Emigrante di poppa

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    I miei parenti stretti …di Ognina

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Mi addormentavo sognando paradisi tropicali e sirene bellissime di tutte le razze che si prendevano cura di me, che mi svezzavano come una mamma con i propri figli, come una puttana con il suo cliente, come una nonna quando accarezza i propri nipotini, come una fata turchina con il suo Pinocchio.
    Forse è per questo che amo il mare, perché mi fa sognare.
    Io frequento i sogni e penso che chi rinuncia a sognare, rinunci alla vita stessa.
    Amo il mare e la sua gente, come fossero parenti stretti.
    (tratto da “Emigrante di poppa” di Ezio Vinciguerra – Edizioni Eva)

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    Il senso della vita è la solidarietà

    di Leo Gullotta

    Odio gli spigoli e gli angoli. Preferisco le forme rotonde…
    Anche nelle persone amo la rotondità, nell’essere, nell’agire nel dare…

    “Fate scendere questi diritti giù, sin nel profondo del vostro cuore, fino a quando essi non diventino intima parte di voi…
    Non lasciatevi mai abbattere da ciò che, ogni giorno, provi ad offendere la vostra intelligenza, la vostra sensibilità e la vostra umanità, ma, al contrario, combattete, con tutte le vostre forze, ogni tentativo di negazione di tali diritti ed ogni subdolo sforzo di chi ve li voglia far apparire necessariamente subordinati all’applicazione di logiche di compromesso.
    Siate sempre solidali con tutti coloro che vi circondano e sappiate prendervi cura del vostro cuore come fate del vostro corpo sino a quando non sarete in grado di stupirvi per tutto ciò che la vita vi regala ogni giorno…
    Ricordate sempre che aiutare chi vi sta accanto significa aiutare soprattutto voi stessi e il vostro futuro!”.

    …E’ il 9 di gennaio del 1946. Sono le 13, credo, e sto venendo al mondo. E’ incredibile! Sentite cosa dico:
    LEO: Uhheeeeeeeeeeeeeeeee!!!
    E’ la prima battuta della mia vita. E chissà se fa ridere…
    E’ l’inizio di una sceneggiatura? Si certo, ma è soprattutto l’inizio di una vita semplice, normale, uguale a mille altre.
    Ma nel 1946 accaddero altre cose, ben più significative della nascita di tanti e tanti bambini come me…

    http://www.leogullotta.it

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    Giorgio, era mio padre

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra
    tratto da Emigrante di poppa (diritti riservati)

    L’ultima partita di campionato mi riservò gioia e dolore. La gioia per aver segnato il primo gol della mia vita in un torneo ufficiale. I compagni mi sostennero, mi abbracciarono, gioivano per “Ricciolino” che finalmente aveva segnato un gol. In quella partita ricevetti un calcio al volto, più esattamente nella guancia destra, dove ancora oggi porto una cicatrice che sembra avermi scolpito, quando rido, una fossetta. Ma non fu il vero dolore, per me che aspettavo la fine dell’incontro di calcio per rientrare a casa e dare la bella notizia ai miei familiari. Ma l’uscio era spalancato. La casa piena di vicini con aria mesta, triste e sconsolata. Le donne piangevano, percepivo le voci dei vicini che esclamavano:
    – “Ecco è arrivato il figlio, povero bambino”.
    Capii. Corsi verso la ringhiera del balcone per nascondere le lacrime, mi accartocciai su me stesso in posizione fetale per covare il dolore. Piangevo, singhiozzavo e mi soffiavo ripetutamente il naso. Se ne era andato troppo in fretta: non avevo fatto a comunicargli che suo figlio aveva fatto finalmente “goal”, che aveva vinto qualcosa di importante e che adesso l’avrebbe fatto felice anche studiando la musica.
    Giorno triste, per quel bambino che si apprestava a diventare ragazzo. Senza un fratello, senza un confidente.
    Nell’immediatezza non ebbi il coraggio di guardare mio padre sul letto di morte. Volevo ricordarlo da vivo, mi parve. Solo l’insistenza di parenti e conoscenti mi convinsero a vederlo prima che fosse chiuso nella sua povera bara di legno di ebano liscio lucidato. Giaceva fermo e rigido sul talamo nuziale al centro della stanza con due enormi candelabri ai piedi del letto, una coroncina del rosario fra le mani e l’immaginetta di San Giorgio, il suo santo protettore, adagiata su quell’esile corpo ridotto a pelle ed ossa.
    La messa ed il funerale furono maggiormente strazianti. Il dolore di mia madre, la disperazione delle mie sorelle, specialmente di mia sorella Angela, ricordo; e l’interminabile omelia funebre del sacerdote che, pur esaltando i pregi in vita di mio padre, non esitò a dire che la vita, seppur nel dolore, continua. Continua un corno, pensavo io.
    Il rientro a scuola fu ancora piú difficile per Ricciolino, anche se erano gli ultimi giorni di lezioni. Alla vista dei compagni scoppiai in lacrime. Avvertivo come un senso di vergogna. L’insegnante di matematica, la professoressa Sozzi, mi venne subito incontro, il suo alunno prediletto aveva perso il genitore: l’unico della classe con tale lutto. Lei non era sposata ma ci sapeva fare con i ragazzi. Aveva modi spiccioli, decisi e atteggiamenti quasi maschili. Mi disse di non piangere e di comportarmi da uomo. In effetti non aveva torto.
    Il bambino che era in me, invece di diventare ragazzo, divenne uomo. Tra poco iniziavano le vacanze estive e si ritornava a Castelmola.
    Ma di quell’estate non ricordo nulla!