Marinai di una volta

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    I muli del mare

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    I muli del  mare di Tullio Marcon è un libro che non può mancare nella collezione personale di quei marinai di una volta che hanno la passione per la storia della nostra marineria militare. Ogni commento od orpello a questa recensione sarebbe inutile. Un unico consiglio: da leggere  e rileggere.

    Titolo: I muli del mare
    ·  Autore: Tullio Marcon
    ·  Editore: Albertelli
    ·  Edizione: 3^
    ·  Data di Pubblicazione: 1998
    ·  ISBN: 8887372020
    ·  ISBN-13: 9788887372021
    ·  Pagine: 156
    ·  Formato: illustrato

    I Muli del mare
    di Filippo Mallamaci

    www.scubapoint.it

    …ovvero la storia della Motozattera 755 inabissatasi sotto la rocca di Capo dell’Armi.

    Scheda tecnica
    Costruita presso i Cantieri del Tirreno, Riva Trigoso
    Varo e consegna: 4 luglio 1942
    Lunghezza: 47 metri
    Larghezza: 6,5 metri
    Altezza di costruzione: 2,30 mt al ponte, 4,15 mt alla tuga
    Immersione a pieno carico: 0,95 mt a prora e 1,40 mt a poppa
    Dislocamento: 239 tonnellate
    Volume della stiva: circa 115,3 metri cubi (Dim. 19,50 x 2,90 x 2,75 mt)
    Motori: 3 diesel della OM di Milano (versione su licenza dei Saurer BXD), 450 hp complessivi
    Velocità: 11 nodi max., auton. 1450 miglia a 8 nodi
    Armamento: un cannone da 76/40 antiaereo, una mitragliera da 20 mm. Scotti – I.F. o Oerlikon su affusti a libero puntamento.
    Equipaggio: formato da un comandante, normalmente un aspirante guardiamarina e da 12 tra sottufficiali e marinai.

    Particolare Costruttivo
    La Motozattera 755 appartiene a una prima serie di 65 unità, classificate di “uso locale” e contraddistinte dalla sigla “M.Z.” (motozattere) e da un numero progressivo da 701 a 765. La Regia Marina ne ordinò la realizzazione ai diversi cantieri italiani, con delle modifiche che hanno interessato l’apparato motore, e in alcuni casi la struttura di prua, classificandole di “uso locale”.

    La storia
    Lo sgombero dalle spiagge messinesi a quelle antistanti della Calabria, si presentava come un’operazione ad alto rischio visto che gli Alleati, ancorché restii ad avventurarsi nelle acque dello stretto coi loro mezzi navali, godevano d’una quasi incontrastata superiorità aerea in quello, come negli altri settori. Anche questo era un motivo per impiegarvi le motozattere, costituenti per i velivoli attaccanti un bersaglio ridotto. In luglio, la forza di MARIZAT sfiorava le cinquanta unità, ma tolte quelle ai lavori, ne rimanevano disponibili solo una ventina; tutte si portarono a Messina per partecipare a questa novella Dunkerque che, invero, fu per l’Asse un mezzo successo, visto che si riuscì a traghettare in Calabria 102.000 uomini, 9.800 autoveicoli, 140 cannoni, una cinquantina di carri armati e 18.000 tonnellate di materiali. Quando le forze dell’asse evacuarono la Sicilia furono le superstiti motozattere, circa 50 unità, che trasferirono in Calabria circa 62.000 uomini del contingente italiano. A testimonianza di quest’attività, svolta sotto continui attacchi nemici, rimasero sulle rive dello stretto di Messina gli scafi di 13 unità sventrati dalle bombe nemiche o vittime di un incaglio irreparabile. La MZ 755, in quell’occasione fu gravemente danneggiata da bomba di aereo a Capo dell’Armi la notte del 14 agosto 1943 durante lo sgombero di Messina (era una di due MZ di rimpiazzo provenienti da Taranto per sostituire altrettante unità appena perdute nello sgombero), fu portata ad incagliare e semiaffondata, quindi abbandonata.
    In precedenza aveva partecipato all’evacuazione di Tobruk e della Cirenaica (novembre 1942), poi a quella di Tripoli (gennaio 1943 andando a Trapani). A inizio giugno 1943 era ai lavori alla Navalmeccanica di Castellammare di Stabia.

    N.d. R.
    Si ringraziano:
    Filippo Mallamaci (autore)
    Carmelo Romeo (grafico)
    Arcudi Alberto, Costa Gerlando, Gaglioti Giuseppe, Mallamaci Filippo, Romeo Carmelo, Oueslati Riad (sommozzatori)
    Le foto sono state scattate:
    Punto GPS: 37°57’03’’N  15°41’18’’E
    Profondità: 10/12 metri
    Fabrizio Pirrello (per la gentile segnalazione)
    http://www.gravityzero.it
    http://www.cochran.it
    http://www.cedifop.it
    http://www.mutastagna.com
    http://fabrizio-pirrello.blogspot.com/

    Motozattera 756 – Eventi rilevanti nell Golfo di GioJa
    segnalato da Giuseppe Magazzù

    Il quarto episodio avvenne il 6 agosto del 1943 in cui ci furono diversi feriti, quattro dei quali ricoverati presso l’Ospedale civile di Taurianova, protagonista la Motozattera 756 proveniente da Messina e diretta a Gioia Tauro(1) per imbarcare munizioni ed altro materiale bellico. Quel mattino l’unità, dopo aver navigato sotto costa per sfuggire all’avvistamento aereo nemico, dette fondo all’ancora nello specchio di mare antistante la spiaggia di Gioia Tauro. Di lì a poco fu attaccata da una squadriglia di caccia-bombardieri alleati, intensamente impegnati quell’anno in bombardamenti a tappeto su tutta l’Italia meridionale. Fatta oggetto ripetutamente di mitragliamento e lancio di bombe, due di queste esplosero sotto la carena provocando uno squarcio sul lato destro. Dalla Santa Barbara (il deposito munizioni – nda) cominciò ad uscire del fumo e il Comandante per evitare il rischio che un’esplosione avrebbe potuto compromettere la vita dei marinai, diede l’ordine di abbandonare la motozattera. Egli infine, con l’intento di salvarla e poterla poi recuperare, la diresse verso l’arenile. Nel frattempo si era allagata anche la stiva e così rimase semi-affondata nei pressi della foce del fiume Budello, che scorre a Nord dell’abitato. Dopo vari e vani tentativi di rimetterla in efficienza fu lì abbandonata(2) .
    L’equipaggio della Mz 756 s’impegnò per difendere l’unità con le armi di bordo e riuscì ad abbattere un aereo. Nel suo rapporto il Comandante dell’unità mise ben in evidenza che:
    Durante l’attacco aereo nemico alla Mz 756, tutto indistintamente l’equipaggio ha dimostrato di possedere molto coraggio, contribuendo alla difesa, all’offesa ed al tentativo di salvataggio della M/.”.

    Note
    1 Tullio Marcon, I MULI DEL MARE, Albertelli Edizioni Speciali srl, Parma 1998 – 3a edizione, Collana “STORIA Militare”. Le MOTOZZATTERE erano adibite al trasporto di truppe e materiali. In quel periodo svolsero un’intensa attività di collegamento tra la Sicilia (in parte già occupata dagli anglo-americani) e la Calabria per il trasporto di materiale e truppe.

    2 Dal racconto fattomi da PIETRO DELFINO, classe 1920, residente a Catona, Consigliere del Gruppo A.N.M.I. di Reggio Calabria, imbarcato sulla Mz 756 da Sottocapo Motorista: “… invano si è tentato di ripristinare la funzionalità di galleggiamento, ma fallirono però tutti i tentativi messi in atto e abbandonai la Motozattera con gli altri marinai dell’equipaggio. Raggiunta la riva, costeggiammo la sponda sinistra del fiume Budello fino all’altezza della strada statale 18, ci recammo al comando di fanteria italiana lì acquartierata. Qualche giorno dopo, non potendo più fare ritorno a Messina nel frattempo assediata dagli anglo-americani sbarcati da qualche mese in Sicilia, fummo trasportati da mezzi dell’Esercito, a Vico Equense sede del Comando della Flottiglia Motozattere”. La Mz 756 venne recuperata durante i lavori d’escavazione del porto canale di Gioia Tauro. A bordo c’era ancora del munizionamento inesploso. Rimosso, fu fatto brillare dagli artificieri appositamente intervenuti.


    Le motozattere della Regia Marina a Castellammare di Stabia
    di Antonio Cimmino

    …dopo l’8 settembre 1943.

    Nel maggio 1943 il Comando Motozattere MARI.ZAT di Palermo fu trasferito a Vico Equense dove fu anche trasferito il Comando Marina di Castellammare di Stabia per motivi di sicurezza a seguito di un bombardamento del cantiere, avvenuto l’11 agosto ad opera degli incrociatori inglesi HMS Auror e Penelope, posizionati del Golfo di Salerno, con tiri a parabola.
    Le motozattere MZ 801, 802, 803 E 804 furono impostate e non completate.
    La MZ 752, dislocata a Vico Equenpse fu affondata in combattimento contro una autoblinda tedesca che faceva fuoco da terra.
    La MZ 704 riuscì a fuggire da Castellammare di Stabia ma fu affondata a Tor Vaianica.
    Le motozattere, dette anche “muli del mare”, furono progettate per partecipare alla Operazione C3 (invasione di Malta).
    Annullata tale operazione vennero impiegate per il trasporto rifornimento tra l’Italia e la Libia e tra le guarnigione italo.tedesche dell’Africa Settentrionale.

    Erano imbarcazioni a fondo piatto per sbarcare direttamente sulla spiaggia da un portellone 3 carri armati M13/14A e 100 soldati.
    Possedevano una stazza di 240 tonnellate, una lunghezza di 47 metri e larghe 6,5 metri.
    Dotati di 3 motori da 150 Hp 3 eliche, velocità 10 nodi (1.400 miglia di autonomia).
    L’armamento era composto da 1 cannone da 76/40 mm. e 1 mitragliera a.a. da 20 mm.
    Quasi inaffondabili con 34 compartimenti stagno.
    L’equipaggio era composto da 13 uomini (1 guardiamarina e 12 tra sottufficiali e marinai.

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    Camillo Milesi Ferretti (17.7.1908 –  3.1.1948)

    a cura Paolo Gulminelli

    (17.7.1908 –  3.1.1948)

    …riceviamo e pubblichiamo.

    e’ intendimento ricordare il Comandante Camillo Milesi Ferretti.
    Grazie alla disponibilità della famiglia, avremo l’onore di recitare qualche preghiera e osservare un minuto di raccoglimento in ricordo del Comandante del regio sommergibileBerillo.

    IL GIALLO DELLA MORTE DI CAMILLO MILESI FERRETTI LO INIZIANO A SCRIVERE GLI STESSI FAMILIARI

    Perché un uomo coraggioso che per ben cinque volte cerca di scappare dal campo di prigionia si sarebbe sparato al suo rientro in Italia a guerra finita? Si è suicidato o è morto di malattia come comunicano i “nobili” famigliari nel manifesto funebre che ne annuncia la scomparsa? E ancora: è morto di malattia o è stato….suicidato (leggi ucciso)? Insomma perché è ancora irrisolto il giallo della morte di un uomo coraggioso che dall’India, ai piedi dell’Himalaya, riesce a fuggire per cercare di tornare a combattere magari comandando un altro sommergibile? Che senso ha sostenere che un sommergibilista – avvezzo ai pericoli e che nella sua ultima missione ne ha scampati parecchi – si toglie la vita senza lasciare una lettera d’addio alla famiglia per spiegarne i motivi? E perché la nobile famiglia anziché onorarne la memoria e il suo eroismo non vuol sentir parlare di quel marinaio quasi fosse stato un delinquente?  Questi interrogativi pesano come macigni sulle coscienze di tanta gente ma il giallo prima o poi verrà risolto!
    Il conte Camillo Milesi Ferretti, anconetano come il suo compagno di fuga Elios Toschi (poi separatosi da lui), era stato catturato all’inizio della guerra nel 1940. In lui giorno dopo giorno, benché racchiuso tra i reticolati, lo spirito di libertà non è venuto mai meno, una libertà – oserei dire – condizionata. L’eroe non si piega innanzi al periglio o ai nemici. Anzi davanti alle difficoltà si esalta e trae linfa vitale per mostrare la sua pasta d’uomo. Dunque Milesi scappa e la sua odissea che ho narrato nel mio libro e che il comandante Paolo Gulminelli ha riproposto nella ristampa del libro-memoriale di Milesi, scomparso ancor prima di poter vedere la pubblicazione, la sua odissea – dicevo – è simmetrica al suo coraggio e il modo di onorare la divisa che portava. Non sta a me dare la soluzione al giallo della morte di Milesi. Ho provato a chiedere lumi, notizie, particolari a tutti i membri della famiglia. Ma nessuno, sottolineo nessuno, ha voluto onorare la memoria dell’eroico congiunto gridando al mondo intero ciò faceva finta di non sapere. Avessi avuto io un famigliare sì eroico e prode lo avrei segnalato alle nuove generazioni, sarei andato nelle scuole a raccontare come fu catturato. Il suo sommergibile Berillo colpito a morte stava per essere preso da una nave inglese. L’impavido comandante Camillo fece abbandonare il battello e per non farlo finire in mani nemiche lo autoaffondò….Ecco, direi agli alunni, come si comporta un vero leader. un vero comandante: mise in salvo prima i suoi marinai e poi pensò a se stesso! Dunque una cortina fumogena è stata distesa subito dopo la morte del Capitano. Che dire? Vorrei provare sciogliere i nodi di questo giallo. Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. La morte per malore (come recita il manifesto funebre) è solo un indizio, la morte per colpo di pistola può essere solo una coincidenza, la morte nel primo e secondo caso coincide anche con la morte del terzo caso e cioè che il colpo di pistola non è stato sparato da Milesi Ferretti ma da qualcun altro. Da chi?

    L’unico anconetano e l’unico ufficiale della Marina dell’epoca che si comportò da vero uomo perché era della stessa pasta di MILESI è stato ELIOS TOSCHI che con TESEO TESEI inventò il Siluro a lenta Corsa (SLC), più noto come Maiale. Toschi e Milesi ebbero vita parallela, entrambi anconetani, entrambi marinai, entrambi catturati in missioni ovviamente diverse pochi mesi dopo la guerra, entrambi si ritrovano nel campo di prigionia di Geneifa (Alessandria d’Egitto). Ambedue impavidi nel tentare assieme per 5 volte la fuga anche quando arrivarono in India e a Yol, entrambi per vie diverse tornarono in Italia a guerra finita dopo la fuga. Milesi raggiunto il Portogallo, dopo mille peripezie e stratagemmi degne del miglior Ulisse omerico, venne prelevato con un’auto diplomatica dal fratello ambasciatore in Spagna da dove poi rientrò in Italia. Ma non era più l’Italia monarchica che aveva lasciato, non era più l’Italia mussoliniana ma un paese repubblicano e senza il Re. Fa parte ovviamente degli eventi questo cambiamento ma ciò che lo stordì – quasi fosse stata una bomba di profondità esplosa vicino al suo sommergibile – fu certamente il fatto di NON aver trovato più quella MARINA in cui aveva fortemente creduto. Dovette aver appreso con un senso di nausea la serie di avvenimenti e di alti tradimenti avvenuti al vertice da parte di alcuni ammiragli da poltrona che già allo scoppio del conflitto erano “pappa e ciccia” con quegli inglesi che poi sarebbero divenuti alleati, gli stessi inglesi che catturarono lui e Toschi e migliaia di bravi ragazzi o li mandarono a morte certa. Gli stessi ammiraglioni che furono poi premiati dagli angloamericani per la loro collaborazione e fedeltà canina. Il sommergibilista potrebbe perciò aver chiesto alle alte sfere spiegazioni di quei vili comportamenti. Potrebbe aver pestato i piedi a qualcuno…..Fatto sta che venne trovato con un proiettile in faccia. I famigliari parlarono di morte per malore. Poi si parlò di suicidio… Infine di malattia….Nessuno della nobile famiglia Milesi Ferretti ai quali personalmente ho inviato o consegnato brevi manu copia del mio “Catturati in Africa, internati in India” ha voluto chiaramente esternare ciò che realmente accadde. Anzi qualcuno non si è degnato neppure di ringraziarmi per il libro che gli ho fatto pervenire! E sì che ne ho contattato almeno una decina ma inutilmente. E mi par strano che un ambasciatore quale è stato il fratello di Camillo Milesi Ferretti non abbia voluto almeno scrivere due righe sull’eroico fratello, come pure le nipoti. E c’è financo un parente che ha scritto un libro (I diari della bicicletta: Storie di salotto e di trincea) ma pur avendo materiale per scrivere sul suo congiunto non l’ha fatto! E mi fermo qui perché anche altri nobili parenti non hanno speso una parola per onorare Camillo. Come assordante è stato e lo è tuttora il silenzio dei compagni di Corso di Accademia del valoroso sommergibilista anconetano che si tenta di tramandarlo nell’oblio!…Noi non lo permetteremo!

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    Mario Milano (Termoli, 17.7.1907 – Mare, 9.11.1941)

    
di Gennaro Ciccaglione
  e Vincenzo Campese (*)


    Banca della memoria - www.lavocedelmarinaio.com(Termoli, 17.7.1907 – Mare, 9.11.1941)

    Medaglia d’Oro al Valor Militare Capitano di Corvetta Mario Milano

    Il Capitano di Corvetta Mario Milano nasce  a Termoli il 17 luglio 1907. Allievo dell’Accademia Navale di Livorno dall’ottobre 1923, nel giugno 1928 conseguì la nomina a Guardiamarina stando imbarcato sull’incrociatore Bari. Promosso Sottotenente di Vascello nel 1929, imbarcò poi sui cacciatorpediniere Calatafimi e Monzambano e dal novembre 1930 al luglio del 1931 frequento il Corso Superiore all’Accademia Navale. Promosso Tenente di Vascello nel 1933, nel 1938 imbarcò su unità subacquea. Promosso Capitano di Corvetta nel 1940, allo scoppio del 2° conflitto mondiale ebbe il comando del cacciatorpediniere Granatiere, con il quale compi numerose missioni di scorta ai convogli. Nell’ottobre 1940 ebbe il comando del cacciatorpediniere Fulmine con il quale il 9 novembre 1941 scortò un convoglio diretto in Libia. Durante la navigazione il Fulmine, improvvisamente attaccato da una più consistente formazione navale inglese, affronto arditamente l’avversario, ma centrato da grossi calibri ed irrimediabilmente colpito nelle sue parti vitali, affondo. Il comandante Mario Milano, ferito sin dall’inizio del combattimento, continuo la sua opera e, benché rimasto nuovamente ferito, e in modo grave, proseguì la lotta e quando ormai l’unità al suo comando iniziò ad affondare, ebbe la forza di prodigarsi per porre in salvo l’equipaggio, scomparendo poi negli abissi con la nave.

    Corso Mario Milano - www.lavocedelmarinaio.com

    L’episodio si svolse di fronte a Capo Spartivento di Calabria e l’unità era impegnata nella scorta del famoso convoglio Duisburg ma fu colta di sorpresa dalla famigerata “Forza K” dotata di radar e praticamente annientata.

    Mario Milano
    di Vincenzo Campese

    Banca della memoria - www.lavocedelmarinaio.com(Termoli, 17.7.1907 – Mare, 9.11.1941)

    Nasce a Termoli (CB) 17 luglio 1907, da padre Carlo magistrato, Pretore a Termoli dal 1904 al 1908, e madre Clelia Di Iorio.
    Primo di 4 figli ben presto manifesto interesse e passione verso il mare, frequentò l’Istituto Nautico di Ancona ed a solo 16 anni entrò alla Accademia Navale di Livorno, nel corso per Ufficiali di Vascello distinguendosi per attitudine e volontà di raggiungere il suo obiettivo nel percorso scelto.
    Nel 1928, a soli 21 anni è nominato Guardiamarina nello Stato Maggiore della Marina ed inizia la sua carriera a bordo dell’Incrociatore “Bari”, dei cacciatorpediniere “Calatafimi” e “Monzambano”, sulla nave Reale “Savoia”.
    Nel Novembre del 1930 e fino a luglio del 1931 frequentò il Corso Superiore all’Accademia Navale e nel 1933 fu promosso Tenente di Vascello.
    Nel Settembre del 1936 fu prescelto tra tutti gli Ufficiali della Marina Militare a frequentare l’Istituto Superiore di Guerra a Torino ottenendo lusinghieri risultati.
    Riprese i suoi imbarchi sulle navi “Pleiadi”, “Orsini”, “Cassiopea”, “Mameli” e nel 1938 sul sommergibile “H4”, raggiungendo ben presto 97 mesi di imbarco.
    Nel 1940, promosso Capitano di Corvetta e, dopo l’inizio della II guerra, al comando del CT “Granatiere”, partecipa  ad alcune battaglie, tra cui Punta Stilo, Capo Teulada e Capo Matapan.
    Il 5 ottobre 1941 assunse il Comando del CT “Fulmine” e dopo qualche giorno assegnato di scorta ad un importante convoglio diretto a Tripoli, il convoglio di Duisburg.
    Il convoglio salpò dal porto di Napoli il 7 novembre 1941ed attraversato lo Stretto di Messina fece rotta verso levante sia per sfuggire al raggio di azione degli aerosilurati inglesi. Fatalmente un aereo da ricognizione nemico scoprì la formazione e ne diede notizia alla famosa formazione nemica “K” di stanza a Malta. La formazione “K” uscì in mare poco dopo la mezzanotte del 9 novembre ed intercettato il convoglio apri il fuoco con tutti i cannoni e con i loro tubi di lancio siluri.
    Nonostante il martellamento nemico ed i pesanti danni subiti, il CT “Fulmine” comandato da Mario Milano, conscio della impossibilità di vittoria, lancio il cacciatorpediniere contro la formazione nemica facendo fuoco con tutte le armi disponibili.
    La forza “K” concentro i suoi lanci e cannoni sul “Fulmine” che così arditamente la sfidava, il Comandante Milano, anche se ferito gravemente, resta al suo posto in plancia, la nave irrimediabilmente colpita dal fuoco nemico, arresta la sua gloriosa marcia contro il soverchiante nemico.
    Il Comandante Milano pensa a dare le opportune disposizioni per il salvataggio del suo equipaggio e resta solo sulla sua nave deciso fermamente ad affondare con essa.
    Il magnifico generoso esempio offerto dal Comandante Milano riempie di orgoglio la Marina Militare com manifestazioni di ammirazione per il suo eroico gesto.
    La Patria ha premiato il suo gesto con la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:

    Comandante di C.T., di scorta a convoglio, fatto segno a violento attacco di preponderanti forze navali nemiche e irrimediabilmente colpito fin dall’inizio della battaglia, affrontava con saldo cuore e decisa volontà il combattimento e, benché rimasto ferito in modo grave dalle prime salve, che smantellavano le sistemazioni della plancia, proseguiva audacemente la lotta, rinnovando nei suoi uomini, con la parola animatrice ed il suggestivo esempio, indomito coraggio e ardore combattivo.
    Mentre l’Unità, sempre più colpita dalla furiosa e soverchiante azione di fuoco nemica lentamente si inabissava, egli restava intrepido e sereno e, vincendo con stoicismo il dolore delle ferite, si preoccupava di salvare il suo equipaggio.
    Restava sulla nave fino all’ultimo istante.
    Stremato nel fisico, piegato dalle ferite, ma più forte che mai nello spirito corroborato dall’avversa fortuna e dal sacrificio, scompariva in mare lasciando un retaggio luminoso di ardimento e fede. Esempio di nobili virtù militari e guerriere, di assoluta dedizione al dovere eroicamente compito e alla Patria.

    A Mario Milano è stata intitolata la sezione dell’associazione nazionale marinai d’Italia di Termoli (A.N.M.I. Termoli)

    (*) per conoscere i loro articoli digita sul motore di ricerca del blog i loro rispettivi nome e cognome.

  • C'era una volta un arsenale che costruiva navi,  Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Recensioni,  Storia

    17.7.1906, varo della regia nave Olimpia

    di Carlo Di Nitto

    …c’era una volta un arsenale che costruiva navi, e adesso?

    Questa unità, classe “Orione”, dislocava 221 tonnellate. Impostata nel 1905 presso i Cantieri Odero di Sestri, fu varata il 17/7/1906 ed entrò in servizio l’11/04/1907. Venne radiata nel 1920. Nella sua breve ma intensa attività, si distinse per aver preso parte ai soccorsi dopo il disastroso terremoto di Messina del 1908 e per aver partecipato, nell’ottobre 1910, ai soccorsi per il rovinoso nubifragio sulla costa napoletana.

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    17.7.1912, varo del regio rimorchiatore Titano

    a cura Carlo Di Nitto

    … c’era una volta un arsenale che costruiva navi, e adesso?

    Questa unità dislocava 971 tonnellate. Fu varato il 17.7.1912 nei Cantieri Ansaldo & Co. di Sestri Ponente, entrò in servizio il 21 luglio successivo.
    Fu trasformato nel 1931 in nave appoggio sommergibili ed appoggio palombari da grande profondità.
    Intorno al 10.9.1943 venne catturato dai tedeschi a Gaeta, dove si trovava per lavori. Utilizzato sotto bandiera germanica, risultava in piena efficienza a La Spezia nell’aprile 1944.
    Successivamente non se ne sono avute più notizie e non si sa dove sia andato definitivamente perduto.

    Regie navi Titano e Ciclope autentiche antesignane dell’Innominabile dei primi anni ‘50

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    17.7.1941, viene bombardata la regia nave Cigno (3^)

    di Carlo Di Nitto

    La regia torpediniera “Cigno” (3^), classe “Spica”, serie “Climene” dislocava 1010 tonnellate a pieno carico. Era stata impostata l’11 marzo 1936 presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona. Varata il 24 novembre 1936, entrò in servizio nella Regia Marina il 15 marzo 1937.
    Dopo un breve periodo di addestramento in Alto Adriatico, fu assegnata all’11^ Squadriglia facente base in Sicilia. Qui svolse notevole attività addestrativa effettuando anche crociere di repressione del contrabbando di guerra diretto in Spagna.
    Allo scoppio del 2° conflitto mondiale venne assegnata al Comando della Marina in Libia ed iniziò una intensa attività effettuando numerose missioni di scorta tra l’Africa Settentrionale e la Sicilia. Venne anche impiegata in pattugliamenti notturni, ricerca di sommergibili avversari e anche trasporto di truppe e materiali quando lo sfavorevole andamento delle operazioni belliche in Nord Africa lo impose.
    Complessivamente effettuò 153 missioni di guerra, scontrandosi più volte con unità ed aerei nemici. In particolare il 17 luglio 1941, stando in porto a Bengasi, durante un bombardamento ebbe 24 morti fra i suoi Marinai. In altre occasioni la sua reazione conseguì, in varie riprese, l’abbattimento di ben otto aerei avversari. Anche le sue azioni anti sommergibile furono oltremodo efficaci. Particolarmente importante fu l’opera di salvataggio dei naufraghi degli incrociatori “Da Barbiano” e “Di Giussano” che erano stati affondati la notte del 13 dicembre 1941 presso le coste tunisine. In quel contesto la “Cigno” recuperò ben 550 uomini, in gran parte feriti e ustionati.

    Il 16 aprile 1943, verso le ore 01.00, l’unità, insieme alla gemella “Cassiopea”, era partita da Trapani per scorta avanzata ad un convoglio diretto a Tunisi. Verso le ore 02.40, le due nostre torpediniere avvistarono due cacciatorpediniere inglesi. Si sviluppò immediatamente un vivace scontro durante il quale la “Cigno” centrò una delle due unità avversarie. Purtroppo alle ore 03.00 venne colpita in caldaia e poco dopo un siluro la fece affondare spezzata in due, mentre continuava a sparare. Poco dopo  le unità nemiche si disimpegnarono e dopo quattro ore uno dei due CC.TT. affondò per i danni subiti ad opera della nostra unità. La “Cassiopea”, anche se duramente danneggiata, riuscì invece a rientrare in acque nazionali.
    Nell’affondamento della torpediniera “Cigno”, soltanto 47 componenti dell’equipaggio sopravvissero.  Altri 103 persero la vita.
    ONORE AI CADUTI!

    La regia torpediniera Cigno e la mascotte Leda
    di Orazio Ferrara (*)

    La regia nave Cigno(**), torpediniera della classe Spica tipo Climene, si distinse particolarmente nel secondo conflitto mondiale per la sua combattività, partecipando come unità di scorta ai nostri convogli di rifornimento per la Libia prima e per la Tunisia dopo.
    La Cigno, costruita dai Cantieri Navali di Ancona ed entrata in servizio il 15 marzo 1937, aveva un dislocamento di 1.010 tonnellate a pieno carico e poteva raggiungere la velocità di 34 nodi orari. L’armamento era costituito da 3 cannoni da 100/47 OTO Mod. 1931, da 4 impianti binati di mitragliere da 13,2 mm Breda Mod. 31, da 4 tubi lanciasiluri da 450 mm, da 2 lanciabombe di profondità e da attrezzature per il trasporto e la posa di 20 mine. Nel corso dell’anno 1941 le mitragliere da 13,2 mm, ormai sorpassate, vennero sostituite dalle ben più efficaci mitragliere  da 20/65 mm, inoltre si aggiunsero altri 2 lanciabombe di profondità.
    Nella sua scorta ai convogli per l’Africa Settentrionale la Cigno salpava solitamente dal porto di Trapani e, o all’andata o al ritorno, spesso faceva una breve sosta gettando l’ancora nella rada antistante il porto di Pantelleria. Una lancia della torpediniera andava quindi a riva, subito dopo, mentre il guardiamarina si recava in Capitaneria per eventuali urgenti comunicazioni, i marinai davano vita ad una sorta di primitivo baratto con gli isolani. Il tutto in una manciata di ore.
    Quelli della Cigno offrivano prodotti particolarmente ricercati in quel tempo di guerra quali caffè, zucchero, sigarette, ma anche scatolette di carne e confezioni di gallette, in cambio i panteschi davano vino, moscato, passito, uva passola, dolci tipici del posto, pollame e conigli. Lo scambio era sì particolarmente vivace e contrastato, ma per la verità non ci furono mai litigi di sorta e alla fine ambedue le parti risultarono sempre contente e soddisfatte.

    Si stabilì così un’intensa e immediata corrente di simpatia tra i panteschi e i marinai della Cigno, tanto che quando quest’ultima fu affondata nel ’43 con la perdita di gran parte dell’equipaggio, nell’isola vi fu profonda commozione e costernazione come se la comunità avesse perduto dei suoi figli. Pantelleria non dimenticò mai quei prodi, tant’è che 75 anni dopo, con deliberazione della Giunta Municipale n° 41 del 15 marzo 2018 uno slargo alla via  Palazzetto Errera venne intitolato “Slargo Caduti Torpediniera Cigno”. Il gesto del pietoso ricordo fa onore a quegli amministratori e alla cittadinanza tutta.
    Ma torniamo alla nostra storia. Nella primavera del 1941, nelle ore pomeridiane, gettò l’ancora nella rada di Pantelleria la torpediniera Cigno. Ben presto fu calata la lancia, dove presero posto un guardiamarina e quattro marinai con altrettanti grossi pacchi per il consueto baratto. La banchina fu presto raggiunta con la solita voga accelerata e, mentre il guardiamarina si recava in Capitaneria, i marinai iniziarono con gli isolani lo scambio delle merci. Dopo qualche ore la lancia ritornò alla nave e fu issata a bordo. Come sempre si radunò gran parte dell’equipaggio per vedere e commentare il frutto del baratto appena concluso, ma nel mentre si apriva la grossa cesta del pollame e dei conigli saltò fuori scodinzolando un piccolo bastardino di cane. Era di colore bianco pezzato di nero.
    Il cucciolo, anzi la cucciola come sentenziò dopo una rapida occhiata l’infermiere di bordo, cominciò subito a far festa  ai marinai presenti, che la osservavano piacevolmente sorpresi. La decisione fu subitanea e unanime, dal quel momento quella cagnetta sarebbe stata la mascotte della Cigno. Del fatto fu immediatamente informato il comandante, il capitano di corvetta Nicola Riccardi, che si dichiarò pienamente d’accordo. Anche per il nome non si perse tempo, si sarebbe chiamata Leda. E non poteva essere altrimenti, Leda e Cigno, un amore millenario che si perdeva nella notte dei tempi della mitologia.
    Intanto il conflitto continuava e la torpediniera Cigno era continuamente impegnata in missioni belliche. Tutti i marinai erano all’occasione compagni di gioco della cagnetta-mascotte che li riconosceva uno per uno. Rimpinguata di cibo dagli stessi, essa crebbe a vista, restando però alla fine una cagnetta di piccole dimensioni. La sua cuccia  fu costruita a ridosso del cannone di poppa, mentre l’armaiolo Cuccurullo le fece un collare con la piastrina di riconoscimento, su cui era inciso  al davanti “Leda R.M. Italiana” e al retro la data d’imbarco. Non si menzionò il nome della nave in quanto, come da precise e rigorose disposizioni, in caso di naufragio quel nome non si rendesse così noto al nemico. E proprio per un eventuale e malaugurato naufragio il cannoniere Impalomeni  fece per Leda un apposito giubbotto di salvataggio con del sughero ricoperto di vivace stoffa rossa da scorgersi anche tra le onde.
    Da quella primavera del 1941 la torpediniera Cigno partecipò a numerosissime missioni di guerra, molte delle quali assai pericolose e spesso in diretto combattimento col nemico. E sempre ne uscì in qualche modo indenne o con danni non gravi. I suoi marinai la ritenevano una nave fortunata e ne davano il merito alla sua mascotte, la piccola e discola cagnetta Leda. Si sa che nell’angolo più riposto del cuore di ogni marinaio alberga da sempre una forma larvata di superstizione (non ci credo, ma però…).
    Quella cagnetta, col suo andare velocemente da poppa a prua scodinzolando, rasserenava e rincuorava i marinai anche nelle ore più cupe e disperate, come nelle tragica notte di Santa Lucia del dicembre ’41 quando furono affondati i nostri due incrociatori leggeri Alberico da Barbiano e Alberto di Giussano. La Cigno, facente parte di quella squadra, dopo uno scontro a fuoco con la nave nemica Isaac Sweers raccolse oltre 500 naufraghi, riportandoli in salvo a Trapani.
    Nell’andirivieni delle missioni della Cigno in Mediterraneo, Leda ebbe modo di conoscere tutti i porti e le loro banchine, da Napoli a Trapani, da Tobruk a Tripoli, da Tunisi, a Biserta. Il copione era sempre lo stesso, scendeva a terra e andava a gironzolare nei dintorni e a cercare bambini con cui giocare, immancabilmente dopo qualche ora di libertà tornava a bordo, non poche volte accompagnata da un cagnetto innamorato, che quasi sempre si fermava al limite della passarella. Però c’era il solito bastardino temerario che voleva salire anch’esso, a questo punto il marinaio di guardia aveva un bel po’da fare per fermare l’intruso.
    Un giorno dell’inverno di guerra ‘42/’43 la torpediniera Cigno gettò l’ancora nella rada di Pantelleria. Come al solito Leda prese posto nella lancia e andò a riva con i marinai. Si allontanò quindi per il suo consueto giretto. Generalmente i marinai la ritrovavano poi al ritorno sul molo presso la lancia. Ma quel giorno la cagnetta non c’era ad aspettarli. Frenetiche ricerche, chiamandola ripetutamente per nome. Ma niente, Leda sembrava scomparsa nel nulla. Si aspettò alquanto tempo, ma invano. La guerra non permetteva sentimentalismi di sorta, fu quindi giocoforza ritornare a bordo. Qui si dovette dar conto del triste accadimento agli altri membri dell’equipaggio, perché tutti si erano ormai affezionati a quella cagnetta.
    Al momento di togliere l’ancora e salpare la costernazione tra i marinai era generale. Qualcuno disse che in fondo era meglio così perché Leda era ritornata al luogo natio, ma qualcun altro espresse ad alta voce quello che pensavano tutti; perdendo la sua mascotte porta-fortuna anche la fortuna si sarebbe allontanata dalla Cigno. Si corse ai ripari, appendendo il rosso giubbotto di salvataggio presso  il cannone di poppa, dov’era la cuccia della cagnetta. Era il simulacro della mascotte scomparsa e forse poteva bastare ad allontanare i pericoli della guerra. Ma non bastò.

    E venne il giorno del tragico epilogo, dove mancò la fortuna, ma non il valore degli uomini della Leda.
    Era l’una di notte del 16 aprile 1943 quando dal porto di Trapani salpò alla volta di Tunisi la motonave Belluno, carica di materiale bellico strategico per le nostre truppe, che combattevano le loro ultime eroiche e disperate battaglie in terra d’Africa. Scortavano la nave la torpediniera Cigno e la gemella  Cassiopea. Due ore dopo, per aggregarsi sempre alla scorta della Belluno, partivano da Palermo anche le torpediniere Climene e Tifone.
    Alle ore 02.38, a sud dell’isola di Marettimo, il convoglio di rifornimento, non ancora raggiunto dalle torpediniere salpate da Palermo, incappò, per sua malasorte, nei due caccia britannici HMS Paladin e HMS Pakenham, partiti poche ore prima da Malta. Lo scontro era impari e l’esito scontato a favore degli inglesi, perché le due torpediniere per dimensioni e potenza di fuoco nulla potevano contro i due caccia avversari.
    Malgrado ciò la Cigno, aprendo il fuoco, serrò coraggiosamente sotto al Pakenham, così anche la Cassiopea nei confronti del Paladin. Queste manovre suicide degli italiani erano state fatte per far allontanare, in sicurezza, dalla zona di combattimento la Belluno con il suo prezioso carico. Infatti la motonave riuscì a proseguire senza danni verso Tunisi.
    Intanto lo scontro divenne ben presto più duro e accanito. La Cigno colpì ripetutamente con le sue salve il Pakenham, uccidendo 10 uomini del suo equipaggio. Particolarmente accurato e preciso il tiro delle mitragliere del complesso di prora, diretto in coperta dal guardiamarina Armando Montani da Bologna di anni 23, già decorato di croce di guerra per un precedente atto di coraggio nel 1942.
    Purtroppo un colpo del Pakenham colpì la sala macchine della Cigno, immobilizzandola e quindi rendendola un bersaglio immobile sotto i devastanti e ripetuti colpi dei cannoni del caccia nemico. In breve la torpediniera divenne un relitto galleggiante, che un successivo siluro spezzò letteralmente in due tronconi, i quali s’inabissarono rapidamente trascinando con loro, negli abissi marini, decine e decine di marinai.
    Anche lo scontro tra la Cassiopea e il Paladin stava volgendo al termine. Il caccia inglese aveva sì subito dei seri danni, ma il fuoco dei suoi cannoni sovrastava ormai quello di minore potenza della torpediniera italiana, peraltro già gravemente danneggiata. Sembrava ripetersi il triste copione della Cigno, quando improvvisamente il Paladin abbandonò il combattimento e si diresse velocemente verso il Pakenham in evidente difficoltà. Poco dopo le due unità della Royal Navy abbandonarono la zona.
    Nell’affondamento della torpediniera Cigno persero la vita 103 membri dell’equipaggio, se ne salvarono soltanto 43. Tra i caduti il prode guardiamarina Armando Montani. Si raccontò poi, da parte dei superstiti, che il Montani avesse continuato a far sparare le mitragliere fino a quando le onde lambirono la coperta, quindi, lanciatosi in acqua, si era messo in salvo su una zattera di fortuna. Ma vedendo due marinai dei suoi pezzi sul punto di affogare, non esitò a buttarsi nuovamente in mare e con sforzi inauditi a salvare ambedue, issandoli infine sulla zattera. Lo sforzo sovrumano però aveva schiantato il generoso cuore del guardiamarina, che così scomparve tra i gorghi del mare, ma prima ebbe la forza di gridare ai suoi marinai “Se vi prendono prigionieri non dite il nome della vostra nave”.
    Forse era stato proprio lui a non voler fare incidere il nome della nave sul collare della mascotte Leda.
    All’eroico guardiamarina veniva poi concessa la medaglia d’argento al valor militare (ma avrebbe meritato di certo quella d’oro). Bellissima la motivazione.
    A Montani Armando Guardiamarina, nato a Bologna il 29-1-1920. Alla memoria – Sul campo. “Ripetutamente chiedeva ed otteneva l’imbarco su naviglio silurante. Destinato alle mitragliere su una torpediniera più volte fatta segno, in numerose missioni di scorta a convogli a violenti attacchi aerei e subacquei,  contribuiva all’abbattimento di numerosi aerei e alla salvezza di molti convogli. In rapido e duro combattimento notturno contro preponderanti forze navali nemiche, apriva il fuoco delle mitragliere con prontezza e decisione. Colpita ed immobilizzata la propria unità restava al suo posto sino all’ultimo. Raggiunta faticosamente una zattera esauriva le proprie forze per salvare ripetutamente altri naufraghi, rivolgendo altresì nobili parole di incitamento ai superstiti ai quali raccomandava, qualora fossero catturati dal nemico, di non rivelare il nome della loro nave.
    Infine scompariva nei flutti, conscio di avere, col proprio sacrificio, contribuito alla salvezza del convoglio.
    Canale di Sicilia, 16 aprile 1943”.


    Ma anche per il cacciatorpediniere inglese Pakenham, colpito più volte dalla Cigno, andò malissimo. Il Paladin cercò di trainarlo verso un porto alleato, ma per il peggioramento delle sue condizioni di galleggiabilità l’Ammiragliato britannico ordinò di affondarlo. Scompariva così negli abissi del mare, a nord di Pantelleria, l’HMS Pakenham da 2.270 tonnellate. Era l’alba del 17 aprile 1943 ed era passata solo una manciata di ore dalla fine del Cigno.
    Oggigiorno fanno sorridere (?) alcuni siti inglesi che citano la perdita del Pakenham senza mai collegarla direttamente con la piccola torpediniera italiana Cigno.
    Qualche giorno dopo la battaglia del 16 aprile nelle acque di Pantelleria veniva ritrovato il corpo di un marinaio della Cigno con un giubbotto di salvataggio con scritto il nome di Athos D’Orazi. E con quest’ultimo nome vennero quindi sepolti quei miseri resti nel cimitero dell’isola. Soltanto anni dopo salterà fuori la verità. Il corpo sepolto era di un altro marinaio, sempre della Cigno, che rispondeva al nome di Rolando Bulletti, toscano, di anni 22, dichiarato “disperso”. A svelare il mistero era stato il fiorentino Athos D’Orazi non affatto morto, era stato lui, all’epoca dei fatti sergente sulla torpediniera affondata, a dare al suo compaesano quel giubbotto ritenendolo più sicuro. Successivamente i resti del Bulletti vennero traslati nel luogo natio e adesso riposano al cimitero di “La Querce” di Prato.
    E la cagnetta-mascotte Leda? Per quante ricerche effettuate non abbiamo trovato nulla. Eppure… un lumicino c’è nel buio assoluto. Sfogliando le nostre foto d’archivio su Pantelleria in guerra, abbiamo trovato una foto del giorno della resa dell’isola, che ritrae un gruppo di abitanti d’isola. Nella foto in questione si vede un ragazzo con un cagnetto in mano, che grosso modo rassomiglia, per dimensioni, colore e orecchie abbassate, a Leda in una foto scattata sulla Cigno a Tripoli, soltanto che quest’ultima  foto è assai grossolana nei dettagli per fare un raffronto più preciso e giungere a delle conclusioni.

    Noi comunque preferiamo immaginare che sia Leda, l’amata mascotte della Cigno, in ambedue le foto e che quindi la cagnetta sia uscita indenne dai terribili bombardamenti alleati e abbia continuato a giocare con i ragazzi di Pantelleria, la sua terra natia.