Curiosità

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    26.1.1883, consegna della regia nave Flavio Gioia

    di Antonio Cimmino

    La nave fu progettata dall’Ispettore Generale Carlo Vigna e costituiva una classe di due unità assieme alla gemella Amerigo Vespucci costruita nell’arsenale di Venezia.
    La cerimonia del varo e alcune caratteristiche tecniche dell’unità, furono descritte, con una prosa alquanto enfatica ma sicuramente esatta nei dettaglio, dal giornalista Nicola Lazzaro sull’Illustrazione Italiana n. 27 del 3 luglio 1881.

    “…Intanto il Flavio Gioia, quasi donzella che presso al matrimonio si vede allontanato il giorno deciso ed aspetta tranquilla, se ne restava al suo letto nel cantiere e sfidava lo imperversar della pioggia, come il saettare del fulminer. Ma il giorno di domenica 12 giugno si vide rivestire a festa, gli operai gli appiccicarono nei fianchi delle immagini di santi e madonne, altri lo copersero di fiori e l’imbandierarono tutto. Quale elegante mostra di sé dava la nave sulo suo scalo! Non era la colossale mole dell’Italia, ma qualche cosa di civettuolo e di simpatico. L’Italia era la imponente matrona romana, il Flavio Gioia la piccola donnina elegante di un salone. La folla corse a vederla scendere nel mare, come era accorsa per l’altra, e tutta Castellammare sembrava irriconoscibile. Vi si giumgeva da Napoli mercé gli avvisi della R.Marina, i piroscafi delle società commerciali, la ferrovia e le carrozze. Vi si arrivava dai paesi limitrofi per le ferrovie, sulla carrozze ed anche a piedi. Anzi quest’ultimo mezzo fu quello adoperato dalla generalità dei contadini, che prefittando della festa, lasciarono i villaggi e vennero in città.
    Alle undici monsignor Sarnelli, vescovo di Castellamare, intervenuto alla cerimonia, per tema avessero nuovamente a sospendergli le temporalità, seguito dal clero dà la benedizione religiosa alla fidanzata, cioè al Flavio Gioia; è uno msposalizio della signora nave con il signor mare. Buon numero di invitati sono già presenti. Alle 11 ½ arrivano altri molti e con essi tre grosse corazzate, il Duilio, l’Affondatore e d il Principe Amedeo. I cannoni delle tre matrone salutano la sposa. (…)

    Si tolgono gli ultimi puntelli, ed alle due e dieci minuti il capo operaio grida la formula sacramentale – In nome di Dio tagliate le gomene! Da un capo e dall’altro due nerboruti artigiani prendono affilate ascie. Un lampo, un colpo secco ed il Flavio Gioia resta in balia di sé stesso, sciolto da qualsiasi legame. Per qusi non ne sia certo e ad assicurarsene si dondola per un istante. Convintosi che niente, assolutamente niente, lo attacca alla terra, leggermente scivola sul suo letto e fra un grido massimo, immenso, di Viva l’Italia! che prorompe dagli spettatori, si tuffa nelle acque. La sposa si getta nelle braccia dello sposo, che amorevolmente l’accoglie, e gli invitati vanno via per non disturbare, con la loro presenza inopportuna, gli intimi colloqui. Il varo non poteva riuscire meglio ed ha mostrato ancora una volta come Castellammare sia un cantiere di primo ordine.
    (…) Prende posto… fra i legni di secondo ordine non corazzati, e tuttavia è destinato a rendere importanti servizi dei legni di primo ordine anche dei corazzati. Il suo nome tecnico è incrociatore, sua missione in tempo di guerra, di essere all’avanguardia della flotta, esplorare, dar la caccia ai legni mercantili del nemico. Necessita quindi che cammini celermente e sia potentemente armato. A ciò si è pensato fornendolo di una macchina a tre cilindri, che sviluppa una forza di 5000 cavalli ed imprime al legno una velocità media di 16 miglia all’ora. La macchina è stata costruita dalla rinomata casa inglese Penn (…)

    Il Flavio Gioia sarà armato con 8 cannoni ognuno di 15 centimetri, atti a forare le corazzate di secondo ordine, ed avrà inoltre due mitragliatrici sistema Northenfield e due stazioni, una per lato, per lancio dei siluri. Lo scafo di acciaio al pari delle pareti-stagne, e della struttura dei ponti. Tutta la lunghezza della nave è difesa da un ponte cellulare corazzato che si stende orizzontalmente, assicurando così dai proiettili nemici i locali sottostanti (…) Sul Flavio Gioia non c’è nulla che manchi o venga meno al progresso marittimo; timone a vapore, macchina per salpare le ancore, barcacce a vapore insommergibili, campanelli elettrici, luce elettrica per illuminare i ponti, indicatori di giri sul ponte del comando ed altre invenzioni moderne per rendere abitabile, sicura e comoda una nave da guerra. (…)
    Come si evince dalle stampe, il varo fu eseguito di prora e non, come usualmente avveniva ed avviene, costruendo la nave sullo scalo con la poppa rivolta verso il mare in modo che, all’atto dell’incontro con l’acqua della parte poppiera più rotondeggiante, faciliti la cd. spinta di Archimede. Tale spinta di galleggiabilità assume la forza massima quando la parte prodiera dell’invasatura toccando l’acqua fa inclinare leggermente la prua. Questo momento è chiamato, in gergo, nasata o saluto.
    Dopo i lavori di allestimento, la nave fu portata a Napoli nel bacino di raddobbo per i controlli di routine della linea d’asse e il completamento della pitturazione dell’opera viva. Unitamente al Vespucci, fu adatta a nave scuola degli allievi dell’Accademia Navale di Livrono apportando modifiche sia alle sovrastrutture e sia ai locali interni.

    Un particolare interessante che accomuna il Flavio Gioia e il Vespucci fu rappresentato dall’uso dei cavi in acciaio. Per la prima volta su navi della Regia Marina furono utilizzati tali cavi in sostituzione di quelli tradizionali in canapa costruiti dalla Regia Corderia di Castellammare di Stabia, voluta da Ferdinando IV di Borbone nel 1796.

    Crociere oceaniche
    Il giovane Guardiamarina effettuava il periodo d’imbarco sulle navi scuole per “ completare la sua istruzione tecnica, rendersi atto al comando delle manovrea e degli esercizi militari e acquisire pratica del mare…”.La navigazione oceanica, così come avveniva nella marineria inglese e francese, era ritenuta indispensabile per la formazione degli ufficiali e degli equipaggi e fu svolta unitamente a crociere commerciali e di rappresentanza, nonché di difesa degli interessi italiani nel mondo da parte di molte unità.
    Il 23 giugno del 1883 il Flavio Gioia (Comandante Ricotti), unitamente alla pirofregata Vittorio Emanuele (Comandante Parascandolo) e all’incrociatore gemello Amerigo Vespucci (Comandante Carnevali) , agli ordini del Contrammiraglio Morin, partecipò ad una crociera oceanica imbarcando gli allievi ufficiali dell’Accademia Navale di Livorno. I 277 allievi trovarono la seguente sistemazione a bordo: 84 sul Gioia, 84 sul Vespucci e 109 sul Vittorio Emanuele.
    Tutta la traversata atlantica fu effettuata quasi per intera con la propulsione a vela durando circa un mese. Dopo aver attraccato ad Annapoli, Baltimora e New York, il 31 agosto la Squadra oceanica ripresa la rotta per il ritorno in Patria arrivando a Livorno il 31 ottobre avendo percoso un totale di 10.570 miglia (6.691 a vela e 3.879 a vapore).

    A New York la Squadra navale trovò il Corsaro uno yacht da 50 tonnellate al comando del capitano d’Albertis che era andato in America per onorare la memoria di Cristoforo Colombo ripecorrendo la stessa rotta. L’Ammiraglio Morin gli offrì di farsi rimorchiare dal Flavio Gioia. Dopo un giorno di navigazione, le peggiorate condizioni del mare costrinsero a mollare il cavo di traino. Il Corsaro dovette affrontare da solo le tempeste dell’Atlantio e solo il 26 settembre arrivò a Capo San Vincenzo accolto dagli urrah dei marinai della Squadra navale che avevano temuto per la sua sorte dopo lo sgancio effettuato 25 giorni prima.
    Nel 1884 il Flavio Gioia, al comando di Eugenio Grandiville effettuò un’altra crociera d’oltremare fermandosi a Cuba per difendere gli interessi della comunità italiana. In quella occasione fu tentata la stipula di un accordo tra il Banco de Crédito Territorial Hipotecario de Cuba ed il Bando di Credito e Sconto di Napoli per favorire l’immigrazione diretta dall’Italia. Il Comandante elevò vibrate proteste al Ministro De Pretis quando si accorse che tale accordo serviva a sostituire gli schiavi affrancati dalla schiavitù che lavoravano nelle piantagioni di tabacco, con braccianti italiani. Il Comandante Grandville scrisse che:” l’abolizione della schiavitù fu accettata a malincuore ed ove non è dimenticato il sistema di oppressione verso il lavoratore obbligato” riportando anche l’alto tasso di delinquenza e corruzione che vigeva all’Avana ed in tutta l’isola. Tale progetto fortunatamente fallì.
    Nel 1886 assieme al Vespucci ed alla cannoniera Verniero, al comando del Contrammiraglio Giuseppe Mantese, il Flavio Gioia fu inquadrato nella Divisione Navale dell’America Meridionale ed effettuò un’altra circumnavigazione del globo.
    Fino al 1911 effettuò con gli allievi dell’Accademia Navale di Livorno diverse crociere: dal 10 luglio al 26 settembre 1896 in Mediterraneo ed in Atlantico; nel mese di settembre del 1897 e ad agosto-settembre dell’anno successivo nel Levante; nei mesi di agosto-ottobre 1899 nel Mar Baltico; nell’estate del 1900 e del 1901 ancora nel Mediterraneo ed in Atlantico. E così fino al 1911.
    Nella guerra italo-turca il Flavio Gioia, inquadrato nella Divisione Navi Scuola partecipò alle operazioni di bombardamento di Misurata ed agli sbarchi di Zaura. A bordo, oltre agli Allievi dell’Accademia Navale, c’era anche i Mozzi del Corpo dei Reali Equipaggi (C.R.E.M.) e ciè gli attuali Nocchieri. Nell’estate del 1913 e 1914 effettuò crociere nel Mediterraneo ed in Atlantico.

    Allo scoppio della prima guerra mondiale l’unità fu impegnata in compiti di vigilanza costiera e scorta antisommergibile nel Tirreno. Terminata la guerra, ripresa l’attività usuale di nave scuola fino al 1920 quando venne rediata dal naviglio militare ed utilizzatas come Convitto per Marinaretti a Napoli con la sigla CM181. Questa iniziativa si aggiunse a quella già in corso a Napoli con la vecchia nave Caracciolo iniziata nel 1913 così come la nave-officina Garaventa a Genova e, la prima esperienza del genere che si formò a Venezia nel 1903 con lex nave idrografica Scilla. Nel 1923 l’esperimento didattico-educativo delle Navi-scuola terminarono con l’assorbimento nell’Opera Nazionale Balilla. Il Flavio Gioia, quindi, il 4 marzo cessò definitivamente anche questa attività.

    Marinai famosi imbarcati sul Flavio Gioia
    Molti ufficiali si forgiarono su questa unità nel corso dei lunghi anni di attività. Se ne vogliono ricordare due, insigniti di Medaglia d’Oro al Valor Militare.
    Il primo, il Capitano di Corvetta Lorenzo Gandolfi di Mantova, imbarcato durante la crociera oceanico del 1987. Egli, il 3 luglio del 1916, sacrificò la sua vita nel domare un incendio scoppiato su un treno carico di munizioni bel Deposito Munizionamento di La Spezia, la motivazione era la segunte:” Accorreva prontamente e radunava militari e maestranze al pontile delle munizioni presso lo stabilimento Pirelli, sul quale erano parecchi vagoni carichi di esplosivi e uno di razzi che si era già incendiato. Conscio del grande pericolo che correva, con mirabile sangue freddo e giusto intuito, provvedeva ad organizzare opera di salvamento, cercando di spegnere l’incendio e di staccare i vagoni non ancora incendiati, fulgido esempio di eroismo ai dipendenti; e mentre attendeva a quest’opera mercé la quale si evitava disastro assai maggiore, cadeva gloriosa vittima della sua gloriosa abnegazione per lo scoppio avvenuto in vagoni isolati”.

    Il Capitano di Fregata Pietro De Cristofaro di Napoli imbarcato come Guardiamarina sull’unità durante il primo conflitto mondiale. Il 16 aprile del 1941 al comando del Cacciatorpediniere Luca Tarigo di scorta ad un convoglio nel Mediterraneo Centrale, subì l’attacco di forze nemiche e, benché con una gamba amputata, riuscì ad affondare, con i siluri il caccia britannico Mohawk e, subito dopo, si inabissò con la sua nave. La motivazione era la seguente:
    “Ufficiale superiore di altissimo valore. Comandante di silurante in servizio di scorta ad importante convoglio in acque insidiate dal nemico, prendeva tutte le disposizioni atte a garantire la sicurezza del convoglio affidatogli. Assaliti la scorta e il convoglio improvvisamente da soverchianti forze navali nemiche la notte sul 16 aprile 1941, con serena e consapevole audacia conduceva immediatamente all’attacco la nave di suo comando. Crivellata la sua nave da colpi nemici, colpito egli stesso da una granata che gli asportava una gamba, rifiutava di essere trasportato in luogo più ridossato e solo concedeva che gli venisse legato il troncone dell’arto, non per vivere ma per continuare a combattere. Così egli rimaneva fino all’ultimo, fermo al suo posto di dovere e di onore e nella notte buia, illuminata a tratti dalle vampe delle granate e degli incendi, i suoi occhi che si spegnevano avevano ancora la visione di un’unità nemica che sprofondava nel mare, colpita dall’offesa della sua nave E con questa egli volle inabissarsi, mentre i superstiti, riuniti a poppa lanciavano al nemico il loro grido purissimo di fede. Esempio sublime di indomito spirito guerriero, di coraggio eroico, di virtù di capo, di dedizione alla Patria oltre ogni ostacolo e oltre la vita”.

    Incrociatore Flavio Gioia – caratteristiche tecniche
    Motto dell’unità: “Saldi nella furia dei venti e degli eventi”
    Progettata Carlo Vigna
    Classe prototipo (Amerigo Vespucci)
    Impostata 26 luglio 1879
    Varata 12 giugno 1881
    Completata 26 gennaio 1883
    Dislocamento 2.750 tonn ( a pieno carico) – 2.493 tonn (normale)
    Lunghezza 84,50 metri (fuori tutta) – 78,00 (fra le perpendicolari)
    Larghezza 12,78 metri
    Immersione 5,19 metri
    Apparato motore: 8 caldaie tipo Penn – 1 motrice alternativa tipo Ansaldo – 1 elica
    Potenza 4.156 cavalli vapore
    Combustibile 500 tonnellate di carbone
    Velocità massima 14 nodi
    Protezione: ponte di coperta a struttura cellulare
    Artiglieria: 8 cannoni da 150/40 mm – 3 mitraglie da 75/24 mm tipo Northenfield – 2 mitraglie da 37 mm a 5 canne (il peso cannone-affusto era di 347 chilogrammi, quello di un proiettile di 483 grammi. A 500 metri di distanza, una scarica di proiettili colpivano l’interno di un cerchio di 1 metro di raggio. La velocità era di 42 colpi al 1’.
    A 240 metri di distanza i proiettili si conficcavano per 37 mm nella corazza – 2 mitraglie da 25 mm a 4 canne – 2 mitraglie leggere 2 impianti lanciasiluri da 355 mm sistemati a dritta e sinistra sul ponte
    Equipaggio: 268 uomini
    Radiata: 1920 (demolita 1923).

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    Regio cacciatorpediniere Dardo (2°)

    di Carlo Di Nitto

    Il regio cacciatorpediniere DARDO (2°), classe “Freccia”, dislocava 1890 tonnellate a pieno carico. Costruito nei Cantieri O.T.O. di Genova Sestri, era stato impostato nel 1929, varato il 6 settembre 1930 ed era entrato in servizio il 25 gennaio 1932.
    Nei primi anni, oltre alla normale attività addestrativa e di squadra, svolse alcune crociere e missioni in Medio Oriente, in Mar Rosso durante la guerra di Etiopia, e nelle acque iberiche durante la guerra di Spagna.
    Durante la seconda guerra mondiale partecipò alle Battaglie di Punta Stilo e di Capo Teulada e venne prevalentemente impiegato nella difesa del traffico con l’Africa settentrionale.
    Il 17 aprile 1941, in porto a Tripoli, fu colpito da schegge durante un bombardamento aereo che provocarono lievi avarie e qualche perdita tra il personale.
    Il 23 settembre 1941, essendo stato notevolmente alleggerito per effettuare lavori in bacino a Palermo, mentre veniva rimorchiato, si capovolse provocando la perdita di ben quaranta membri dell’equipaggio.
    Rimesso a galla, rimase ai lavori fino a giugno 1943, quando riprese l’attività bellica. Dopo circa un mese, lo scoppio di una turbina lo immobilizzò per cui venne rimorchiato a Genova dove rimase fino alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
    Catturato dai tedeschi la mattina del 9 settembre, venne da questi incorporato nella Kriegsmarine con la sigla T.A. 31 e brevemente utilizzato.
    Venne affondato a Genova il 24 aprile 1945. Recuperato nel novembre 1946, venne avviato alla demolizione.


    Nonostante i lunghi periodi di fermo obbligato, il “Dardo” svolse una notevole attività bellica percorrendo 34.000 miglia, compiendo 51 missioni di guerra (delle quali 27 di scorta), in acque fortemente contrastate dal nemico.

    In questa foto l’unità è ripresa mentre sosta in rada a Gaeta. Sullo sfondo, l’inconfondibile sagoma del Monte Redentore.

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    25.1.1942, la motonave Orseolo doppiava Capo Horn

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Banca della memoria - www.lavocedelmarinaio.com
    Questo articolo è dedicato a Raimondo Barrera che ha solcato tutti i mari della terra…

    Il 25 gennaio 1942, in pieno conflitto mondiale, i marinai invisibili del mercantile Pietro Orseolo doppiano Capo Horn. Molti bastimenti seguono questa rotta per trasportare materiale irreperibile nella vecchia Europa in guerra, transitando per l’oceano Pacifico conteso dalle flotte nipponiche e statunitensi.
    Per l’Orseolo (ma anche per gli altri bastimenti) l’impresa non è facile, è grande, ma è anche vero che gli oceani lo sono ancora di più, ma il coraggio e anche l’estremo sacrificio dei marinai imbarcati lo sono ancora di più.
    Niente radar, nebbia fittissima, e freddo, tanto freddo da far alternare ogni venti minuti le stremate vedette.
    nave Pietro Orseolo - www.lavocedelmarinaio.com
    Il tenente di vascello Mario Zustovich sa da vecchio lupo di mare che l’impresa, questa impresta, non è facile, non gli resta consapevolmente di trasmettere al suo equipaggio quella forza latente nell’orgoglio di ognuno di Loro. Bisogna circumnavigare, risalendo lentamente l’Atlantico, destinazione Bordeaux (23 febbraio 1942 – miglia percorse 19509) dove viene accolto da una improvvisata banda, dalle solite autorità riparate dal tepore di una tettoia, dall’affetto di marinai italiani e tedeschi che fanno sentire tutto quel calore patito dall’equipaggio del mercantile Orseolo durante la missione.
    In seguito la rotta viene seguita anche da altre navi ma quella dell’Orseolo era di vitale importanza perché il suo carico conteneva 77 tonnellate di stagno da consegnare all’industria bellica italiana, indispensabile per le saldature dei condotti elettrici delle navi, e anche 1988 tonnellate di gomma destinate all’ora alleato tedesco.
    Ma le guerre non si vincono requisendo l’oro al proprio popolo e nemmeno imponendo di confiscare i 20.000 banconi da bar esistenti in Italia per recuperare il recuperabile, le guerre si vincono non facendole.

    Motonave Pietro Orseolo - www.lavocedelmarinaio.com

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    Prima linea telegrafica a Castellammare di Stabia

    di Antonio Cimmino

    Il telegrafo ad aghi di William Thomas Henley si basava sugli esperimenti di Ampère: in presenza di corrente elettrica un ago magnetico devia la sua posizione. La deviazione dell’ago magnetico, influenzato dalla corrente prodotta nella stazione trasmittente, indicava nel ricevitore le lettere del messaggio trasmesso.
    A Castellammare di Stabia la prima linea telegrafica fu inaugurata nel 1851 e furono sistemate 86 stazioni nel Regno delle Due Sicilie.
    Nella metà degli anni ’50, Castellammare di Stabia utilizzava ancora il telegrafo ottico di Chappe e contestualmente due stazioni telegrafiche ubicate nella Regia di Quisisana e nel Real Arsenale.
    Il sistema usato, come in tutta la dorsale tirrenica era quello di Henlley, mentre lungi le coste adriatiche era operante il sistema Morse.

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    Gennaio, il primo mese dell’anno

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    I mesi di gennaio e febbraio secondo la leggenda furono aggiunti dal secondo re di Roma Numa Pompilio ma fu Giulio Cesare nel 46 a.C., anno definito dallo stesso ultimus annus confusionis, a sancire la divisione dell’anno in dodici mesi decretando i succitati mesi rispettivamente il primo ed il secondo e il calendario da lunisolare divenne in questo modo solare a similitudine di quello egizio (365 giorni suddivisi in 12 mesi e che ogni quattro anni si sarebbe dovuto intercalare un giorno complementare). In precedenza il calendario romano constava di 10 mesi.

    Venne quindi spostato l’inizio dell’anno dalla primavera all’inverno perché l’inverno, nonostante sia il periodo più freddo dell’anno, è anche la stagione che vede il sole risalire dopo la notte buia e le giornate diventare lentamente più lunghe, la luce vince sulle tenebre ed un nuovo ciclo inizia. Gennaio è colui che presiede ai passaggi ed agli inizi, il suo nome, Ianus, deriva dalla radice linguistica indoeuropea YA – esprimente l’idea del passaggio, da cui ianua che significa “porta”, il passaggio da una dimensione ad un’altra, da uno spazio ad un altro, da un tempo ad un altro.
    Giano bifronte, rappresentato con due volti, l’uno che guarda avanti l’altro che guarda dietro, in quanto che il nuovo anno porta sempre e comunque con sé qualcosa del vecchio, il presente è figlio del passato e dal passato si apprende ciò che serve a rendere migliori il presente ed il futuro; guardare a ciò che è stato e come è stato per continuare il bene e non continuare il male.
    Giano custode delle soglie, vede insieme l’entrata e l’uscita; nella casa romana era custode dell’entrata come ianitor, protettore delle porte e nei riti svolti dai sacerdoti era chiamato Patulcius da patere “stare aperto” e Clusius da claudere “chiudere”.Custode e signore delle porti celesti vede oriente e occidente, il sorgere ed il tramontare del sole, apre il giorno e lo chiude.A lui venivano consacrate le calende, presiedeva all’apertura di tutti i mesi dell’anno ed in quella occasione veniva offerto un dolce detto ianual, la cui ricetta e tramandata da Ovidio, preparata con formaggio, olio, farina e uova. Inoltre, perché sia di buon augurio, in occasione delle celebrazioni d’inizio anno, venivano consumati nelle case romane cibi dolci, sul cui significato il poeta Ovidio interroga lo stesso Giano: “che cosa voglion dire i datteri e i fichi rugosi e il puro miele offerto dentro candido vaso?” “si fa per buon augurio” – rispose Giano – “perché nelle cose passi il sapore; e l’anno, qual cominciò, sia dolce”.

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    Chiacchiere di navi

    di Guglielmo Evangelista

    Guglielmo Evangelista f.p.g.c. a www.lavocedelmarinaio.comNave Tronto, quando questa piccola unità cisterna, appena uscita dal cantiere, arrivò nel grande arsenale, rimase stupita dall’animazione che vi regnava: qua, sotto una cappa di fumo, si stendevano sterminate officine, là, lungo le banchine, erano in continuo movimento di treni e le gru a vapore. E poi, naturalmente, le navi: le grandi corazzate, i modernissimi incrociatori, le agili torpediniere. 
La navicella, mentre raggiungeva il suo ormeggio, cercò di entrare in confidenza con le altre unità che incontrava (perché le navi hanno una coscienza e parlano fra loro, anche se – a parte qualche privilegiato marinaio – noi non le possiamo sentire). Ricevette però solo poche risposte distratte e un po’ offensive: 
- Chi mi chiama? Sei così piccola che non riesco neppure a vederti – Disse la grande corazzata. 
- Stai andando come una lumaca, non sai fare le cose più in fretta? – Le chiese, sbarazzina, una veloce torpediniera che, mentre le passava accanto, la riempì di spruzzi. 
- Se porti cinquanta tonnellate d’acqua è tanto. Guarda me: ho armi e munizioni per una divisione! – Le disse un panciuto trasporto. 
- Lasciatela stare, non vedete che riesce a malapena a portare in giro sé stessa? – Si aggiunse ironicamente al coro un potente rimorchiatore. 
C’era però una nave che non disse nulla. Era una vecchia fregata, carica di anni, di quelle con le grandi ruote laterali, con lo scafo in legno, che portavano ancora le vele. Ormai decrepita e in disarmo, si era ritirata in disparte, lungo una banchina isolata: si ricordava ancora di quando, prima del tricolore, portava una bianca bandiera gigliata, si ricordava di quando, bruciando il suo carbone, si lasciava indietro i maestosi velieri fra lo stupore dei loro equipaggi, si ricordava della grande tragedia del 1866, quando a Lissa navi ben più belle e potenti di lei erano state dilaniate dalle cannonate. Insomma, era una nave di grande esperienza: una nave antica e saggia. 
Guardò la piccola cisterna, ne valutò le buone chiodature delle scafo in ferro, ne ascoltò il regolare pulsare della macchina alternativa, guardò come la sua piccola prua fendeva l’acqua con sicurezza. Rimase silenziosa, ma concluse che era robusta e ben costruita. Gli uomini l’avrebbero apprezzata. 

Il giudizio iniziale che le altre navi avevano dato alla cisterna cambiò poi in meglio, ma non troppo. Si abituarono infatti ai rifornimenti di acqua che, regolarmente, somministrava loro. Arrivarono a considerarla utile, in qualche caso indispensabile, ma la trattavano come una persona di servizio e continuarono a non darle confidenza: al massimo un ringraziamento frettoloso quando la manichetta sgocciolante veniva staccata. 
Lei era un po’ delusa della sua vita ma, tutto sommato, si accontentava, e sapeva bene che con quelle navi grigie, bellissime e armate fino ai denti, lei non poteva competere. Per qualche anno trovò una maestra e una confidente nella vecchia fregata poi, dopo che questa morì (gli uomini la chiamano più prosaicamente demolizione), strinse amicizia con una locomotiva che manovrava lungo la sua banchina: era una strana combinazione fra chi si muoveva con le ruote e chi con l’elica, ma dopo che scoprirono che entrambe montavano una caldaia fabbricata dello stesso costruttore, entrarono in confidenza, sentendosi quasi parenti. 
- Io non ho tante pretese, lo so che sono solo una cisterna, ma vorrei essere trattata meglio! – Disse in un giorno di cattivo umore la nave alla locomotiva. 
La macchina le rispose: – Ti sei mai guardata? Quanti cannoni hai?
- Beh, veramente, nessuno. 
- Quanto è spessa la tua corazza?
- Corazza? Ma se sui miei fianchi c’è solo un po’ di latta!
- Ti comanda un ufficiale superiore? 
- Non ho mai visto a bordo un ufficiale. 
- E allora, che pretendi? Sei l’ultima delle navi di questa base, e l’ultima resterai – Poi la voce della locomotiva si addolcì. 
- Però ogni medaglia ha il suo rovescio. Guarda quelle navi, gli uomini le hanno costruite per applicare su di esse le loro idee: idonee ad installare le più moderne artiglierie, veloci per obbedire alle nuova strategie, grandi per soddisfare le mire della politica. Per te non hanno pensato a tutto questo, ma ti hanno voluto perché servi: non solo oggi, ma anche domani e dopodomani, forse per sempre. La politica cambierà, le continue invenzioni faranno sembrare vecchio quello che oggi è nuovo, ma i marinai avranno sempre bisogno della tua acqua, e di qualcuno che gliela porti. Vedi, è stato lo stesso per me: ero una macchina brutta goffa, destinata alle manovre: non dico poter trainare il treno reale, non dico un diretto, ma almeno un accelerato….e invece niente. E nel deposito quelle grandi locomotive, tutte bielle e ruote, mi prendevano in giro…ma oggi ci sono nuove macchine, che non si alimentano di carbone, ma di elettricità. E adesso, mentre quelle vanno in fonderia, io sono ancora qui, vado e vengo e per chissà quanto tempo mi lasceranno fare il mio lavoro. Sarà così anche per te.

Fu una profezia indovinata. Un giorno una grande corazzata, attorniata dalle altre navi, che la ascoltavano rispettosamente, esclamò con stizza: 
- Io sono stata la prima nave moderna! Ho le più grandi artiglierie della squadra! E ora? Hanno deciso che non servo più, mi mandano in disarmo! – E concluse sbuffando vapore da tutti i fumaioli. 
- Anche noi, anche noi! – Esclamarono querule le torpediniere – oggi i siluri li lanciano da sott’acqua, ci sono i sommergibili e ci mandano in fonderia.
La cisterna, che ormai stava avvicinandosi agli anni della maturità, pensò alla lunga lista dei servizi che l’aspettavano: andare là a caricare, poi a rifornire quella divisione, poi a portare l’acqua a… Lei aveva ancora un futuro: concluse che queste elucubrazioni non la interessavano. Era viva, e nessuno pensava di poter fare a meno di lei. 

Passarono molte primavere, quando il verde tenero delle gemme degli alberi dava un tocco gentile agli austeri edifici militari. 
Passarono molte estati, quando il solleone arroventava le lamiere e i marinai si aggiravano nelle loro bianche uniformi. 
Passarono molti autunni, quando bassi nuvoloni carichi di pioggia rendevano indistinto il confine fra il mare e il cielo. 
Passarono molti inverni, quando ogni tanto un manto candido ricopriva le banchine e i marinai, con la spensieratezza dei loro vent’anni, si tiravano palle di neve. 
Insomma, passarono gli anni, cambiarono le navi. La città, alle spalle dell’arsenale, cresceva sempre di più. Sui moli facevano capolino le automobili, il cielo era solcato dagli aeroplani.
    Anche gli uomini erano cambiati e non portavano più la marsina e il cilindro. 
Perfino per la piccola cisterna qualche cosa non era più la stessa: ora, rispetto a lei, tutte le altre navi erano più giovani, anche se irte di cannoni e di strane e sempre più moderne apparecchiature; ma solo lei conosceva tutti i segreti del porto, e a lei non mancavano di chiedere consiglio. Quanto al suo lavoro era sempre rimasto lo stesso: avanti e indietro con il suo carico fra l’arsenale e la rada: tante volte nel suo quotidiano andirivieni si trovava ad accompagnare qualche altre unità fino alla soglia del mare aperto, e si incantava a guardarla sparire all’orizzonte, al di là del quale c’era un mondo favoloso che a lei era precluso e che conosceva solo dai racconti delle navi che, quando ritornavano, parlavano volentieri delle loro esperienze: 
- L’America! La Cina! Il Mar Rosso!
- Gli allievi dell’Accademia mi hanno strapazzata per due mesi, ma che crociera! 
-Due settimane di esercitazione, mai un giorno di tregua!
E lei ascoltava pazientemente, sognando quello che non poteva avere, lei che non aveva mai lasciato neppure per una notte il suo posto in banchina. Così continuò ad accompagnare le navi che partivano e ad accogliere quelle che tornavano. 
Poi, venne un giorno in cui le navi partirono, ma non tornarono. C’era la guerra. La cisterna ne aveva già passate parecchie, ma questa fu la più feroce di tutte e, per la prima volta, anche l’arsenale e la città furono devastate: la nostra nave, sgusciando fra bomba e bomba, sopravvisse. 
Era ormai sola e le sue compagne di un tempo giacevano in fondo al mare, ma la vita, ancora una volta, ricominciò. Lentamente nel grande porto tornarono a fare capolino le navi superstiti: poche e malandate, ma vive. E le raccontarono le loro storie. La piccola e vecchia nave ascoltava, ascoltava ancora. 
Passarono altri anni: tanti. Le navi che aveva visto nascere, con cui aveva condiviso la tragedia della guerra, pian piano scomparvero, altre navi sempre più moderne arrivavano e, quando le rivolgevano la parola, premettevano sempre: – Tu che sai tutto…
Allora si rese conto di quale, fin dall’inizio, doveva essere il suo destino: RICORDARE. Lei e soltanto lei era il filo di unione fra il passato e il futuro, fra il mondo della vela e l’era atomica: tutto era passato, lei no. Molte grandi e orgogliose navi che avevano scandito la storia erano ormai rottami o tombe in fondo al mare, mentre lei era ancora lì: era quello il suo ruolo e, nello stesso tempo, la sua ricompensa. 
Un giorno però seppe che anche il suo destino era segnato: l’aveva già capito da qualche indizio: il suo cuoricino d’acciaio perdeva colpi, le bielle si muovevano con fatica, gli strati di vernice non riuscivano più a mascherare la ruggine che la mangiava. 
In una sera tranquilla, senza le cerimonie che in queste occasioni si facevano per le grandi navi, due marinai le ammainarono la bandiera, che fu ripiegata e fatta sparire.
    Tutto era finito.
    Soltanto un vecchio nostromo, con i capelli bianchi, il volto segnato dagli anni e una fila di nastrini sul petto, per un attimo indugiò pensoso ad accarezzare con mano leggera le malconce lamiere. 
La nave non provò né sorpresa né delusione perché sapeva che tutte le cose avevano una fine: se era così per gli uomini, doveva essere così anche per le macchine. 
Semmai provava un po’ di curiosità: si domandò se quel Dio che tanto avevano invocato i marinai di Lepanto, di Lissa, di Matapan, esistesse anche per le navi: forse sì. In fondo le navi erano i loro occhi, la loro difesa, spesso la loro salvezza. 
La piccola nave emise un ultimo sbuffo di vapore che si disperse nel cielo dorato del tramonto.

    

P.S. Scusatemi, ho dimenticato di dire il nome della protagonista di questo racconto: è la regia pirocisterna Tronto, costruita nel 1889. Prestò servizio fino al 1968.


    Unità che hanno portato il nome Tronto
    di Claudio53
    La prima unità a portare il nome Tronto fu un brigantino a vela di terza classe di 414 tonnellate della Marina borbonica adibito a trasporto materiali e costruito nei cantieri di Castellammare di Stabia varato nel 1828 e radiato nel 1864.
    Il Tronto è un fiume lungo 115 Km che scorre nella maggior parte del suo percorso nella Regione Marche. Nasce al confine fra Abruzzo e Lazio dai monti della Laga nei pressi del comune di Amatrice e dopo aver percorso le provincie di Rieti e Perugia, lambisce Ascoli Piceno, segna il confine anche fra Abruzzo e Marche e sfocia in Adriatico fra i comuni di San Benedetto del Tronto e Martinsicuro.
    Dopo l’Unità d’Italia la spesa media annua per la Regia Marina passa da 35,8 milioni del decennio 1870-79 a 82 milioni del periodo 1880-89 a 105,4 milioni tra il 1890 e il 1899. I cantieri genovesi usufruiscono di tali stanziamenti ed incominciano a costruire navi di maggiore tonnellaggio rispetto a quelle sino ad allora commissionate dal nuovo Regno d’Italia. In particolare, con il potenziamento proposto da Benedetto Brin, furono avviati rilevanti programmi di ammodernamento della flotta. L’incremento delle commesse militari consentirono anche un netto sviluppo tecnologico nelle costruzioni e le nuove unità si iniziò a venderle anche all’estero.
    In tale programma di sviluppo venne costruita anche una seconda unità a cui fu assegnato il nome Tronto. Era una cisterna porta acqua della classe Ticino di 200 tonnellate realizzata nei cantieri Odero di Genova, entrata in servizio nella Regia Marina Italiana il 16 gennaio 1890 fu radiata l’1 maggio 1968 (ben 78 anni dopo).

    Cantieri Odero Genova - www.lavocedelmarinaio.com

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    Il Mastro di trombe

    di Antonio Cimmino

    Le trombe (aspiranti, prementi, aspiranti-premente) erano costruite in legno e metallo con tubi di aspirazione e mandata (olmo) rame, cuoio, tela cerata, latta.
    Il mastro di trombe doveva quindi essere in grado di lavorare il legno, il cuoio, la latta, il rame, insomma il mastro di trombe che non suonava.
    Di seguito alcuni tipi:

    Tromba di sentina
    In ghisa e con tubo di aspirazione in legno, serviva per aspirare l’acqua dalla cala e versarla in mare.
    L’estremità inferiore del tubo aspirante era provvisto di pigna bucherellata.ù

    Tromba della serpa
    Con tubo di aspirazione in cuoio messo in mare a prua sotto la polena, prelevava l’acqua di mare per il lavaggio della coperta.

    Tromba ad acqua
    …dolce per prelevare l’acqua dal serbatoio in ferro posto in sentina.

    Tromba a vento
    Adibita a dare ventilazione nella stiva e nei locali macchine. Poteva essere di tela olona.

    Tromba d’incendio
    Destinata a scagliare l’acqua a grande distanza sia per spegnere un incendio e sia per lavaggio ponti.
    Formata da una cassa di legno foderata di rame in cui erano sistemati due corpi di trombe. La cassa era provvista di ruote per poterla trasportare ove necessitava.