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La salute del marinaio

di Guglielmo Evangeslista (*)

Anche nei tempi in cui la vita era dura per tutti,  quella del marinaio era una delle peggiori: a parte i pericoli dovuti a tempeste, guerre e pirati, sia che l’imbarco fosse su una nave mercantile che da guerra gli sforzi fisici, l’alimentazione inappropriata, l’umidità e la scarsa igiene contribuivano a rendere precaria la salute degli equipaggi e la vita degli uomini era breve, resa al massimo un po’ meno monotona rispetto a quella di chi lavorava la terra dal conoscere località lontane e forse, ammesso che sia vero, dall’avere una donna in ogni porto.
Sulle navi militari c’era il vantaggio di avere a bordo un medico. Al proposito è doveroso ricordare il dottor James Lindt della Royal Navy che individuò le cause e la cura dello scorbuto nel XVIII secolo facendo fare un eccezionale passo avanti alla medicina navale, ma in genere questi medici militari erano bravi soprattutto a mettere a posto un osso rotto o a ricucire una ferita e, in modo non molto diverso dai loro colleghi civili, erano sostanzialmente impotenti di fronte alla maggior parte delle malattie e altrettanto ignoranti in fatto di prevenzione.
Sulle navi mercantili non restava che affidarsi al capitano che, fra i suoi doveri, annoverava anche   la funzione di curare i malati, con quali risultati possiamo immaginarcelo anche nel caso che mostrasse la massima buona volontà.

 

(Il dottor James Lindt cura gli ammalati di scorbuto in una poco confortevole infermeria di bordo)

Restando nell’ambito militare nell’800 il quadro sanitario  era forse migliore in Italia che nelle altre marine europee: a Genova e a Napoli si navigava poco e quindi le frequenti soste permettevano meno sacrifici e viveri freschi.
A Napoli per i marinai ammalati venivano perfino tenute a bordo galline vive in modo da fornire all’occorrenza brodo, uova e carni bianche ed era prescritto che venisse loro somministrato vino della migliore qualità che si potesse trovare a bordo,  prevedibilmente attinto alla cantina degli ufficiali.
In Piemonte il comandante doveva visitare almeno due volte la settimana i ricoverati a bordo o a terra e, se erano in un ospedale civile, doveva mandare ogni giorno un ufficiale per assicurarsi costantemente che fossero ben trattati e ascoltare eventuali lagnanze.
L’articolo 453 del regolamento sabaudo del 1826, occupandosi della salubrità dei locali, afferma che la salute dell’equipaggio essendo un oggetto della più grande importanza si devono prendere tutte le precauzioni ed impiegare tutti i mezzi che tendono a conservarla….
Nel 1883 la Regia Marina disponeva degli ospedali principali di La Spezia, Napoli e Venezia e di quelli succursali di Portovenere e Castellammare di Stabia.
In particolare il grande ospedale navale di Portovenere, ampio e in posizione salubre e ventilata, permetteva  una degenza tranquilla, lontano dalla promiscuità delle navi e dalla congestione cittadina.
L’edificio, oggi completamente ristrutturato, è diventato il Grand Hotel Portovenere.  Chissà se qualcuno avverte qualche presenza….Eh sì, perché nonostante il trattamento premuroso agli ammalati, la medicina era quella che era, e per chi entrava in una struttura sanitaria o in un’infermeria le prospettive di uscirne con le proprie gambe in certi casi non erano poi tante.
Dopo la fine della marina velica e gli anni convulsi successivi all’Unità e all’omogeneizzazione delle marine che erano confluite in quella italiana, si cominciò anche a pensare alle condizioni e al benessere del personale partendo, ovviamente, dalla salute. A fine degli anni ’70 dell’800 si cominciò a lavorare alla “Relazione sulle condizioni sanitarie dei Corpi della R. Marina” che fu pubblicata nel 1883. Si tratta di un volume denso di dati ed è opportuno soffermarsi sugli elementi più importanti. Nel corso del 1879, su una forza totale di 11100 uomini, gli ammalati ricoverati negli ospedali e nelle infermerie furono 5445: quasi la metà, con una durata media dei ricoveri di 25 giorni.
I decessi furono però solo 69. Non c’è comunque da meravigliarsi che le cause di malattia e/o di morte più frequenti fossero le stesse per le quali all’epoca ci si ammalava dovunque: tubercolosi, tifo  e polmonite. Seguono i postumi di lesioni violente e i disturbi visivi (anche se riesce difficile capire perché in certi casi questi fossero mortali).
E’ anche da notare che la morbilità era superiore fra il personale a terra rispetto a quello imbarcato e a La Spezia, dove l’ospedale funzionava anche per la guarnigione dell’esercito, i soldati ammalati erano proporzionalmente molto superiori ai marinai. A quell’epoca doveva esistere uno stretto rapporto fra le condizioni delle caserme, il numero di persone che ci vivevano e le malattie individuabile probabilmente nella tipologia degli ambienti, impossibili da riscaldarsi o da ventilarsi,  e nelle condizioni dei  servizi igienici.

 

Nell’intero periodo di quattro anni considerato dalla relazione la mortalità, ripartita sul totale degli appartenenti ai vari gradi, fu la seguente:
– Ufficiali:  1,25 per mille
– Sottufficiali: 7,15
– Sottocapi:  4,21
– Comuni:  5,14
Va comunque notato che gli ufficiali ammalati avevano la possibilità di chiedere l’aspettativa e farsi curare a casa propria e sfuggivano alle statistiche.
L’andamento della morbilità seguiva sostanzialmente una curva stagionale con pochi casi che si allontanavano dalla routine: nel 1879 si registrarono  a Napoli molti ricoveri per malattie agli occhi dei membri dell’equipaggio della fregata Vittorio Emanuele reduce da una crociera nel Levante e nel 1880 si ebbero casi di ustioni gravi per lo scoppio di un cannone sul Duilio. Un caso a sé era quello di Venezia dove fra i marinai la malaria era endemica: se ne cercò la causa che fu imputata alle guardie in determinate installazioni sparse in zone isolate nella laguna.
Come abbiamo detto le condizioni sanitarie del personale imbarcato erano migliori di quelle del personale a terra anche se veniva rilevato che a bordo le lesioni violente per incidenti interessarono oltre il dieci per cento del personale benché fossero quasi sempre di lieve entità venendo medicate nell’infermeria di bordo senza bisogno di ricovero o di operazioni.
Il primo passo per mantenersi in salute è l’alimentazione, lo sapevano già i legionari romani, e in questo il nostro marinaio era un privilegiato non solo rispetto ai soldati ma anche rispetto alle altre marine.
Di come mangiassero gli inglesi  è meglio non parlarne: basti pensare che durante la spedizione in Crimea nel 1856 i soldati piemontesi inscenarono una serie di proteste perché, a causa del naufragio di un piroscafo che portava i loro viveri, furono costretti al rancio della Royal Navy e lo giudicarono così disgustoso che in attesa dei nuovi rifornimenti preferirono accontentarsi di pane e acqua.
Il nostro rancio era ritenuto migliore anche di quello della marina francese, certamente di sostanza e appetitoso, ma troppo pesante e grasso e con una razione di condimenti e alcolici troppo abbondante.
Certo il menù presentato al nostro marinaio non era nulla di eccezionale e piuttosto ripetitivo, ma era pur sempre superiore alla zuppa quotidiana del soldato e alla polenta del contadino: a seconda di quanto previsto da una rigida tabella settimanale il cuoco di bordo preparava pasta asciutta, minestrone di riso o al pesto, carne in umido o lessata, pane fresco se si poteva: c’era in aggiunta un piatto di formaggio tutti i giorni, merluzzo al venerdì  e ci si confortava con quasi mezzo litro di vino.
Con un cuoco volenteroso e un contabile onesto si poteva imbandire una serie di portate che non solo all’epoca si sognavano la maggior parte degli italiani, ma non erano frequenti neppure sulle tavole borghesi.

 

Ovviamente, non meno di oggi, le lamentele non mancavano, così che nel 1877 il “Medico Ispettore” Mari e i tre “Medici Direttori” dei Compartimenti Marittimi (quindi secondo le denominazioni di grado dell’epoca  il maggior generale e i tre colonnelli che costituivano il vertice del corpo sanitario) studiarono attentamente la questione e pubblicarono una relazione nella quale si evidenziava come il rancio  fosse nel complesso “ottimo e abbondante” per il personale a terra, ma non fosse del tutto proporzionato quando i marinai imbarcati fossero chiamati a stress e sforzi particolari, consigliando di non lesinare, per farvi fronte, sul consumo di vino e di caffè.

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