Racconti,  Recensioni

Mani in pasta

di Giuseppe Pavich

Strano questo invito a cena. E’ già da un pezzo che abito qui, al piano terra di questo palazzo così anonimo, che tutti i giorni, al mio ritorno dal lavoro, mi accoglie con il suo odore di minestrone e di muffa. Con Lucia e Carlo, però, un po’ di amicizia l’ho fatta; tutti e due sorridenti, così affiatati, sembrano Al Bano e Romina. Bella coppia. Beh, oddio, bella coppia: lei è carina, moretta, begli occhi vispi neri come due olive; ma lui, poveretto,  è quasi più basso di lei, che già non supera il metro e sessanta; ed ha una faccetta da bambino con i baffi, e gli occhi sempre pronti a stupirsi; sembra innamorato del mondo.
Fino a stasera, tutto si è sempre limitato a due chiacchiere dal balcone, ma con la promessa di vederci a cena qualche volta.
E stasera Lucia ha bussato, dicendomi: “Senti, è da tanto che dobbiamo cenare insieme, ce lo diciamo sempre; allora ho pensato di fare la pizza, e so che in cucina te la cavi. Vieni ad aiutarmi, e poi quando torna Carlo ce la mangiamo insieme.”.
Perché no, mi sono detto; e l’ho detto anche a lei.
Salgo con Lucia al piano di sopra ed entro nel loro appartamento. Hanno ancora pochi mobili, li stanno comprando a prezzo di parecchi sacrifici. Lei non lavora, lui si sta costruendo un profilo di carriera come funzionario in una multinazionale; lavora fino alle otto di sera, dal lunedì al venerdì. Sono le sei; giusto il tempo di mettersi al lavoro in cucina.
Lucia mi fa da guida in mezzo alle ciotole, alle teglie; mi mostra la dispensa con le bottiglie di passata di pomodoro, il sale, l’olio, il vasetto di origano. Da qualche parte prende la farina e una bustina di lievito. Le dico che so come fare; mi faccio dare un recipiente di plastica, lo riempio fin quasi all’orlo con acqua tiepida, ci verso il lievito secco; le chiedo “mi dai un po’ di zucchero?”. Lei inorridisce. Le spiego che ne serve giusto un cucchiaino per far lievitare meglio l’impasto. Mi guarda mentre, sicuro, mescolo il lievito e lo zucchero diluendoli nell’acqua; poi, mentre verso il tutto nella scodella piena di farina ed aggiungo una presa di sale, mi accorgo che è uno sguardo strano, quello di Lucia. Gli occhioni neri mi fissano quasi di sottecchi; ha la bocca socchiusa, come se stesse per dire qualcosa, ma non dice nulla. Fingo di non farci caso, e comincio ad impastare l’acqua e la farina, prima con un cucchiaio di legno, poi con le mani.
Allora lei prende un tavolaccio di legno dal ripostiglio, lo cosparge di farina, ci mette il composto sopra e si unisce a me nell’impastare. Impastiamo insieme, lei ride, ride sempre di più, il gioco la diverte. Rido anch’io, in modo vagamente interrogativo. Poi, mentre ho le mani avvolte nell’impasto, sento le sue dita che si avvicinano alle mie; mi afferra la mano senza toglierla da quella massa morbida e gommosa. Ora non ride più.
Nella mia testa suonano tutti i segnali di allarme. La guardo, forse ho lo sguardo inebetito, perché so bene cosa sta succedendo ma devo avere l’aria di chi non ha ancora capito. Lei si ferma; mi guarda come mi guardava qualche minuto fa, mi si avvicina, la sua bocca è socchiusa, accenna ad aprirsi davanti alla mia. Ho il tempo di notare le sue labbra: carnose, umide, un fiore che sboccia. Ho appena il tempo di mormorare “ma sei sicura che sia la cosa giusta?” e, dopo un attimo, decisa, mi chiude la bocca con le sue labbra.
Cadono tutte le difese, se tali potevano chiamarsi. Senza minimamente preoccuparmi dell’impasto di acqua e farina che ancora mi lega le mani, la abbraccio, le accarezzo il vestito leggero, sottile, che mi trasmette tutto il palpito del suo corpo. Come in una danza bizzarra, abbracciati e ancora avvolti nel bacio, camminiamo, io a ritroso e lei quasi a spingermi fuori della cucina, verso la camera da letto. Mentre ci spogliamo, con gesti quasi inconsapevoli, penso per un attimo, ma solo per un attimo, a Carlo che a quell’ora sta facendo lo straordinario e già pregusta il ritorno a casa, da Lucia, che in quello stesso momento è lì davanti a me, nuda. La sua vista annulla ogni altro pensiero, e lascio che le cose vadano come devono andare.
A cose fatte, Lucia mi accende una sigaretta; se ne accende una anche lei; rimaniamo così, sul letto, per qualche momento, scambiandoci qualche altra carezza con le mani ancora increspate dalla farina. Poi, come riprendendosi da un sogno, alla vista dell’orologio lei fa: “Svelto, ripuliamo tutto che fra un quarto d’ora Carlo è di ritorno”.
Meticolosamente rimettiamo a posto ogni cosa: eliminiamo rapidamente dalla scena del delitto i residui di pasta lievitata che sono finiti sul copriletto; poi, a turno, ci infiliamo in bagno; lei cambia vestito, io in tutta fretta scendo nel mio appartamento a mettermi una maglietta nuova, poiché quella che avevo fino a poco prima è vistosamente imbrattata di farina. Poi torno a casa di Lucia.
Alle otto, puntuale come sempre, arriva Carlo. E’ raggiante, ancora in giacca e cravatta, anche se ha slacciato il nodo a causa del caldo. Lucia gli si butta fra le braccia e gli dice “Amore, stanco?”. Forse lo fa ogni sera; ma stasera quel gesto mi fa pensare. E se un giorno capitasse anche a me?
Nel frattempo l’impasto è lievitato; come se niente fosse accaduto, lei lo stende con le dita sul fondo della teglia appena unta, lo cosparge di salsa di pomodoro, fa rapidamente a pezzi la mozzarella e la distribuisce in modo uniforme, un pizzico di origano, qualche foglia di basilico, un giro d’olio; nel frattempo sono riuscito ad accendere e a far scaldare il forno, anche se ho le mani che mi tremano e mi gira la testa. La teglia viene infornata, ed un quarto d’ora dopo la pizza è pronta.
Ci sediamo e mangiamo in allegria, con davanti una bella birra fresca. Sembra una bella serata fra vecchi amici. Ma mentre lui ride in modo fanciullesco ad ogni mia battuta, lei, ogni tanto, sfiora le mie gambe con le sue, sotto il tavolo; e mi guarda, con quegli occhi neri enormi, la bocca socchiusa. Non so se riesco a far finta di niente.
Dopo il giro di grappa finale, mi alzo per tornare a casa. Carlo mi saluta, è stanco e si scusa; Lucia mi accompagna. E non sono affatto stupito nel sentirmi dire: “Domani vieni su per il caffè, lui va via alle otto e mezza….capito?”. Capito, Lucia. Ma lei, nel dubbio, dopo aver controllato con un’occhiata che Carlo sia chiuso in camera da letto a mettersi il pigiama, mi afferra per un ultimo bacio.
Poi mi dà la buonanotte, con voce carica di promesse. Ma so già che per me sarà una notte insonne.

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