Curiosità

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    Titanic, per molti la nave dei sogni

    di Manuel Muttarini (*)
    www.titaniclegend.it

    Oggi questa frase potrebbe risultare banale, ma per il 1912 era l’equivalente dell’attuale Queen Mary 2. Il Titanic come la sua gemella Olympic, e la Britannic erano state costruite dalla White Star Line per competere con la rivale, Cunard Line (altra compagnia navale). Era senza dubbio il miglior modo per fare una traversata oceanica a bordo del transatlantico più lussuoso del mondo.
    Costruito presso i cantieri di Harland and Wolff di Belfast. Il progetto era stato realizzato da Thomas Andrews e da William Pirrie. Lo sviluppò richiese dal 1909 al 1912, tantè che i passeggeri al giorno dell’imbarco sentirono persino, il “profumo” di vernice fresca.
    Il motore era composto da 29 caldaie con una propulsione a vapore, (a differenza delle altre imbarcazioni che andavano a diesel) consumavano più di 700 tonnellate di carbone al giorno e con i suoi 51.000 cavalli, era il transatlantico più veloce al mondo, capace di raggiungere i 23 nodi, all’incirca 43 km/h. Pesava 46.000 tonnellate, per un’altezza di 52 m e una larghezza di 28 m e una lunghezza di 269m.
    Il Titanic era definito “inaffondabile”, grazie alla sua chiglia dotata di un doppio fondo cellulare, inoltre lo scafo era suddiviso in 16 porte stage che potevano essere chiuse anche dalla cabina di comando, con l’utilizzo della corrente elettrica.
    Ospitava ben 2.223 persone oltre alle 900 dell’equipaggio suddivisi tra camerieri, marinai ecc.

    (*) Manuel Muttarini è da sempre un appassionato del Titanic. Fin dalla tenera età ad oggi, ha letto diversi libri sia Italiani che Inglesi. Con l’avvento di Internet è riuscito a colmare il suo interesse, scoprendo numerosi documenti inerenti al naufragio. Oltre al Titanic, Manuel Muttarini è un grande appassionato di videogiochi. Ha condotto un’intera stagione del programma televisivo “Futur@”;, assieme a Massimo Carboni e Noemi Giunta nel 2000. Dal 2000 al 2002 si è occupato della sezione “Games” di oltreilgol.it
    Ha collaborato con altri siti, tra cui Internet-television.it di Giorgio Cajati. Scrive sul sito www.ayrion.it nella sezione “Games”, collaborando con il suo amico Massimo Carboni e, da oggi, anche su lavocedelmarinaio.com

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    Le superstizioni dei marinai

    di Antonio Cimmino

    Le superstizioni dei marinai
    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    …a Donato e Claudio per il prezioso suggerimento e per la profonda stima e amicizia.

    Ma i marinai sono superstiziosi? Proverbialmente sembra proprio di si e per menzionare tutte le loro superstizioni bisognerebbe scrivere un’enciclopedia. La storia della marineria è intrisa di riti scaramantici ancora oggi diffusi.

    Stregonerie, esorcismi, rituali pagani e religiosi erano e sono il pane quotidiano di capitani e marinai sempre attenti a non sfidare le regole della fortuna e ingraziarsi, con riti propiziatori, la benevolenza degli elementi naturali. Di natura irrazionale, le superstizioni possono influire sul pensiero e sulla condotta di vita delle persone che le fanno proprie. Il credere che gli eventi futuri siano influenzati da particolari comportamenti, senza che vi sia una relazione casuale, vengono da molto lontano. La paura dell’ignoto e dell’immensità degli oceani ha generato sin dagli albori della navigazione una fitta serie di credenze. Per secoli miti e leggende sono stati tramandati a colmare col soprannaturale, quel vuoto che la razionalità ancora non riusciva a riempire. In Grecia, per esempio, si compivano sacrifici umani per assicurarsi il favore degli dei. Così Agamennone, re di Argo, fece immolare sua figlia Ifigenia per ottenere nuovi venti  per le navi che dovevano lasciare Troia. I vichinghi invece versavano il sangue degli schiavi sgozzati in segno di benedizione prima del varo di una nave o prima di intraprendere la navigazione. I miti e le leggende che si narravano intorno al mare e alle terribili creature che lo abitavano assunsero tinte ancora più fosche con il diffondersi del cristianesimo, quando a fare degli oceani campi di battaglia, non furono più dei capricciosi spiriti malvagi, ma santi e satanassi. Alle tempeste opera del diavolo venivano contrapposti ed invocati i santi (tutt’ora i marinai invocano per esempio Santa Barbara durante i forti temporali). Sempre durante il cristianesimo non si potevano mollare gli ormeggi il primo lunedì del mese di aprile perché coincideva con il giorno in cui Caino uccise Abele oppure il secondo lunedì di agosto era meglio restare in porto: in quel giorno Sodoma e Gomorra furono distrutte; partire poi il 31 dicembre era altrettanto di cattivo auspicio perché era il giorno in cui Giuda Iscariota si impiccò.

    Gli agenti atmosferici come i “fuochi di Sant’Elmo” o come il passaggio di una cometa erano presagi buoni o cattivi a seconda dell’interpretazione che se ne dava; mentre una tromba d’aria in avvicinamento all’orizzonte poteva essere “tagliata” con una spada e deviata recitando una preghiera o una formula magica; le onde si placavano mettendo in mostra i seni nudi di una polena, o facendo scoccare in acqua dal più giovane dei marinai una freccia magica.

    Anche gli animali non erano (…sono) immuni dai preconcetti scaramantici. Il gatto, malgrado ami poco il contatto dell’acqua, ha trovato un posto di tutto rispetto sui vascelli. La ragione della sua presenza a bordo si collega alla sua naturale propensione a scovare i roditori ed era anche ritenuto capace di prevedere eventi climatici: se soffiava significava che stava per piovere, se stava sdraiato sulla schiena c’era da aspettarsi una bonaccia, se era allegro e baldanzoso il vento stava per arrivare; se un gatto inoltre andava incontro un marinaio sul molo era segno di buona fortuna, se gli tagliava la strada il contrario (oggi per alcuni se un gatto nero ti attraversa la strada è presagio di brutte notizie); se si fermava a metà strada c’era da aspettarsi invece qualcosa di sgradevole. Si riteneva infine che i gatti potessero invocare una tempesta grazie al potere magico delle loro unghie. Per questa ragione a bordo si faceva sempre in modo che fossero ben nutriti e coccolati. Tra gli uccelli gabbiani e albatros erano l’incarnazione dei marinai morti in mare e portatori di tempeste. Peggio ancora se un cormorano si posava sul ponte di una nave e scuoteva le ali, guai a fargli del male si era posato per rubare l’anima di qualcuno e avrebbe significato naufragio sicuro. Così se tre uccelli si trovavano a volare sopra la nave in direzione della prua, l’equipaggio si disperava per l’imminente disgrazia da questi annunciata. Se uno squalo per esempio seguiva la scia di una nave era di cattivo auspicio perché si credeva fosse in grado di fiutare l’odore della morte. Diversamente i delfini e le rondini erano di buon augurio.

    Ma le superstizioni colpiscono anche le persone e allora: “occhio, malocchio prezzemolo e finocchio” (come avrebbe recitato il principe De Curtis).

    Gli avvocati (categoria particolarmente detestata dai marinai inglesi che li apostrofano spregevolmente squali di terra) e i preti (averli a bordo rappresentava una aperta sfida a Satana) portavano male (…avvocati, preti e polli non sono mai satolli). Stessa sorte per la donna averla in barca portava male (ora non si dice più, forse per la parità dei sessi). Secondo alcune tradizioni però una donna nuda, o incinta poteva placare anche la più terribile delle tempeste. Poi non ci poteva essere cosa peggiore, prima di salpare, di incontrare una persona con i capelli rossi, con gli occhi storti o con i piedi piatti (…rosso malpelo sprizza veleno). L’unica modo per salvarsi in questo caso era parlargli per prima.

    C’erano e ci sono usanze che i marinai cercano assolutamente di evitare a bordo: indossare abiti di un altro marinaio, soprattutto se morto nel corso dello stesso viaggio; evitare di fare cadere fuori bordo un bugliolo o una scopa; imbarcare un ombrello, bagagli di colore nero, fiori e guardare alle proprie spalle quando si salpa); salire a bordo della nave con il piede sinistro; poggiare una bandiera sui pioli di una scala o ricucirla sul cassero di poppa (attualmente i marinai italiani nel ripiegare la bandiera lasciano il colore verde fuori in segno di speranza); lasciare le scarpe con la suola verso l’alto (presagio di nave capovolta); accendere una sigaretta da una candela (significava condannare un marinaio a morte); evitare il suono prodotto dallo sfregamento del bordo di un bicchiere o di una tazza; il rintocco della campana di bordo se non mossa dal rollio; pronunciare le parole: verde, maiale, uovo, tredici, coniglio; parlare di una nave affondata o di qualcuno morto annegato; indossare le magliette fornite dall’organizzazione di una regata; capi di abbigliamento nuovi; cambiare nome a una barca o battezzarla con un nome che finisce con la lettera “a”(in passato è stata sempre una eresia, soprattutto in Italia è ancora fonte di numerosi scrupoli. I francesi hanno risolto il problema cambiando il nome a ferragosto e mettendo in atto questo rituale: procedendo di bolina la barca deve compiere sei brevi virate e poi scendere in poppa piena tagliando in questo modo la sua stessa scia. In questo modo, secondo alcuni, si disegnerebbe un serpente che si morde la coda scongiurando la iella. Solo a questo punto la barca sarà pronta a un nuovo nome ) e tantissime altre superstizioni.

    E’ invece di buon augurio per un marinaio avere un tatuaggio; lanciare un paio di scarpe fuori bordo immediatamente dopo il varo di una nave, indossare un orecchino d’oro (usanza antica che serviva a coprire le spese di sepoltura qualora il marinaio fosse deceduto); toccare il solino o la schiena di un marinaio; dipingere occhi sul moscone delle barche.

    Oggi quando si vara una nave ci si limita a versare dello champagne sul ponte. Più raramente si lancia contro lo scafo l’intera bottiglia del prezioso vino: se questa si rompe è di buona sorte, altrimenti sono dolori.

    Il pallino della superstizione di chi va per mare non accenna a svanire neppure oggi e, se non è superstizione, è certamente scaramanzia. E’ bene ricordare a tutti che qualunque marinaio prima di salpare, come nella vita di tutti i giorni, non accetta di buon grado gli “auguri” o i “buona fortuna”. Meglio porgergli in “bocca al lupo” o “in culo alla balena”.

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    Enrico Porro (Lodi, 16.1.1885 – Milano, 14.4.1967)

    a cura Pancrazio “Ezio” Vinciguerra”

    (Lodi, 16.1.1885 – Milano, 14.4.1967)

    Biografia
    Nasce a Lodi Vecchio (Lodi) il 16 gennaio 1885 da genitori emigrati da Cuvio, nel varesotto.
    È stato il primo italiano a conquistare una medaglia d’oro olimpica nella lotta greco-romana nei pesi leggeri (66,6 kg) alle Olimpiadi di Londra del 1908. Marinaio, mozzo, arrivato a Buenos Aires scappò dalla nave e si rifugiò da un cugino tipografo che viveva nella capitale argentina, ma tornò a Milano dopo aver litigato con la moglie del parente. In precedenza, nel 1906, vinse il titolo europeo.
    A diciassette anni partecipò poi alla sua prima competizione ufficiale a Legnano, vincendola.
    Arruolato in Marina per il servizio militare (quattro anni di ferma), nel 1906, , imbarcato come elettrotecnico sulla regia nave-scuola Castelfidardo, di stanza a La Spezia, ai Giochi Olimpici di Londra si recò in divisa avendo ottenuto l’autorizzazione a partecipare e, nella finale disputata, ebbe la meglio sul russo Nikolaj Orlov, sette chili più pesante. Quel viaggio in treno 3^classe, da La Spezia a Londra durò due giorni.
    Tornato a La Spezia con un biglietto di terza classe, la banda della Regia Marina lo accolse con tutti gli onori. Fu portato in trionfo e premiato da Vittorio Emanuele III con una medaglia d’oro. Saltate le Olimpiadi del 1912 (Stoccolma) per la bruciatura a una mano causata da un corto circuito, prese parte con esiti modesti a quelle del 1920 (Anversa) e 1924 (Parigi).
    Visse gli ultimi anni con le braccia paralizzate dall’atrofia muscolare.
    Salpò per l’ultima missione da Milano il 14.4.1967.

    Curiosità
    Si racconta che al re scappò un sorriso quando, sulla plancia del regio cacciatorpediniere Castelfidardo, all’àncora nell’Arsenale Militare della Spezia, venne condotto al suo cospetto il marinaio Enrico Porro. Vittorio Emanuele III non poté infatti fare a meno di notare che l’uomo che aveva di fronte, vincitore qualche settimana prima di un oro olimpico a Londra nella lotta greco-romana, era alto… quanto lui.
    Ricorda, Porro, che quella visita inaspettata (fu infatti rintracciato in una balera dove stava festeggiando allegramente la vittoria e rimesso in fretta e furia in condizioni appena decenti) si concluse con molte lodi da parte del sovrano e una più tangibile «medaglia d’oro grossa come una michetta».

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    14.4.1912, Guglielmo Marconi e il Titanic

    di Marino Miccoli e Manuel Jobs Muttarini (*)

    Con piacere ho accolto l’invito dello stimato Manuel Muttarini (Gold Associate Member della prestigiosa Titanic Historical Society) (*) a scrivere un breve articolo che trattasse di quelle che furono le reazioni e le opinioni espresse dal grande scienziato italiano inventore del telegrafo senza fili Guglielmo Marconi in occasione del drammatico affondamento del transatlantico Titanic avvenuto la notte del 14 aprile 1912.

    (*) digita sul motore di ricerca del blog il nome e cognome degli autori per conoscere gli altri loro articoli.

    Occorre premettere che è stata l’apprezzata professionalità di uno stenografo a far sì che il trentottenne Guglielmo Marconi non si trovasse sul transatlantico Titanic il giorno del suo affondamento. Egli con la moglie era stato invitato dalla White Star Line a partecipare al viaggio inaugurale di quella meravigliosa quanto tristemente famosa nave ma egli, a causa delle numerose pratiche cartacee da sbrigare e della sua conoscenza dell’abile e svelto stenografo che prestava servizio sul Lusitania, preferì imbarcarsi tre giorni prima su quest’ultimo transatlantico per raggiungere New York.
    Apprese della grande sciagura quando, sbarcato negli Stati Uniti, seppe che a Cape Race (una località situata in Terranova, sulla costa atlantica del Canada, vicino alle rotte transatlantiche) era stato captato un radiomessaggio che lasciava supporre essere avvenuto un grave disastro in mare.
    Quando il Carpathia attraccò al molo 54 di New York carico dei naufraghi del Titanic, Marconi si recò subito dai radiotelegrafisti per apprendere direttamente da loro quello che era successo. Parlò con Thomas Cottam del Carpathia e con Harold Bride marconista in seconda del Titanic (il primo marconista J. G. Phillips era perito nel naufragio). Si fece un’idea di quello che era avvenuto e da subito sentì di dover intervenire in favore dei marconisti che erano stati ingiustamente criticati, soprattutto difese l’operato di Phillips, il giovane che guadagnava 30 dollari al mese e che era voluto rimanere stoicamente al suo posto, nonostante il Comandante del Titanic lo avesse dispensato da ogni responsabilità.
    Sebbene Guglielmo Marconi fosse fiero del comportamento dei marconisti, era però amareggiato perché convinto che si sarebbero potute salvare molte più vite. In particolare, leggendo il libro che la signora Degna Marconi Paresce (figlia del grande scienziato italiano) ha pubblicato alcuni anni addietro veniamo a conoscenza che egli affermò: “Certe navi non poterono ricevere la richiesta d’aiuto del Titanic perché stavano ricevendo il bollettino delle ultime notizie da Cape Cod. Se a bordo ci fossero sempre due marconisti, uno avrebbe potuto badare al notiziario e l’altro avrebbe dovuto stare all’ascolto di eventuali segnali di pericolo, senza con questo interferire sui messaggi a lunga distanza”.

    In seguito l’attenzione di Marconi si concentrò sull’opportunità di dotare le scialuppe di salvataggio di un apparecchio rice-trasmittente di facile uso, affinché anche un uomo profano in materia potesse azionarle; finalmente nel 1926 una lancia così attrezzata del Royal National Lifeboat Institution riuscì a comunicare con una base a terra distante 185 miglia.
    In merito al fatto che il Carpathia aveva ritrovato i naufraghi del Titanic a notevole distanza dalla posizione originariamente segnalata (a ben 34 miglia di distanza…) egli sostenne la necessità di istituire dei radio-fari sulle coste dell’oceano, in modo tale da impedire errori di localizzazione di tale gravità che poi nei fatti si traducevano in un elevato numero di vite umane perdute.
    Egli evidenziò inoltre la necessità di dotare le grandi navi di linea di stazioni rice-trasmittenti più potenti, che fossero così in grado di collegarsi con entrambe le rive dell’oceano.
    L’illustre scienziato italiano fu senz’altro gratificato allorquando i superstiti dell’affondamento si recarono in massa da lui in albergo per manifestargli tutta la loro gratitudine e riconoscenza per la sua invenzione; durante quella commovente visita gli donarono una medaglia d’oro su cui era raffigurato Apollo, il nume profetico e splendente della sua bellezza. Guglielmo Marconi li ringraziò commosso.
    Anche noi siamo e dobbiamo essere grati al grande scienziato italiano perché nella storia recente dell’umanità la sua invenzione è stata di importanza capitale per la salvezza di un numero incalcolabile di vite umane. Consideriamo ciò un motivo di orgoglio in più per noi di essere Italiani.

    Transatlantico fotografato a Napoli, dalla coperta del Regio Esploratore Alvise da Mosto,sullo sfondo appare il Vesuvio al tramonto (foto d’epoca degli anni ’30)

    (*) 
    Cari Ezio e Marino,
    Vorrei che prima di questo splendido saggio aggiungeste questo pezzettino dedicato a voi.
    Ho conosciuto Ezio Vinciguerra qualche anno fa. Chiedendogli umilmente uno scambio di Link. Ho trovato ben altro di un sito. Una persona vera, sincera e amichevole. Ho cominciato a postare per tutti voi le mie ricerche. Mi avete dato la forza di continuare. Ogni parola scritta sul mio sito, è stata scritta su un’iphone e spedita al mio webmaster Stefano a cui devo molto. Molte notti con ore piccole, molte foto di persone scomparse, molte note della mia armonica dedicate a quella sciagura da sempre mi danno la forza di approfondire in modo semplice..Qualche Domenica fa, il signor Miccoli, con la sua gentilezza e cultura mi ha informato di una vicenda che non conoscevo cosi bene. Cosi l’articolo che leggerete tra breve sarà sul mio sito con una dedica al signor Miccoli a cui devo molto. Caro Marino spero di ricevere ancora suoi articoli e le stringo la mano per avermi illuminato con il suo sapere.

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    14.4.1909, impostazione della regia nave Città di Catania

    dalla pagina facebook Centro Storico Pedonale – Catania
    segnalata da Sergio Platania

    …e l’origine dell’espressione “fi­niu a tri tubi” (*)

    Rarissima foto della nave “Città di Catania”, presumibilmente del 1910 prima del varo.

    L’unità è impostata il 14 aprile 1909 nei cantieri Ansaldo, Armstrong & Co. di Sestri Ponente (numero di cantiere 157) ed iscritta con matricola 43 al Compartimento Marittimo di Palermo, l’unità faceva parte di una serie di quattro veloci piroscafi passeggeri ordinati dalle Ferrovie dello Stato.
    Il 23 maggio 1910 l’unità viene varata nei cantieri Ansaldo, Armstrong & Co. di Sestri Ponente (Genova).
    Fin dalla costruzione era previsto, nei piani della Regia Marina, che in caso di guerra le quattro navi sarebbero state requisite, armate ed impiegate come incrociatori ausiliari. Per questo motivo nel 1911-1912 la nave, requisita ed armata come incrociatore ausiliario, conobbe il suo primo impiego operativo durante la guerra italo-turca. Il 10 aprile 1912, in particolare, l’unità partecipò, insieme agli incrociatori corazzati Carlo Alberto e Marco Polo, al similare incrociatore ausiliario Città di Siracusa, al cacciatorpediniere Fulmine ed alla torpediniera Alcione, ad un bombardamento della città di Zuara (centro di contrabbando di materiali bellici per le truppe ottomane), seguito da uno finto sbarco simulato dai piroscafi Sannio, Hercules e Toscana.
    Con l’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale il Città di Catania venne nuovamente requisito, armato con 4 cannoni da 120/47 mm e due da 47/40 mm ed iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato come incrociatore ausiliario. Il 24 maggio 1915 la nave non era ancora pronta, ma entrò presto in servizio.
    Il 12 agosto 1915 il Città di Catania era in crociera di blocco ad est di Brindisi, quando, verso mezzogiorno, venne bersagliato dal sommergibile austro-ungarico U 3 con il lancio di un siluro. Evitata l’arma, l’incrociatore ausiliario passò al contrattacco e speronò l’U-Boot che si stava immergendo, senza tuttavia riuscire ad affondarlo. Nella notte successiva il danneggiato U 3 fu affondato a cannonate dal cacciatorpediniere francese Bisson, uscito da Brindisi insieme agli italiani Abba e Mosto per dare la caccia al sommergibile.
    Nel pomeriggio del 6 dicembre la nave, al comando del capitano di fregata Sorrentino, lasciò Taranto insieme agli esploratori Quarto e Pepe, ai posamine Minerva e Partenope ed ai cacciatorpediniere Borea, Abba, Nievo e Nulloper scortare a Valona un convoglio (trasporti truppe Dante Alighieri, America, Indiana, Cordova e trasporto militare Bengasi) con a bordo 400 ufficiali, 6300 tra sottufficiali e soldati e 1200 cavalli: il convoglio giunse a destinazione alle 8 del 7 dicembre.
    L’11 dicembre 1915 il Città di Catania salpò nuovamente da Taranto per scortare a Valona, insieme ai posamine Minerva e Partenope ed a 6 cacciatorpediniere, un convoglio composto dai piroscafi Dante Alighieri, America, Cordova, Indiana e Valparaiso carichi di rifornimenti destinati alle truppe italiane operanti in Albania (5.000 uomini, 900 animali, più carriaggi e rifornimenti). Il convoglio, dopo una navigazione notturna, arrivò in porto il 12 dicembre.
    Il 23 febbraio 1916 l’incrociatore ausiliario (al comando del capitano di fregata Guida R.), insieme al similare Città di Siracusa ed ai cacciatorpediniere Ardito, Irrequieto e Bersagliere, giunse nella baia di Durazzo ed iniziò a bombardare con le proprie artiglierie le truppe austroungariche in avanzata, che stavano per occupare il porto albanese, in via di abbandono. Il 26 febbraio la nave (insieme a Libia, Città di Siracusa, Città di Sassari ed agli anziani arieti torpedinieri Puglia ed Agordat), mantenendosi alla fonda, bombardò anche le postazioni avversarie a Capo Bianco, Rasbul, quota 200, nonché le alture dei dintorni, la diga e la strada per Tirana, sempre nell’ambito delle operazioni di evacuazione di Durazzo.
    Verso la metà del 1916 l’unità venne destinata al gruppo incrociatori ausiliari Brindisi, insieme alle unità Città di Cagliari, Città di Siracusa, Città di Sassari e Città di Messina (incrociatore 1909).
    Successivamente al termine del primo conflitto mondiale la nave venne restituita alle Ferrovie dello Stato, riprendendo il servizio di linea. Successivamente venne ceduta alla Società Anonima di Navigazione Tirrenia. In tempo di pace il Città di Catania fu impiegato nel servizio postale di linea.
    Nel 1933 la nave prese parte, con compiti di appoggio, alla celebre crociera aerea atlantica degli idrovolanti di Italo Balbo.
    Il 10 giugno 1940, l’Italia entra nella seconda guerra mondiale. A differenza che nel conflitto precedente, il Città di Catania non verrà nemmeno requisito, e continuerà ad essere utilizzato prevalentemente in servizio civile di linea; tuttavia, sarà anche spesso utilizzato come trasporto truppe per conto del Ministero della Guerra, soprattutto nella seconda di metà del 1942 e nel 1943. Gli sarà assegnato il nome in codice «Calore».
    A partire dal 7 novembre 1941 la nave venne noleggiata dalla Tirrenia alla società consociata Adriatica, che sino alla sua tragica perdita la impiegò sulla rotta da Brindisi a Durazzo.
    Alle 5.33 del 3 agosto 1943 il Città di Catania lasciò Durazzo diretto a Brindisi con a bordo 407 passeggeri civili e militari e 105 membri dell’equipaggio (tutti civili). Alcune ore dopo la nave, giunta ormai in vista della costa pugliese, venne avvistata dal sommergibile britannico Unruffled, che le lanciò due siluri: alle 10.45 le armi andarono a segno, raggiungendo il Città di Catania sul lato sinistro, a centro nave, e provocando la rottura della chiglia. Spezzato in due, il piroscafo s’inabissò nel giro di due minuti a 8 miglia per 40° dal semaforo di Brindisi (in posizione 40° 30′ 30″ N e 18° 04′ 30″ E), trascinando con sé la metà esatta delle persone a bordo. Oltre alla rapidità dell’affondamento, il gran numero delle vittime fu dovuto al fatto che molti dei passeggeri erano sistemati nel salone centrale, proprio all’altezza del punto in cui colpirono i siluri.
    Le numerose unità minori (tra cui una pilotina, il rimorchiatore Galliano e quattro motopescherecci/dragamine ausiliari) che stavano conducendo operazioni di dragaggio fuori Brindisi accorsero prontamente sul posto, salvando 200 passeggeri e 56 membri dell’equipaggio.

    Scomparvero con la nave 49 membri dell’equipaggio (compreso il comandante) e 207 passeggeri.

    (*) “FINIU A TRI TUBI”:
    Un’e­spres­sio­ne dif­fu­sa fra ge­ne­ra­zio­ni vec­chie e nuo­ve, so­prat­tut­to nel­la zona orien­ta­le del­l’i­so­la, e che deve la sua ori­gi­ne proprio alla storia della nave.
    Tra il 1909 e il 1910, in­fat­ti, quando ven­ne co­strui­to il pi­ro­sca­fo, i suoi tre gros­si co­mi­gno­li colpirono su­bi­to l’at­ten­zio­ne del­la cit­ta­di­nan­za, che quindi so­pran­no­mi­nò la nave “la tre tubi”.
    La fine spia­ce­vo­le del piroscafo, ri­ma­se im­pres­sa nel­la men­te del­la po­po­la­zio­ne siciliana al pun­to che fino ad oggi, quan­do qual­co­sa va stor­to, vie­ne im­me­dia­ta­men­te as­so­cia­ta al ce­le­bre mez­zo di tra­spor­to, sebbene non tut­ti ne sap­pia­no an­co­ra rin­trac­cia­re l’e­ti­mo­lo­gia.