalla basilica il sole splendeva alto, brillante e l’aria intorno appariva tersa,straordinariamente trasparente e un leggero olezzo di viole si poteva odorare, sospeso nell’aria e sembrava seguirli passo dopo passo.
    Si sedettero su una panchina.
    Una colomba prese a volteggiare sopra di loro, poi quasi in picchiata, si posò sulla spalla di Lello. Il frate la prese, le accarezzò il piccolo capo e poi, lentamente, la proiettò verso l’alto. La colomba riprese a volteggiare sopra di loro, sembrava non volesse andarsene, rimase così a mulinare quando improvvisamente discese lentamente, come una piuma sorretta nell’aria ferma, sul grembo di Alberto.
    – La pace sia conte! Questo è un segno del Signore!
    Alberto prese delicatamente nelle mani la colomba che iniziò a tubare con una sonorità delicatamente dolce, un suono soave che pareva un sussurro, un respiro sottile come il vibrare delle ali di una farfalla.
    – Un segno del Signore dici? Proprio per me che volevo farla finita?
    – Non mettere confini alla provvidenza! Non può essere il caso che io passassi proprio in quel … quel momento, era il Signore che ha voluto che fossi io a fermarti!
    – Ed ora? E adesso che faccio?
    – Vieni con me!
    – Dove?
    – Nel Congo, in Africa. Ad aiutare a costruire un lebbrosario. Laggiù vedrai la vera sofferenza.
    La colomba smise di tubare, mentre una nube transitando davanti al sole aveva creato una sorta di crepuscolo che sembrava avere dipinto di grigio chiaro e scuro tutto ciò che li circondava.
    Alberto aveva lo sguardo perso sull’orizzonte della laguna. Sembrava trasognato mentre accarezzava delicatamente la colomba che nel frattempo era risalita sul petto fermandosi all’altezza del cuore.
    – Davvero? Davvero potrei essere utile? Non so fare nulla …
    – Questo lo dici tu! Vedrai quanto sarai capace di fare e ancora non lo sai! Mettiti alla prova e vedrai!
    – Allora … allora dai! Andiamo, partiamo!

    La nuvola che prima velava il sole si era dissolta e la luce aveva ripreso a brillare colorando con contrasti multicolori tutto ciò che li circondava e all’improvviso la colomba si staccò da Alberto e volò via,veloce come una freccia verso il sole fino a che la luce abbagliante la inghiottì facendola sparire.
    – Vedi? La colomba è volata ad est, la direzione che dobbiamo prendere! Vedi? È un segno del Signore! Lello e Alberto si abbracciarono, avevano gli occhi pieni di lacrime.
    Alberto rimase nel Congo per cinquanta anni e ne aveva settantacinque quando per motivi di salute dovette ritornare in Italia. Aveva contratto una polmonite virale che gli aveva lasciato gravi postumi. Dapprima trovò ospitalità in un pensionato gestito da religiosi a Roma, poi venne a Milano per curare, presso un ospedale specializzato, le complicazioni cardiache insorte. Non aveva denaro salvo quel poco che gli veniva mandato, di tanto in tanto, dal Congo, frutto delle elemosine raccolte in chiesa. Non ne sentiva il bisogno, ma si poteva vedere i segni della povertà nel modo di vestire, inoltre la salute cagionevole gli conferiva un aspetto miserando.
    Aveva trovato alloggio presso una comunità di frati che gli avevano messo a disposizione una piccola stanza, quasi una cella se non fosse stato per un letto con il materasso e un tavolino con una lampada. Fu proprio su quel tavolino che sfogliando una rivista vide la pubblicità di una penna stilografica e di colpo le tornò alla mente la Sheaffer, Elvira e Nello.
    – Chissà, forse è ancora vivo, magari ancora qui a Milano! Come mai non mi sono ricordato prima e lui si ricorderà di me?
    Aveva parlato da solo ed alta voce, era la prima volta che gli capitava. Si ricordava che al Bar, dove qualche volta andava a bere un bicchiere di latte, c’era un telefono gettoni e un elenco telefonico. Fu così che scopri l’indirizzo di Nello.
    Quella notte non riuscì a dormire, si domandava se andare o no a trovare il suo vecchio amico, alternava una decisione ad andare ad una netta rinuncia. Si era fatto spiegare quali mezzi prendere: non era difficile, bastava solo un tram che transitava proprio davanti a dove abitava.
    Il mattino acquistò due biglietti, attese il tram e salì.
    – Dove crede di andare?
    La portiera aveva visto un uomo mal vestito e macilento entrare dal portone.
    – Dice a me?
    – E a chi? C’è solo lei!
    Alberto percepì quello sguardo indagatore sostenuto da una nota di indifferenza mista a commiserazione. Non se ne rammaricò, comprese che tutto sommato il suo aspetto non lo favoriva di certo. – Vado da Nello De Fortis , sono un amico.
    – Il signor?
    -De Fortis, abbiamo fatto la marina insieme, ma è passato tanto tempo …
    – La voce di Alberto era dolce, calma quasi suadente.
    – Terzo piano.
    Entrato nell’ascensore, Alberto allungò il dito per premere il pulsante del piano e si accorse che la mano gli tremava.
    Era fermo davanti alla porta e lo sguardo si era fissato sulla targhetta con scritto Nello De Fortis. Ed gli parve di vedere l’immagine sfuocata del volto dell’amico che gli sorrideva. Premette per un istante il campanello e ne sentì il suono. Ritirò la mano spaventato, avrebbe voluto non essere in quel posto, avrebbe voluto andarsene, ma era come se fosse paralizzato.
    La porta si apri. Erano di fronte uno all’altro.
    Lo stupore si era materializzato sui loro volti, avevano la bocca quasi spalancata, poi contemporaneamente un sorriso si spiegò sulle loro bocche. Si trovarono abbracciati senza aver detto una parola.
    – Che succede?
    Anna, la moglie di Nello era davanti a loro.
    – Anna! sai chi è arrivato? Il mio amico Alberto! Eravamo in marina, sui sommergibili, più di cinquanta anni fa!
    Si sedettero nel salotto. Nello raccontò tutto quello che era successo dopo la loro separazione e Alberto fece altrettanto.
    – La penna! La Sheaffer! Ti ricordi? Avevo promesso che te l’avrei restituita! Ora posso mantenere la promessa. Vado a prenderla!
    – Ah! Lo ricordi? E gli occhi si riempirono di lacrime mentre aspettava il ritorno di Nello.
    – Eccola.
    Alberto prese la Sheaffer e svitò il cappuccio. La Penna senti l’aria ritornare sul suo pennino.
    – Oh! – Si disse- vuoi vedere che mi tocca scrivere ancora quelle fredde e ridicole relazioni?
    Poi sentì il calore della mano di Alberto e la riconobbe.
    Alberto la tenne delicatamente tra le dita, poi la ripose nel tasca della giacca.
    – Hai dei … problemi?
    Chiese Nello e nella sua voce si avvertiva un certo disagio e una dissimulata difficoltà nel formulare quella domanda.
    – No, No, sto bene così, si sono un poco malandato di salute, ma non mi lamento.
    – Lo sai, lo ricordi quanto mi hai aiutato quando ero senza un quattrino? Ora mi devi permettere di ricambiare …
    – No, no … noi siamo amici e questo basta. Ci siamo incontrati di nuovo e questa volta non lasceremo passare altri cinquanta anni!
    Alberto era seduto al tavolino della sua stanzetta. Davanti a lui una scatola di scarpe con delle vecchie cartoline e delle fotografie di quando era sui sommergibili. Piano piano le guardava ad una ad una, riconosceva i volti dei vecchi commilitoni. Collocò dentro la scatola la stilografica e ripose sopra il coperchio.
    Si stese sul letto, chiuse gli occhi e ripensò al suo passato: rivide la torretta del sommergibile, il volto diElvira, si rivide mentre voleva suicidarsi e l’incontro con frate Marcello e poi quella sera, quell’abbraccio con Nello.
    – Un bel momento per morire questo – pensava – non ho rimpianti, sono contento.
    Non riaprì più gli occhi. Il mattino un frate lo trovò. Il volto disteso e calmo come l’acqua di un piccolo lago. Prese la scatola dal tavolino e la portò nella sua cella.
    E il tempo continuò a trascorrere stendendo una coperta sul passato e proseguendo implacabile e silenzioso, scivolando come sabbia tra le dita.

    Edmondo aveva deposto la scatola di scarpe con le fotografie sul tavolo rotondo, in salotto. Era da alcuni minuti che la fissava, aveva uno strano timore nell’aprirla. Poi con un gesto deciso la prese, tolse il coperchio e rovesciò il contenuto sul tavolo. Le fotografie e le cartoline caddero sparpagliandosi intorno sovrapponendosi. Una cadde per terra. Edmondo la raccolse, la girò: sul retro una scritta con una calligrafia inconfondibile: al mio amico Alberto. La firma: Nello.
    Edmondo riconobbe, nella foto, suo padre. Poi si accorse della stilografica.
    Svitò il cappuccio e scrisse sul coperchio della scatola: Ita amare oportere, ut si aliquando esset osurus. E subito sotto: Bisogna volere bene come se un giorno si dovesse arrivare a odiare. Cicerone, De amicitia.
    La penna si accorse di avere scritto in latino e si rallegrò della bella citazione che aveva stilato.
    Chissà – si disse- vuoi vedere che il mio nuovo lavoro sarà scrivere per un intellettuale?


    Edmondo sospirò profondamente. guardò le foto e le cartoline sparse sul tavolo e poi mormorò:
    – Alberto Lodetti! Papà me ne aveva parlato, mi ricordo anche della penna, quando la volevo usare mi diceva sempre che era un pegno di amicizia e che non poteva darmela!
    Prese la penna e la osservò accuratamente, quasi stesse valutando una vecchia cartolina.
    – Bene vecchia mia, d’ora in poi starai con me, scriverai in latino e in greco, non sarà difficile, ti guiderò io.
    La Sheaffer ascoltò le parole di Edmondo, quel “vecchia mia” le piacque così tanto che sentì l’inchiostro premere nel suo piccolo serbatoio di gomma quasi a voler risalire per mettersi subito al lavoro.

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    8-9.1.1896, il mistero (italiano) della regia torpediniera 19T

    di Guglielmo Evangelista

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    guglielmo-evangelista-f-p-g-c-a-www-lavocedelmarinaio-comE’ tradizione secolare che la Guardia di Finanza riceva dalla Marina Militare delle unità che, pur non essendo più adatte per una qualsiasi ragione per l’attività bellica, possono invece essere ancora validissime per il servizio di polizia.
    Nell’ambito di queste cessioni a fine ‘800 il Corpo si arricchì di 9 torpediniere costruite in Gran Bretagna dai cantieri Thornycroft di Londra fra il 1883 e il 1885.
    Erano piccole unità da 13,5 tonnellate e lunghe 17 metri, navi quasi nuove. A quell’epoca la torpediniera era considerata in tutte le marinerie un elemento di punta così che il loro sviluppo tecnico era stato rapidissimo, con un progressivo aumento della velocità e delle dimensioni, facendo invecchiare in poco tempo i modelli meno recenti.
    La Regia Marina aveva assegnato, a ciascuna di queste piccole navi, un nome proprio; in genere di insetti, ma poi, a causa del numero sempre maggiore di unità in servizio, si decise di contrassegnarle semplicemente con un numero seguito dalla lettera iniziale del nome del cantiere di costruzione.
    Delle 9 torpediniere di cui si è detto all’inizio tre unità vennero destinare al lago di Garda, tre al lago di Lugano e tre al lago Maggiore con base rispettivamente a Limone, Porlezza e Cannobio.
    In relazione al servizio da svolgere presso la Guardia di Finanza vennero ovviamente smontati i lanciasiluri mantenendo il cannoncino da 25 mm e vennero dotate di un grande proiettore e di una nuova timoneria più spostata a proravia della precedente.
    La Finanza le classificò come “incrociatori” una denominazione che era comune a quasi tutte le sua unità e non era assegnata a sproposito. Infatti oggi abbiniamo istintivamente a questa parola i ricordi della storia del ‘900, quando il termine designava una grande nave veloce e ben armata, ma non va dimenticato che l’etimologia è semplicemente quella di un’unità il cui compito è rastrellare le acque alla ricerca dell’avversario e, individuatolo, dargli la caccia approfittando della sua velocità.
    Quindi il nome era tagliato su misura per le unità “anti contrabbando”, anche se erano di piccole dimensioni.
    Sul lago Maggiore i traffici locali, a parte i piroscafi di linea, si svolgevano ancora con barche a vela o a remi di tipo tradizionale e il costante pendolare delle unità della Finanza, per chi naturalmente non avesse qualcosa da nascondere, rappresentavano una sicurezza e un aiuto nel caso di qualcuno degli incidenti o dei contrattempi tanto frequenti e imprevedibili quando si naviga su piccole imbarcazioni.

    …Ma non ci fu nessuno che poté soccorrere la torpediniera 19T in quella notte del 8/9 gennaio 1896.

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    Tutte queste unità navali, finché da lì a pochi anni non sarebbe entrato a pieno regime il servizio navale della Guardia di Finanza, avevano equipaggi misti: otto marinai per la condotta della navigazione e della macchina, e quattro finanzieri per il servizio di istituto.
    Quella notte la 19T, al comando del Capo nocchiere di 2^ classe Giovanni Sofra e con il Capo pattuglia della Finanza maresciallo Franchini, partì da Cannobio con a bordo oltre all’equipaggio il comandante della locale tenenza e un finanziere che sbarcarono a Valmara, proprio a ridosso della linea di confine, dove dovevano svolgere un’ispezione. Da lì la 19T proseguì verso il largo cominciando il suo normale servizio di pattugliamento lungo il limite delle acque territoriali italiane.
    Era una notte incantata, di quelle che non raramente si possono avere sui laghi anche in pieno inverno: mite e luminosa. Le vette alpine sembravano a portata di mano nell’aria trasparente e più di un turista, nei lussuosi alberghi che sorgono sulle rive del lago, si sarà goduto quella splendida serata.
    Ma non durò a lungo perché a mezzanotte il tempo cambiò: il cielo si oscurò e le onde incresparono sempre di più le acque finché si scatenò una vera tempesta, che provocò parecchi danni alle località rivierasche.
    Dalla costa era facile vedere la posizione della 19T grazie al fascio di luce del suo proiettore acceso. Fu vista spostarsi verso terra per guadagnare un punto ridossato, ma poi il proiettore si spense improvvisamente e non vi fu più nulla.
    Dalla caserma di Cannobio il finanziere di guardia seguiva le evoluzioni della torpediniera, probabilmente più per abitudine che per altro, ma quando vide scomparire quella luce si rese conto di quanto poteva essere successo e dette l’allarme: partì subito la sezionaria 21T per portare un soccorso ormai inutile: la torpediniera era affondata rapidamente, squassata delle onde.
    Purtroppo non fu l’unico caso del genere registrato in Marina: il maltempo fu fatale a più d’una di queste piccole unità concepite solo per scopi offensivi e le cui qualità nautiche e logistiche lasciavano a desiderare.
    Il quotidiano “La Stampa” di Torino dà però un’altra versione: 
    “…era di pattuglia la 21T e, rientrando a Cannobio piuttosto malconcia, vide che il posto della consorella era vuoto e riprese immediatamente il largo per ricercarla, pensando che la tempesta l’avesse strappata dall’ancora. Forse è una delle solite invenzioni dei giornali perché, altrimenti, a bordo della nave ormeggiata non ci sarebbe stato nessuno dato che gli equipaggi non vivevano a bordo. Tra l’altro il giornale, nelle diverse edizioni, parla ora di 14 e ora di 15 uomini di equipaggio”. 
    A questo punto, imprecisioni giornalistiche a parte, ci si domanderà: dov’è il mistero?
    Eppure qualcosa di strano c’è: durante le ricerche, che proseguirono diversi giorni con l’intervento di tutte le navi disponibili, compresi i piroscafi di linea che interruppero il servizio affiancandosi alle unità della Finanza e un gran numero di barche private sia lombarde che piemontesi, non fu trovato nulla, ma proprio nulla. A testimoniare un naufragio rimangono sempre degli oggetti, pezzi di legno, macchie d’olio, effetti dell’equipaggio e purtroppo anche qualche corpo, ma nel nostro caso non fu ritrovato assolutamente niente.
    Basterebbe al proposito guardare alcune immagini dell’epoca che mostrano su queste navi vari salvagente lungo le fiancate che, come si sa, sono sistemati apposta per essere facilmente sganciati …Nulla!
    Eppure la nave doveva essere proprio lì, la costa era vicina e il lago, benché profondo, non ha un’eccessiva larghezza, ma gli scandagli non rivelarono niente.
    Ma il mistero si infittisce negli anni recenti quando – forse con una discutibile curiosità – è invalsa la moda di ricercare relitti in mare o nei laghi, l’intera zona è stata perlustrata con strumenti modernissimi e infallibili usati dalla Marina Militare e perfino mini sommergibili, ma non è stata trovata la più piccola traccia dello scafo.
    Abbiamo parlato qualche tempo fa della cannoniera Sesia affondata nel Garda (*): è ancora lì e nonostante i trecento e passa metri di profondità è stata esaminata e fotografata con relativa facilità. Le navi di Lissa sopravvivono sul fondo dell’Adriatico e lo sanno bene i pescatori che ci perdono le reti…perfino il Titanic è stato individuato. 
    Invece la 19T sembra che non sia mai esistita. La ricorda soltanto un piccolo monumento eretto nel 2006 a Cannobio.
    Verrebbe da pensare a quei racconti che parlano di “buchi neri” o di alieni che si appropriano delle più svariate e impensabili cose terrestri per studiarle.
    Ma questa è una storia troppo seria per lasciar correre la fantasia.

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    (*) https://www.lavocedelmarinaio.com/2016/08/la-cannoniera-sesia-il-primo-mistero-italiano/