Pittori di mare

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    I marinai del Colosseo

    di Antonio Cimmino

    Le naumachie
    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Le naumachie erano simulazioni di battaglie navali svolti, in appositi bacini naturali o allagati per la circostanza, a scopo di divertimento, dove si rievocavano famose battaglie storiche.
    naumacharii erano in genere prigionieri di guerra o condannati a morte che dovevano guerreggiare indossando le tipiche armature del paese rappresentato, incitati alla lotta dai pretoriani. I combattimenti così diventavano irruenti e davano agli spettatori quell’acre piacere del sangue, come nei ludi gladiatori.
    Il termine naumachiae deriva dal greco e indica sia il sito che lo spettacolo, mentre i romani chiamavano queste rappresentazioni “navalia proelia”.
    La prima naumachia di cui si ha memoria si tenne a Roma nel 46 a.C. in un lago artificiale creato nel Campo Marzio ad opera di Cesare per celebrare il suo trionfo. In quell’occasione venne simulata la battaglia tra la flotta fenicia e quella egiziana. Parteciparono circa 6.000 figuranti ed una folla enorme giunta dalle vicine colonie accampata nelle strade e nelle piazze, così numerosa come racconta Svetonio, da provocare nella ressa la morte di diverse persone.
    Il pubblico si esaltava alla vista delle navi e delle varie fasi della battaglia proprio perché erano così rare e facevano sfoggio della più raffinata evoluzione tecnica molto più di quella utilizzata negli altri ludi romani.
    Lo scopo dei ludi romani e del loro vasto consenso popolare era quello di tenere il popolo ben nutrito (attraverso la distribuzione gratuita di derrate alimentari a volte integrate con somme di denaro) e ben occupato con sempre maggiori divertimenti e spettacoli per evitare ribellioni e rivolte.
    In origine i giochi erano gestiti dai sacerdoti per questioni di culto e duravano, come le famose corse dei cavalli, solo un giorno. Dai 77 giorni di ludi proclamati ufficiali tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero si arrivò nel quarto secolo a ben 177 giorni all’anno dedicati agli spettacoli.
    Pane et circenses” (pane e divertimento come oppio di massa per gettare interi popoli nell’impotenza politica) era la formula coniata dal poeta satirico Giovenale che se ne servì per stigmatizzare la politica degli imperatori romani nei confronti dei loro sudditi.
    La naumachia di Cesare in effetti aveva stravolto il senso delle proporzioni dello spettacolo per la sua maestosità, per il contenuto storico e soprattutto per l’onerosità dei costi ma ai romani piacque così tanto lo spettacolo che nel corso degli anni si tennero altre di queste rappresentazioni.
    Lo stesso Augusto, attento conoscitore delle vicende politiche e del suo popolo, organizzò altre naumachie facendo costruire un grande complesso monumentale circondato da portici ed arricchito da opere d’arte, per lo più bottini di guerra, per celebrare la potenza della flotta romana di suo genero Agrippa (ammiraglio della flotta e costruttore del Pantheon).
    Per la prima volta dai tempi di Gaio Duilio, vincitore contro Cartagine, un ammiraglio veniva celebrato più di un generale di terra e per questo motivo l’orgoglio dei romani per la loro flotta veniva raffigurato nella naumachia di Augusto.
    Per avere un senso dello proporzioni Augusto e Domiziano fecero scavare un bacino artificiale vicino alla riva del Tevere (nella zona di Trastevere nei pressi della Chiesa di San Cosimato a Roma) lungo circa 550 metri e largo 360; un acquedotto costruito per portare l’acqua dal lago di Martignano (vicino al lago di Bracciano) lungo 33 Km capace di scaricare 180 litri di acqua al secondo per un ammontare di circa 200.000 metri cubi utili per riempire in 15 giorni la naumachia; un canale di collegamento tra il Tevere e la naumachia per permettere l’accesso delle navi impegnate nella battaglia; 30 navi rostrate biremi e trireme; 3.000 raffiguranti più i rematori ed un imponente servizio di guardia in ogni laddove per evitare che i ladri approfittassero dell’assenza dei romani per compiere saccheggi.
    Tutto questo nel 2 a.C. per celebrare la festa per l’inaugurazione del Tempio di Marte Ultore e simulare la battaglia di Salamina tra persiani ed ateniesi.
    Lo spettacolo aveva stravolto il senso delle proporzioni ma il popolo non piangeva le vittime ne tanto meno criticava l’incredibile costo della naumachia. I romani erano entusiasti di Augusto nonostante avesse sperperato più denaro del suo padre adottivo: Cesare.
    Oltre alle naumachie citate si ricordano nel Campo Marzio la naumachia di Caligola e Domiziano e nelle vicinanze del mausoleo di Adriano la naumachia vaticana e quella fatta tenere da Filippo l’Arabo per le feste commemorative del millenario di Roma (questa sembra sia stata l’ultima naumachia eseguita). Nerone fece riempire con acqua di mare un anfiteatro in legno immettendo anche pesci e animali marini. Dopo la rappresentazione della naumachia  venne fatta defluire l’acqua e nell’arena ormai asciutta si fronteggiarono gruppi di gladiatori.
    Anche Tito volle ulteriormente perfezionare l’arte della naumachia in occasione dell’inaugurazione del Colosseo e ne fece allestire due: la prima dentro il Colosseo stesso con cavalli, tori e altri animali equipaggiati sia per il movimento nell’acqua che sulla terra per ricordare la battaglia tra Corfù e Corinto; nella seconda, sul lago artificiale di Augusto, per ricordare la vittoria degli ateniesi sui siracusani venne allestita una piccola isola dove i naumacharii vi sbarcarono e successivamente la espugnarono. Particolarmente famosa è rimasta la naumachia fatta organizzare da Claudio nel 53 d.C. sul lago Fucino per celebrare il termine dei lavori della costruzione dell’emissario del Liri fatto costruire per la grande bonifica del luogo. Sebbene lontano oltre 100 Km da Roma l’evento richiamò un foltissimo pubblico dalle città vicine e da tutta la capitale. Sul lago Fucino era stata organizzata la più maestosa delle battaglie navali mai organizzata tra la flotta rodiese e la flotta siciliana. Si affrontavano su 100 navi 19.000 guerrieri, probabilmente criminali, che come racconta Tacito “combatterono con un coraggio degno di soldati valorosi non risparmiando né se stessi né gli avversari”, mentre sulle rive erano appostati i pretoriani pronti ad intervenire contro quei combattenti che si mostravano incerti o riottosi. Un tritone d’argento appariva in mezzo al lago al momento opportuno per dare con la tromba il segnale della battaglia.
    Queste battaglie dovevano costare ingenti somme sia per l’organizzazione della battaglia stessa, sia per l’allestimento dello specchio d’acqua in cui si dovevano svolgere questi combattimenti. Per le enormi spese, per difficoltà tecniche e per motivi igienici a causa dei miasmi provocati dalle acque stagnanti, le naumachie non venivano rappresentate frequentemente come le altre forme di spettacolo ma soltanto per celebrazioni eccezionali. In seguito le naumachie non vennero quasi più organizzate forse perché era diventato impossibile competere con la maestosità di quelle precedenti ma, molto più probabilmente, a causa delle voragini aperte da queste stravaganti rappresentazioni nelle casse statali e nelle casse private di ricchi e imperatori.

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    1.4.1906, entra in servizio la regia nave Benedetto Brin

    di Antonio Cimmino
    foto di Carlo Di Nitto

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    … alla memoria di Pietro Pagni e dei Marinai della regia nave Benedetto Brin.

    bollo-postale-della-regia-nave-brin-www-lavocedelmarinaio-comL’Italia, all’inizio del secolo tentò di mettersi in carreggiata con le altre nazioni marittime costruendo nuove e grandi navi da guerra. L’Inghilterra, infatti, già possedeva 29 unità di tonnellaggio maggiore, 6 gli Stati Uniti, 4 il Giappone, 2 la Francia e 2 la Russia.
    L’avvio della costruzione delle due navi da battaglia Regina Margherita e Benedetto Brin si inseriva appunto in tale tendenza.
    La corazzata Regina Margherita, gemella della Brin, già era stata impostata nel 1898 nell’Arsenale di Spezia. Le due unità, classificate navi da battaglia, erano state elaborate dell’Ispettore del Genio Navale Benedetto Brin e, alla morte di questi, riprese con le dovute modifiche, dal Generale del Genio Navale A. Micheli.
 Le due corazzate erano ottime unità sia per la loro velocità e sia per protezione ed armamento, nonché per l’abitabilità degli alloggi per l’equipaggio.
    A causa di ritardi tecnici e burocratici, il varo si protrasse di qualche mese e la nave, sullo scalo, aumentò di peso perché i lavori continuavano. Era la prima volta che si varava una nave con un peso così grande e non poche preoccupazione sorsero tra i tecnici per la buona riuscita delle delicate operazioni di varo.
    Durante la permanenza dell’unità sullo scalo di costruzione, il Re visitò il cantiere per rendersi conto sull’andamento dei lavori e tornò successivamente l’anno dopo per la cerimonia del varo.

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    La Domenica del Corriere del 1 novembre 1900 nell’articolo “Il Re visita la “Benedetto Brin”, così scriveva:” Insieme all’ospite e cognato suo, il principe Francesco di Battenberg, martedì della settimana scorsa S.M. il Re si è recato a bordo del “Marcantonio Colonna”, da Napoli a Castellamare di Stabia, dove in quel cantiere navale procedono alacremente i lavori di costruzione della più grande corazzata che vanterà fra qualche anno la nostra Marina da guerra: la “Benedetto Brin”.

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    (…) l’accennata visita del Re al cantiere di Castellammare fu pretesto d’una entusiastica dimostrazione da parte di tutti gli operai addetti alla costruzione della corazzata. Essi accolsero e seguirono nel suo giro il giovane Re con interminabili applausi.
La Tribuna Illustrata della Domenica del 17 novembre 1901, in occasione del varo, scriveva:” La nostra industria navale ha celebrato un nuovo e splendido trionfo: dal cantiere di Castellammare, alla presenza dei Sovrani, la corazzata di prima classe Benedetto Brin è stata felicemente varata il 7 del corrente mese, e ora lo scafo immenso galleggia; maestoso gigante, sulle onde in attesa che l’allestimento venga a completare l’opera e dotare la flotta italiana di una nuova e potente unità.
(…) il piano della nave è dovuto all’ispettore del genio navale comm. A. Micheli; iniziato dapprima secondo le idee del compianto ministro Brin, poco tempo prima della perdita del valoroso ingegnere, dovette in seguito essere radicalmente modificato dall’autore, sotto il ministro Palumbo. (…) La nave in carico normale porta una provvista di combustibile di 1000 tonnellate, colla quale provvista ha un raggio d’azione di circa 5000 miglia alla velocità economica di 10 miglia per ora. È capace però di portare altre 1000 tonnellate di carbone di riserva, raddoppiando allora il suo raggio d’azione. I carbonili sono disposti in modo che il combustibile concorra alla protezione delle parti vitali della nave. Lo scafo è costruito interamente in acciaio dolce Martin-Siemens …; è suddiviso internamente con numerose paratie longitudinali e trasversali; è munito di doppio fondo esteso per tutto il tratto occupato dall’apparato motore e dai depositi di munizioni. (…) L’uso del legno, in vista del pericolo d’incendio in combattimento è stato del tutto escluso, rimanendo solo lo sfasciamento del ponte di coperta, che non implica sotto questo riguardo pericolo di sorta”. 
La Domenica del Corriere del 17 novembre 1901 così scriveva:” Della grande corazzata Benedetto Brin, che fu varata giovedì della settimana scorsa. A Castellamare, abbiamo parlato in precedenza…

    regia-nave-brin-adaggiata-sul-fondo-www-lavocedelmarinaio-comAbbiamo riprodotto una fotografia che mostrava la Brin su lo scalo, pronta ormai per essere lanciata in mare. Ora godiamo annunciare che il varo è avvenuto senza che si producesse il più lieve inconveniente. I differenti lavori necessari a liberare l’immane scafo durarono meno di mezz’ora; e dal taglio delle cosiddette trinche, che dopo abbattuti i puntelli costituiscono l’unico ed ultimo ritegno alla immersione in mare non passarono che due minuti. Le notizie relative al varo della Benedetto Brin erano stavolta attese con una certa trepidazione, perché occorre sapere che nessuna altra nave da guerra aveva mai prestato sin qui tanto rischio.
Al momento del varo la Benedetto Brin spostava infatti oltre settemila tonnellate, mentre la Dandolo fu varata con 4100 tonnellate di materiale, la Lepanto con 4200, la Umberto I con 4400 e la Regina Margherita, gemella della Brin e scesa in mare nella primavera scorsa, con 6000, questa differenza di peso dipese dal fatto che essendosi ritardato per diverse ragioni il varo, i lavori a bordo seguitarono senza tregua rendendo così più pesante lo scafo al momento del varo“.
 Sempre dalla Tribuna Illustrata del 17 novembre si legge: Riguardo alla protezione di corazza, la nave si può definire come una nave a cintura completa e cittadella centrale corazzata, con ponte cellulare di protezione corazzato ai fianchi, con ridotti circolari e cupole pei cannoni da 305, con casematte pei cannoni da 203. La protezione è completata da strati orizzontali di lamiera di acciaio duro speciale ricoprenti dal di sopra tutte le parti protette da corazze verticali. Le corazze della cintura hanno la grossezza di 15 cent. ridotta a 10 soltanto verso le estremità; eguale grossezza di 15 cent si ha per le murate della cittadella (corridoio e batteria) e per le pareti esterne delle casematte, laddove le traverse a maggiore difesa contro i tiri d’infilata, hanno la grossezza di 20 cent. Hanno pure la grossezza di 20 cent le corazze dei ridotti circolari. Le parti inclinate del ponte di protezione sono coperte da piastre della grossezza di 8 cent., mentre la parte piatta centrale è coperta da grosse lamiere di acciaio duro. Al di sotto della cintura di corazza è stato studiato ed applicato un sistema speciale di struttura rinforzata a difesa contro le armi subacquee…”

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    Caratteristiche ed attività
    In pochi anni la propulsione a vapore era passata da 2 cilindri posti in posizione orizzontale a tre verticali che meglio potevano utilizzare il vapore a pressione maggiore prodotte dalle caldaie. Sul Brin erano stati montati due motori alternativi a vapore a triplice espansione con cilindri ad alta, media e bassa pressione, alimentati da ben 28 caldaie. La potenza complessiva delle motrici era trasmessa, attraverso due linee d’assi, alle due eliche propulsive.
    Benedetto Brin progettista dell’unità varata dopo la sua morte, aveva sacrificato la corazzatura protettiva a favore della velocità che poteva raggiungere i 20 nodi. Più che una corazzata da battaglia, la si poteva considerare come un incrociatore corazzato. La corazza verticale della cintura, inoltre, era perforabile da un colpo di cannone da 305 mm sparato da una distanza di 15-20 chilometri oppure da 10 chilometri con un angolo di impatto di 40°. Cannoni di calibro minore la potevano perforare con tiro perpendicolare da 10 chilometri per un pezzo di 203 mm e 5 chilometri per uno da 152 mm.
    L’armamento del Brin era composto principalmente da tre tipo di cannoni di grosso-medio calibro.
    Quattro cannoni da 305 mm erano in due torri binate, poste una in caccia e l’altra in ritirata, con una cadenza di colpi di 1 al minuto. Il proiettile pesava 417 chili e con una velocità di 780 metri l secondo. I pezzi da 203/45 mm erano posti in coperta ed alloggiati in casematte, mentre i cannoni da 152 mm erano sistemati 6 per lato in appositi ridotti. Altri 24 pezzi di calibro minore più 2 mitraglie in funzione antitorpediniere, erano distribuiti in vari punti della nave. I tubi lanciasiluri erano sistemati 2 sotto la linea di galleggiamento e 2 sopra.

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    La nave, completata il 1° settembre 1905, entrò in servizio il 1° aprile 1906 ed a Spezia ricevette la bandiera di combattimento.
    Partecipò alla guerra italo-turca. Il 19 aprile del 1912, unitamente alle navi Saint Bon, Filiberto, Regina Margherita ed agli incrociatori Ferruccio, Amalfi e Pisa bombardò gli Stretti dei Dardanelli; il 24 dello stesso mese fornì un contingente di marinai per occupare l’isola di Rodi.
    Inquadrata nella II Divisione, I Squadra formata dalla unità gemella Regina Margherita e dalle navi Filiberto e Saint Bon, nonché da un gruppo di siluranti, scortò un convoglio di navi che trasportava armi e soldati ( piroscafi Sannio, Europa, Verona, Toscana, Bulgaria, Cavour e Valparaiso) e partecipò al bombardamento di Tobruch ed alla sua occupazione, nonché alle operazioni contro Bengasi e la Cirenaica.
    Lunedì 27 novembre 1915 ad appena quattro mesi dall’inizio delle ostilità, alle ore 8,00 si udì un violentissimo boato e la nave, ormeggiata nel porto medio in prossimità della spiaggia di Marimist, si inabissò lentamente per lo scoppio della santa barbara.
    Uno spettacolo spaventoso di presentò agli occhi dei presenti. La torre poppiera fu scagliata in aria, mentre il fumaiolo e l’albero di poppa, frantumati in piccoli pezzi ricadeva in mare attorno al colosso agonizzante.
    In considerazione dell’ora della tragedia, tutto l’equipaggio si trovava a bordo e dei 943 uomini che in quel momento erano imbarcati, ne morirono 456 dilaniati dagli scoppi, schiacciati dai crolli dei ponti e delle paratie, inabissati con la nave. Trovarono la morte anche l’Ammiraglio di Divisione Ernesto Rubin de Cevin ed il Comandante della nave Capitano di Vascello Gino Fara Forni.

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    Fausto Leva, un testimone oculare così descrisse la catastrofe:” …nel fumo denso si distinse per un momento la massa d’acciaio della torre poppiera dei cannoni da 305 mm., che lanciata in aria dalla forza dell’esplosione fino a metà della colonna, ricadde poi violentemente in mare, sul fianco sinistro. Pochi momenti dopo, dissipato il nembo del fumo, lo scafo della B.Brin fu veduto appoggiarsi senza sbandamento sul fondo di dieci metri e scendere ancora lentamente, formandosi un letto nel fango molle. Mentre la prora poco danneggiata si nascondeva sotto l’acqua che arrivava a lambire i cannoni da 152 della batteria, la parte poppiera completamente sommersa appariva sconvolta e ridotta ad un ammasso di rottami. Caduto il fumaiolo e l’albero di poppa, si erge ancora dritto e verticale l’albero di trinchetto” (Teodoro G. Andriani, La base navale di Brindisi durante la grande guerra, 1993).
    La folla muta assistette al recupero dei corpi dilaniati e a dei superstiti che furono raccolti dalle imbarcazioni delle altre navi, italiane e francesi presenti nel porto, e portati nelle loro infermerie, nell’ospedale della Croce Rossa e nell’Albergo Internazione, subito adibito ad infermeria d’emergenza.
    La Marina emanò un comunicato nel quale si asseriva che la nave era affondata per lo scoppio del deposito munizioni. Furono ipotizzate varie ipotesi da una apposta Commissione d’inchiesta:
    – il lancio di un siluro da parte di un sommergibile austriaco (subito scartato in quanto l’ingresso del porto mera protetto da rete antisommergibile);
    – la santa Barbara, non adeguatamente coibentata, era troppo vicino alla sala macchine e la paratia stagna poppiera non era stata in grado di fermare il calore che non veniva adeguatamente disperso dai ventilatori, provocando lo scoppio, per autocombustione della balistite, un potente esplosivo che esplodeva senza produrre fumo (nei giorni seguenti tutta la balistite fu sbarcata dalle altre navi);
    – un sabotaggio da parte di traditori italiani ed elementi del servizio segreto austriaco.

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    Si optò per la terza ipotesi in quanto nel corso dell’anno si erano verificati diversi sabotaggi ad impianti militari ed industriali (fabbrica di dinamite di Genova; centrali idroelettriche ed hangar per dirigibili ad Ancona; incendi di magazzini nei porti di Napoli e Genova).
    Il successivo sabotaggio della corazzata Leonardo da Vinci avvenuto nel porto di Taranto la notte del 2 agosto 1916, creò nell’opinione pubblica italiana un certo sconforto. La nave consegnata due anni prima esplose a cause di bombe ad orologeria collocate dai sabotatori nelle ceste del vitto per l’equipaggio. Nello scoppio morirono 209 persone; il comandate Sommi Picenardi morì due giorni dopo per le ferite riportate.
    La frequenza dei sabotaggi mise in allerta il controspionaggio della Marina nella persona del Capitano di Vascello Marino Laurenti che riuscì a scoprire che la centrale nemica era presso il consolato austriaco di Zurigo nella persona del falso console Capitano di Corvetta Rudolph Mayer.
Fu organizzata una task force composta dal Capitano di Corvetta Pompeo Aloisi, dal marinaio Stenos Tanzini e dagli agenti segreti Salvatore Bonnes, Ugo Cappelletti, Remigio Bronzin, nonché lo scassinatore Remigio Bronzin, fatto uscire appositamente dal carcere di Livorno.
    Il gruppo si recò in Svizzera e riuscì a trafugare dalla cassaforte del consolato austriaco materiale compromettente più l’elenco delle spie e degli agenti segreti operanti in Italia. Si appurò che si stava brigando per far saltare anche la nave da battaglia Giulio Cesare nel porto di Spezia.
    Con tale azione fu debellata una pericolosa rete di sabotatori che stavano mettendo in serio pericolo le sorti della guerra sul mare.

    Marinai decorati con Medaglia di Bronzo al Valor Militare
    Guardiamarina Ludovico Albert – “Guerra italo-turca” – 5.11.1911;
    Capo Torped. 1° cl. Cesare Martelli –“Guerra italo-turca” – 5.11.1911;
    Guardiamarina Pietro Carlani – Affondamento dell’unità nel 1915;
    Guardiamarina Ludovico A. Scaccia di Monte Argentario – Tripoli – 5.11.1911;
    Capo Torp 1° cl. Cesare Martelli – Tripoli – 5.11.1011.

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    Scheda tecnica
    Corazzata da battaglia BENEDETTO BRIN;
    Motto della nave: PER INGENIO VIRTUS ( Il valore è pari all’ingegno);
    Progettata: Benedetto Brin;
    Classe: Regina Margherita;
    Impostata: 30 gennaio 1899;
    Varata: 7 novembre 1901;
    Completata: 1° settembre 1905;
    In servizio: 1° aprile 1906;
    Dislocamento: 14.974 tonn. ( a pieno carico) – 13.427 (normale);
    Lunghezza: 138,60 metri (fuori tutta) – 130,00 metri (fra le perpendicolari);
    Larghezza: 23,80 metri;
    Immersione: 8,90 metri;
    Apparato motore: 28 caldaie – 2 gruppi alternativi a cilindri a triplice espansione – 2 eliche;
    Potenza: 20.475 cavalli vapore;
    Combustibile: 1.000 tonnellate di carbone;
    Velocità massima: 20 nodi;
    Autonomia: 9.000 miglia a 10 nodi – 1.700 miglia a 19 nodi;
    Protezione: verticale 150 mm. – ponte 80 mm. – artiglierie 22050 mm – torrione 150 mm;
    Artiglieria: 4 cannoni da 305/40 mm – 4 cannoni da 205/45 mm – 12 cannoni da 152 mm – 20 cannoni da 76 mm – 2 cannoni da 47 mm – 2 cannoni da 37 mm – 2 mitragliere – 4 tubi lancia siluri da 450 mm;
    Equipaggio: 800 uomini circa;
    Destino: affondata nel 1915.

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    In memoria di Pietro Pagni

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    La versione ufficiale della Marina Militare
    segnalata da Claudio Confessore

    Egregio sig. Ezio,
    Il 27 settembre 1915 affondò nel porto di Brindisi la corazzata Benedetto Brin. Io ho sempre detto che dai documenti consultati ciò non corrispondeva al vero e che quella del sabotaggio era solo un’ipotesi, la migliore però da diffondere e sostenere in tempo di guerra. Finalmente la Marina Militare ha ufficialmente dichiarato che:
    … “Come ormai acclarato, si trattò di una disgrazia non diversa da quelle accadute in altre marine da guerra dell’epoca: la causa dell’affondamento era infatti da attribuire ai nuovi esplosivi utilizzati per le cariche di lancio e di scoppio che, indispensabili e sempre più potenti, erano stati introdotti da troppo poco tempo perché se ne conoscessero tutte le caratteristiche relative alla loro stabilità.” …
    La notizia è riportata al seguente link: http://www.marina.difesa.it/storiacultura/storia/accaddeil/Pagine/1915_09_27.aspx

    Accadde il 27 settembre 1915
    Le “due vite” della nave da battaglia Benedetto BRIN

    motto-regia-nave-benedetto-brin-www-lavocedelmarinaio-com_Varata a Castellammare di Stabia nel 1901, la corazzata Benedetto Brin fu indiscutibilmente una tra le più belle, efficienti e grandi unità italiane d’inizio secolo.

    La nave partecipò a tutte le attività e operazioni che interessarono il nostro Paese nell’arco temporale della sua vita operativa, conclusasi, ma solo in apparenza, il 27 settembre 1915 quando, alla fonda nella rada di Brindisi, alle 8 del mattino affondò per un’improvvisa esplosione del deposito munizioni di poppa.
    La torre poppiera da 305 mm lanciata in aria si abbatté sul fianco sinistro della nave e la parte poppiera dello scafo, ridotta ad un ammasso di rottami, si immerse rapidamente, trascinando la nave sul fondo. 9 gli ufficiali e 473 i sottufficiali e i marinai superstiti, un centinaio dei quali feriti; 21 ufficiali e 433 i sottufficiali e i marinai caduti, tra i quali l’ammiraglio Rubin de Cervin e il comandante Fara Forni.
    Come ormai acclarato, si trattò di una disgrazia non diversa da quelle accadute in altre marine da guerra dell’epoca: la causa dell’affondamento era infatti da attribuire ai nuovi esplosivi utilizzati per le cariche di lancio e di scoppio che, indispensabili e sempre più potenti, erano stati introdotti da troppo poco tempo perché se ne conoscessero tutte le caratteristiche relative alla loro stabilità.

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    La storia del Brin non fu però improvvisamente spezzata dall’affondamento della nave; una nuova e trasfigurata vita lo attendeva: grazie all’abilità e all’ingegno degli uomini di Marina, vide il recupero ed il reimpiego di alcune sue parti, impiegate strategicamente a difesa della costa italiana durante il primo conflitto mondiale. Infatti, il Brin era da considerarsi superato per l’epoca ma non i suoi cannoni, che andarono ad alimentare un nuovo tipo di unità: i cosiddetti Pontoni Armati inquadrati nel gruppo “E” che, insieme ad altri mezzi del tutto fuori dagli schemi per i progettisti “puri”, avrebbe inciso profondamente sulle sorti della guerra. Una guerra che gli uomini del Brin, a bordo della nave, prima, e attraverso i suoi indistruttibili cannoni, dopo, gloriosamente vinsero!

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    27.9.1915, Benedetto Brin una nave da battaglia sfortunata. Dove sta la verità?

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    1.4.1942, affondamento della regia nave Giovanni Delle Bande Nere

    a cura Pancrazio “Ezio” Vinciguerra, Carlo Di Nitto, Pasquale Mastrangelo, Stefano Piccinetti, Francesco Venuto, Claudio Spanò, Giorgio Eterno, Michael Locci.

    La regia nave Giovanni Delle Bande Nere era un incrociatore leggero varato presso i cantieri navali di Castellammare di Stabia (Napoli) il 27.4.1930.
    La nave fu affondata dal sommergibile Urge il 1° aprile 1942 a largo dell’isola di Stromboli.

    Giovanni D’Adamo
    a cura Carlo Di Nitto 

    Marinaio Cannoniere Giovanni D’Adamo, di Tommaso e di De Meo Maria Civita, Croce di Guerra al V.M., disperso nell’affondamento del Regio Incrociatore “Giovanni delle Bande Nere” il 01 aprile 1942.
    L’unità, colpita da due siluri lanciati dal Smg. inglese Urge, si spezzò in due tronconi ed affondò immediatamente con gran parte dell’equipaggio. Mar Mediterraneo, a circa miglia 11 per 144° dall’isola di Stromboli.
    Era nato il 19 giugno 1920 a Castellonorato.
    (foto p.g.c. della Famiglia)

    Tancorre Vincenzo, marinaio di una volta come me, come noi…

    di Pasquale Mastrangelo

    Carissimo Ezio,
    come promesso giorni fa, ti allego una scheda riepilogativa relativa al Meccanico Navale Tancorre Vincenzo (mio compaesano), perito a seguito dell’affondamento della regia nave Giovanni delle Bande Nere.
Ti allego altresì un file contenente la foto da Allievo della Scuola Meccanici di Venezia, copia di una lettera inviata ad un suo amico nell’imminenza della fine del Corso da Allievo (prima di imbarcare) e della cartolina che è l’ultimo suo scritto prima dell’affondamento, praticamente sei giorni prima!
    Nel rileggere la lettera scritta al suo amico sono rimasto molto colpito dalle parole che un giovane di 19 anni sentiva di scrivere. Parole dettate dal senso di appartenenza, dallo spirito di corpo, dall’amore per le istituzioni ed il senso di Patria. Abbiamo tanto da imparare da queste frasi, soprattutto tanti giovani di questa epoca che si divertono a distruggere auto, vetrine e colpire nel cuore le Istituzioni.

    So’ per certo che saprai come tuo solito valorizzare questa grande testimonianza secondo i tuoi canoni e so’ di mettere “il tutto” nelle migliori mani possibili.
    Ho anche suggerito ad Aldo Capobianco cognato del TANCORRE (*) la tua amicizia su facebook. A lui puoi tranquillamente rivolgerti per eventuali altre informazioni al riguardo.
    Ti rinnovo i sentimenti di amicizia e stima e ti ringrazio per il privilegio di esserti amico.
    Pasquale Mastrangelo.

    Tancorre Vincenzo, nato a Gioia del Colle (Bari) il 7.7.1923. Frequentò la scuola per meccanici di Venezia. Perì a seguito dell’affondamento della regia nave Giovanni delle Bande Nere il 1° gennaio 1942. Fu dichiarato disperso il giorno successivo.
    (*) https://www.facebook.com/aldo.capobianco.54

    Nota della redazione
    Giovanni Dalle Bande Nere era un incrociatore Leggero varato a Castellammare di Stabia il 27.4.1930. Partecipò alla Guerra dei Convogli e alla Seconda Battaglia della Sirte.
    Il mattino del 1° aprile 1942 lasciò Messina diretto a La Spezia scortato dal cacciatorpediniere Aviere e dalla torpediniera Libra.
    Alle ore 09.00, a undici miglia da Stromboli, le navi vennero intercettate dal sommergibile britannico Urge.
    Un siluro spezzò in due lo scafo e l’unità affondò rapidamente, trascinando con se 381 Marinai su 507 uomini dell’equipaggio. Fra di essi c’era anche Nicola Verdoliva nato a Castellammare di Stabia il 5.12 1916 che risultò disperso in mare. Di Lui non abbiamo nessuna foto a corredo di questo articolo ma siamo certi, ovunque si trovi con i suoi Frà che non fecero più ritorno all’ormeggio, che adesso riposano in pace fra i flutti dell’Altissimo.

    Quel giorno del 1° aprile 1942
    narrato da Guido Piccinetti (*)

    Questa è la storia di Guido Piccinetti, giovane fanese classe 1919, con la passione profonda per il mare, la pesca e la cucina marinata, socio storico della nostra associazione e memoria storica della città di Fano. Il racconto è stato dettato al figlio Stefano, direttamente narrato da Guido che riviveva, con occhi lucidi, i momenti drammatici e memorabili della guerra dal 1939 al 1945.
    Vorrei ricordare mio padre, salpato per l’ultima missione il 2 luglio 2015 all’età di 95 anni.
    Penso che abbia fatto una buona vita sia come uomo che come Cristiano. Era buono e, soprattutto, era un marinaio nell’anima, dignitoso e fiero, come sono gli uomini di mare.
    Ciao Guido “Marinaio per sempre”.
    Stefano Piccinetti

    Il 15.12.1939 fui chiamato alle armi ed arruolato nella Regia Marina.
    Come prima destinazione ebbi Venezia presso le Scuole C.E.M.M. (Corpi Equipaggi Militari Marittimi), situata a Sant’Elena, dove fui addestrato ed istruito con la categoria Fuochista di Bordo.
    Dopo circa 40 giorni fui destinato a Taranto ed imbarcato sul regio cacciatorpediniere Giovanni delle Bande Nere che in quel periodo era ai lavori in arsenale nel Mar Piccolo nella base navale di Taranto.
    Stavamo rientrando da Tripoli da una scorta convogli, eravamo nel Golfo della Sirte con un forte mare al traverso e dopo qualche giorno di navigazione siamo entrati nella base navale di Messina.
    La sosta durò qualche settimana nei quali facemmo servizi di guardia, poi il Comando di bordo decise di andare a La Spezia per i danni subiti dal maltempo.
    Salpammo alle ore 06.00 del 1° aprile 1942, era una bella giornata di sole e il mare era buono. Eravamo circa all’altezza delle isole Eolie vicino Stromboli e le condizioni del mare mi invitarono a riposarmi al centro nave, così mi coricai sopra i lancia siluri. Ad un tratto sentii un gran scoppio che mi sollevò in aria, poi più nulla fino a ritrovarmi a circa 20 – 30 metri dalla nave. Al contatto con l’acqua ripresi i sensi e mi guardai intorno, vedevo solo fumo e sentivo le urla e i lamenti dei miei compagni, percepivo il sangue colarmi dalla testa e vidi una leggera ferita alla gamba destra, ma mi rassicurai capendo che non era niente di grave.
    Dopo qualche ora in balia delle onde, vidi mio cugino Ivo che era in difficoltà poiché non aveva il salvagente; nuotando faticosamente lo raggiunsi e gli diedi il mio salvagente, così ci siamo aggrappati a una latta di plastica per mantenerci a galla.
    Poco dopo la zona fu sorvolata da un aereo dell’Aviazione Italiana che ci sganciò i salvagenti individuali.
    Dopo circa 8 – 9 ore in balia delle onde, venne on nostro soccorso il regio cacciatorpediniere Maestrale, il quale ci fornì le prime cure a bordo e ci portarono a Messina dove sono stato ricoverato all’ospedale militare Santa Margherita per circa 10 giorni. Al termine del ricovero in ospedale ebbi una breve licenza per recarmi a casa per riabbracciare i miei genitori, per poi ripartire verso la nuova destinazione alla polveriera di Malcontenta provincia di Venezia. Successivamente fui fatto prigionieri dai tedeschi e deportato in Germania nel campo di concentramento per prigionieri di Fraureuth provincia di Werdau in bassa Sassonia. Ebbi la fortuna di lavorare fuori dal campo, in una falegnameria, il titolare e Sindaco del paese si chiamava Wully Smithe, fu la mia salvezza. Alla fine della guerra nell’agosto 1945 tornai in Patria.
    Questa è sommariamente la mia storia, le emozioni e le sofferenze forse non si possono cogliere in queste due righe, ma ancora oggi mi commuovo continuamente al pensiero di quello che hanno visto i miei occhi e al ricordo delle urla dei miei compagni, naufraghi di un mare senza colpa ma complice nel destino.

    (*) Nato il 20.12.1919 e residente a Fano.
    Oggi unico superstite del regio cacciatorpediniere Giovanni dalle Bande Nere, decorato con Croce al Merito di Guerra, in data 29 luglio 1947.
    Guido Piccinetti è salpato per l’ultima missione dalla sua Fano il 2.7.1915.

    1.4.1942, il sommergibile inglese Urge tagliava in due il regio incrociatore Giovanni Dalle Bande Nere
    
di Francesco Venuto

    Buongiorno Ezio,
    Le invio, se le può essere utile, un mio servizio pubblicato da Giornale di Sicilia nel 1991 e da altri giornali in seguito cordiali saluti, Francesco Venuto ex sergente radiotelegrafista (di leva).

    Questo articolo è dedicato, per grazia ricevuta, a Paolo Puglisi.

    STROMBOLI – Cinquantuno anni fa, il primo aprile del 1942, al largo dell’isola di Stromboli due siluri lanciati dal sommergibile inglese “Urge” tagliavano in due l’incrociatore “Giovanni Dalle Bande Nere”.
    Varata nel 1931, la nave effettuò, tra il 10 giugno 1940 e la data del suo affondamento, 15 missioni di guerra, percorrendo in tutto circa 35 mila chilometri. Tra gli ottocento uomini imbarcati sull’incrociatore, quel primo aprile c’era Paolo Puglisi, 75 anni, baffetti alla Clark Gable rimasti neri come ai tempi in cui stava per ore chiuso nella torretta numero 4, pronto ad azionare i cannoni del Bande Nere.
    L‘enciclopedia “La Seconda Guerra Mondiale”, curata da Arrigo Petacco, liquida in un paio di righe l’affondamento dell’incrociatore. Secondo Puglisi, in realtà, vi furono delle circostanze quantomeno sospette per cui le cose non andarono per il verso giusto. Inoltre tra i marinai superstiti dell’affondamento, si parlò con insistenza di una “spiata”, partita proprio da Messina, sui movimenti della nave e sulle sue condizioni di navigazione.

    «Il Bande Nere partecipò alla seconda battaglia della Sirte -ricorda Puglisi- Tornavamo alla base di Messina dopo una navigazione con il mare fortissimo, tanto che due caccia-torpediniere, il “Lanciere” e lo “Scirocco”, colarono a picco per il maltempo. Il nostro incrociatore era piuttosto malconcio e molte erano le avarie che il comandante Lodovico Sirta aveva dovuto annotare sul libro di bordo. Arrivammo nello Stretto con ben 48 ore di ritardo, e con la consapevolezza che il destino della nave era il bacino di La Spezia, dove sarebbero state eseguite le riparazioni.
    Così infatti fu deciso dal comando della Regia Marina Militare, e qualche giorno dopo aspettavamo con ansia l’ordine di mollare gli ormeggi. Il Bande Nere lasciò il porto di Messina il primo aprile 1942 -racconta Puglisi- dopo sei giorni di incomprensibili rinvii. Erano le sei del mattino, due caccia e alcuni ricognitori aerei controllavano che lungo la nostra rotta non vi fossero battelli nemici.

    Tutto filò liscio sino alle nove, all’ora di colazione, di solito un panino con la mortadella o il provolone.
Eravamo al largo di Stromboli, un sommergibile inglese lanciò un primo siluro, il Bande Nere si inclinò di almeno trenta gradi, un minuto dopo arrivò il secondo e definitivo lancio dell’”Urge”, la nave si aprì in due e cominciò ad affondare rapidamente. Io non ebbi il tempo di gettarmi subito in mare, come buona parte dell’equipaggio. Ero infatti ai “pezzi da 100”, proprio nella zona colpita dai siluri. Riuscii comunque a liberarmi dei vestiti e, aggrappandomi alle “traglie”, i passamano, finii sott’acqua trascinato dal risucchio della nave che stava inabissandosi. A sette-otto metri di profondità, non riuscendo ormai a risalire avevo abbandonato ogni speranza di salvarmi. La visione di mia madre e una miracolosa bolla d’aria mi spinsero di nuovo verso la superficie dove sembrava aspettarmi l’idrovolante delle nave capovolto, attorno ai cui galleggianti erano aggrappate almeno settanta persone.
Pioveva, si cercava di resistere a tutti i costi, di non mollare la presa. In molti alla fine furono vinti dalla stanchezza, dall’acqua gelida e dal dolore per le gravi ferite riportate. Cinque ore dopo arrivò il cacciatorpediniere “Libra”, che raccolse i superstiti e i marinai morti.
Il mare era diventato nero per le tonnellate di nafta fuoriuscite dai serbatoi del Bande Nere. Io fui sistemato tra i morti, perché all’atto di essere recuperato persi i sensi, la confusione del momento fece il resto. Mi svegliai tra la meraviglia dei siluristi, non ricordavo nulla, non ci vedevo più, ero diventato cieco.
    Poi mi dissero che era stata la nafta, anche il mio corpo del resto era bruciato per essere rimasto molto tempo a contatto con il carburante. Tornati a Messina, in un primo tempo non fu riconosciuta la mia infermità, ed anche per questo mi misero in prigione. Dopo qualche giorno però fui rimandato a casa, mentre agli arresti ci andò l’ufficiale che aveva ordinato la mia carcerazione. Il sole lo rividi dopo un mese».

    Elia Soriente (Torre Annuziata (NA), 12.4.1922 – Mare, 1.4.1942)
    a cura di Vincenzo Marasco(*)  e Antonio Papa – Centro Studi Storici “Nicolò d’Alagno”

    (Torre Annunziata (NA), 12.4.1922 – Mare, 1.4.1942)

    Alla lieta e cara memoria del Sottocapo Palombaro Soriente Elia, Figlio di Torre Annunziata.

    Questa altra breve storia che voglio raccontare ha anch’essa inizio a Torre Annunziata. Precisamente in quel suo comprensorio, che nei primi anni del Secolo Breve, era considerato ai locali per lo più come un luogo riservato alla borghesia locale, in quanto meno urbanizzato e lontano dal trambusto di quegli agglomerati cittadini in cui era relegato per lo più il popolo torrese.
    Così, nella nascente via Vesuvio, che agli inizi degli anni ‘20 non era altro che una piccola arteria circondata da rigogliosi giardini e su cui si affacciavano poche villette e palazzotti, che dalla industriosa Torre Annunziata menava al più rurale borgo di Trecase, il 12 aprile del 1922 da Francesco e Iovino Lucia, al civico 61, nasce Elia Soriente.
    Elia, per Francesco e Lucia era quel figlio maschio tanto atteso e voluto, considerato come un dono del cielo. Ma a parte le emozioni terrene, egli, come tanti torresi ancora oggi si considerano, nasce come figlio del mare, e attratto da quell’elemento principe in quella lingua di terra dove è cresciuto, un giorno insieme ad un suo caro amico decise di intraprendere la “Carriera”. Fu così che lui e De Santis, il cui nome non ci è dato ricordare, partirono alla volta di Taranto arruolandosi in quella gloriosa Regia Marina Italiana, considerata la regina del Mediterraneo.
    Dai racconti vivi nelle memorie dei suoi parenti, nipoti e cugini, che sono cresciuti con il suo ricordo, si apprende che i due vennero fin da subito assegnati all’equipaggio dell’Incrociatore leggero Giovanni delle Bande Nere, e che solo pochi giorni dal momento della partenza dell’unità navale per un’operazione di guerra in mare aperto, avvenuta da Messina nelle prime ore della notte del 20 marzo del 1942, i due vennero divisi: toccò al De Santis sbarcare e salire a bordo di un’altra unità navale della Marina.
    Fu così che il destino di Elia cominciò a prendere la sua forma e a manifestarsi.
    Il Giovanni delle Bande Nere, uscito dal porto di Messina, così come gli venne ordinato da Supermarina, insieme alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere, incrociò la rotta verso il Sud del Mediterraneo con lo scopo di intercettare un convoglio navale inglese partito da Alessandria e diretto verso Malta.
    L’operazione non partì sotto il buon auspicio meteorologico. Ciò è dimostrato dai notevoli ritardi accorsi sulle partenze degli incrociatori pesanti, sempre da Messina che facevano parte della stessa divisione navale, i quali a causa del forte vento da SE ebbero problemi a lasciare gli ormeggi. Ma nonostante questo l’operazione andava portata a compimento, nonostante il mare dalla mattinata del 21, montato da un fortissimo vento di Scirocco, divenisse sempre più impetuoso.
    Nella tarda mattinata del 22, l’intera Divisione Navale comandata dall’Ammiraglio Iachino, arrivata poco lontani del Golfo della Sirte, incrociò a lunga distanza il convoglio inglese. Le due squadre cominciarono così a studiarsi con manovre di grande perizia e, lì dove potevano, a scambiarsi colpi di artiglieria navale. Nonostante le condizioni meteo marine fossero in ulteriore peggioramento e rendessero difficile sia la navigazione, sia il contatto visivo tra i convogli che la precisione dei tiri dei cannoni, l’inseguimento e lo scontro tra italiani e inglesi durò per tutta la giornata.
    Alle 16.44, ad avere il primo successo fu proprio il Giovanni delle Bande Nere su cui era imbarcato Elia, che da 14.000 metri centrò con una salva da 152mm l’incrociatore inglese Cleopatra di scorta al convoglio e ammiraglia in quel frangente, arrecandogli seri danni all’angolo destro poppiero della controplancia, lì dove vi erano i sistemi di tiro contraereo. Oltre ciò, per quella salva, il Cleopatra perse 16 marinai.
    Calato il buio volse a termine anche la battaglia, passata poi alla storia come seconda battaglia della Sirte.
    Dopo il combattimento tra le due Marine fu la tempesta di Scirocco, che nel frattempo si era scatenata oltre ogni aspettativa, a rendere alla flotta italiana difficile il rientro verso Messina e Taranto.
    A soffrire più di tutti furono le navi cacciatorpediniere come la Giovanni delle Bande Neve, che per contenere il fortissimo rollio furono costrette a ridurre sensibilmente la velocità di navigazione. Ma nonostante tutti gli accorgimenti presi, i danni del maltempo causato alle unità minori furono ingenti, tanto che due di queste, la Scirocco, ironia della sorte, e la Lanciere, all’alba del 23 marzo vennero affondate dalle sferzate di un mare arrivato fino a forza 8!
    Il Giovanni delle Bande Nere, con un equipaggio già stremato dalla lunga battaglia e da una navigazione difficilissima, proseguì in libertà di manovra verso Messina, presentandosi nel primo pomeriggio del 24 alle sue ostruzioni senza non poche avarie.
    Vista la situazione precaria della nave, bisognosa di urgenti interventi riparatori, venne deciso di cantierizzarla presso La Spezia. Ed è così che la mattina del 1° aprile del 1942, effettuato il posto di manovra, il Giovanni delle Bande Nere, scortato dall’Aviere, dal Fuciliere e dal Libra – quest’ultimo subito rientrato per un’avaria – lasciano l’ormeggio di Messina per dirigersi verso la base navale spezzina.
    Ma c’era poco da stare tranquilli e l’equipaggio lo sapeva benissimo. In quel periodo nessuna navigazione poteva definirsi sicura, maggiormente per un’unità navale malconcia come lo era in quel momento il Giovanni delle Bande Nere.

    Il Sottocapo torrese Elia Soriente, che aveva stretto e sposato l’indissolubile legame col mare, lo sapeva benissimo!
    Alle 8.41 il convoglio navale italiano venne intercettato dal sommergibile britannico Urge, in appostamento nei pressi dell’Isola di Stromboli, lì dove vi era l’accesso settentrionale allo Stretto di Messina. Alle 8.54, l’Urge, già in posizione di tiro, come il cacciatore si pone di fronte alla sua preda, da una distanza di quasi 5000 metri lancia 4 siluri verso il Bande Nere. Dopo alcuni minuti una prima esplosione si verificò a centro nave, seguita da un’altra dopo nemmeno dieci secondi dalla prima: era arrivata la sua fine e con essa si stava compiendo anche il destino del nostro Elia Soriente.
    La nave colpita al cuore, nemmeno in due minuti, sbandò, si piegò nel suo centro fino a spezzarsi in due tronconi che presero la forma di due braccia alzate al cielo nel tentativo di una vana richiesta d’aiuto. Quel momento cruento durò nemmeno tre minuti e della Regia Nave Giovanni delle Bande Nere non restò più nulla se non tanti ricordi e una miriade di storie appartenenti ai suoi marinai, tra cui vi è quella del giovanissimo Elia Soriente, che sarebbe diventato ventenne da lì a qualche giorno.
    Dei 772 marinai del suo equipaggio, 381 scomparvero tra i flutti. Chi ebbe la fortuna di salvarsi, successivamente, ebbe modo poi di raccontare ogni attimo di quanto accadde in quel momento, rendendo così viva la Memoria di quei loro compagni scomparsi tra l’immensità del mare.
    Evviva il Sottocapo Palombaro Elia Soriente!

    Fonti: Archivio Anagrafe di Torre Annunziata, sez. Leva;
    www.difesa.it/Il_Ministro/Onorcaduti.it;
    www.conlapelleappesaaunchiodo.blogspot.com;
    www.regiamarina.netwww.elgrancapitan.orgwww.world-war.co.uk.
    (*) digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome per conoscere gli altri suoi articoli. 

    Vincenzo Pincin
    di Sergio Covolan

    (Campolattaro, 16.4.1923 – Mare, 1.4.1942)

    Vincenzo Pincin, nato a Campolattaro il 16 aprile 1923, era un motorista navale imbarcato sulla regia naveGiovanni Delle Bande Nere affondato nel Mediterraneo Centrale il 1° aprile 1942 alle ore 09:00. Lui fu uno dei tanti dispersi in mare.

    Vincenzo Pincin era mio cugino di secondo grado.

    Giuseppe Tumminia, mio padre (26.3.1922 – 25.10.2011)
    di Antonino Tumminia

    … riceviamo e con infinito immenso orgoglio pubblichiamo.

    Mio padre, Giuseppe Tumminia, siciliano, era uno dei Cannonieri della Giovanni dalle Bande Nere, quel 1° aprile del 1942, ( sic proprio una pesce d’aprile), era fra i naufraghi. Mi raccontava che si era salvato con altri 40 marinari sopra un pezzo di sughero che galleggiava, e rimasti per 4 ore in quel mare gelido, in attesta di essere ripescato con gli altri sopravvissuti. Sul ponte della nave che li salvò (non ricordo il nome della nave), c’erano tutti i suoi compagni morti, distesi in fila sul ponte. Le macchie di petrolio o nafta che avevano bruciato i suoi piedi rimasero lì per parecchio tempo. Quanto io, a 18 anni partii militare, mi ritrovai marinaio e fui destinato al Ministero della Difesa, a Roma, lavoravo negli uffici del Ministero, segretario dattilografo, nell’ufficio di una sezione (che ometto) con un Tenente Colonnello, un Maresciallo, un Tenente, con il loro aiuto riuscii a fare avere a mio padre la Croce di Guerra che meritava e che il Ministero non aveva mai rilasciata, forse perché mio padre non sapeva cosa fare per ottenerla, assieme a quell’attestato gli spedii una foto della “Bande Nere”; venni a sapere dopo, che pianse tanto nel rivederla, pensando ai suoi amici morti.Mio padre ormai non c’è più, ma sulla stanza dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, c’è ancora in cornice la sua Croce di Guerra, con la sua foto di allora e la Giovanni dalle Bande Nere, che mi rendono orgoglioso di mio padre, per l’uomo e il marinaio che è stato.
    Antonino Tumminia

    Gent.mo Sig. Vinciguerra
    Ringrazio Lei, per il suo interessamento per mio padre Giuseppe. E’ nato a Palermo il 26.3.1922 e nel 2011 è partito per il suo ultimo viaggio. Purtroppo io non mi trovo a Palermo perché dal 1975 mi sono trasferito nel Modenese dove attualmente risiedo, a Palermo è rimasto uno dei miei fratelli, al quale chiederò di inviarmi la foto dell’attestato della Marina Militare e una foto ritratto di mio padre di allora. Appena riceverò questo materiale sarà mia cura farle pervenire. Pere ciò che riguarda eventuale missione non ricordo nulla in merito, da quello che mi raccontava, stavano per andare per riparazioni, quando i due colpi di siluro del Surge, affondarono la Bande Nere, mio padre fortunatamente si trovava sul ponte ed è riuscito a tuffarsi appena in tempo, proprio mentre la nave si spaccava in due tronconi e affondava verticalmente. Mi ha raccontato molte cose della sua vita militare e di quando è stato prigioniero dei francesi e delle umiliazioni subite da lui e dagli altri italiani, ma ho vergogna a raccontarle degli sputi ricevuti dai francesi  mentre, prigionieri, in corteo, sfilavano  per le vie e dai balconi i nostri cugini francesi gli sputavano addosso, al punto che arrivati a destinazione erano proprio bagnati. Riguardo stazionamenti o trasferimenti non so dirle nulla, per certo so che stava a Messina, perchè mi raccontava che scaricavano i bossoli dalla nave sul molo a Messina (dove c’è ancora oggi la base navale, Martello Rosso o qualcosa di simile… dove anch’io sono stato solo per 15 giorni prima del mio congedo) Il suo imbarco è stato il primo ed unico,  con la categoria  di Cannoniere, appena in tempo per  imparare a sparare,  …con la bocca aperta per non farsi saltare i denti daii contraccolpi delle cannonate.Appena possibile le invierò i materiali.
    Un Cordiale saluto. Antonino TUMMINIA.

    Gent.mo Sig. Vinciguerra,
    Spesso mi rivedo accanto a  mio padre, ad ascoltare i suoi racconti di guerra,  della sua prigionia, e dei posti visitati, e non ricordo tante cose, ma alcune mi sono rimaste impresse nella mente, magari sono dei flash, ma sono immagini che ancora navigano nella mia mente. Ricordi di umanità,  anche di sorrisi, d sofferenze e di furbizie per sopravvivere in campi di prigionia. Credo che lo shock di quel naufragio se le portato addosso come un vestito nero, come un lutto perenne, per la sua bella nave e l’umanità dei suoi compagni. Ironia della vita, l’ultima notte della sua vita, trascorsa in ospedale,  passata a raccontare, al dottore di turno, storie di marinaio della Bande Nere, il dottore stesso, meravigliato della sua improvvisa dipartita, ci raccontò, che  trascorse molto tempo a parlare della guerra, all’alba, si è imbarcato per l’ultimo viaggio, questa volta non doveva stare ai cannoni e non doveva sparare, viaggiava verso l’amore e la luce, dove troviamo tutti quelli che ci hanno amato e una schiera di amici, in parata militare, che lo aspettano a bordo di una anima d’amore.                                                                                                                                                                          Antonino Tumminia 

    Caro Ezio, un anno il 2020 purtroppo con un mare agitato, sperando che questo mare si calmi lasciandoci navigare con serenità, colgo l’occasione  di inviarti i più sinceri.
    Ti allego un’illustrazione che ho realizzato modificando un disegno del Bande Nere, che come tu sai ci sono legato per mio padre che era cannoniere su questo incrociatore. Un abbraccio e cari saluti e auguri per tutti i tuoi lettori della Voce del Marinaio da  Antonino Tumminia.

    Filippo Lo Piparo
    di Claudio Spanò

    (Bagheria (PA), 8.10.1920 – Mare, 1.4.1942)

    … riceviamo e con immenso orgoglio e commozione pubblichiamo.

    Buonasera,
    Filippo Lo Piparo era mio prozio, fuochista della regia nave Giovanni Delle Bande Nere e perito l’1.4.1942 nell’affondamento (disperso). Abbiamo da poco trovato queste foto che le invio, chissà che qualcun altro riesca a riconoscere i marinai che sono con lui in foto, con tutta probabilità anch’essi sulla stessa nave. Filippo è quello in basso a sinistra. Gli altri non so. Se le fa piacere può pubblicare queste foto nel suo sito.

    Era nato a Bagheria (PA) l’8.10.1920.
    Grazie per il suo lavoro di memoria.
    Cordiali saluti.

    Nota
    Sull’elenco dei Caduti e Disperi della Marina Militare èriportato il cognome Lo Pipero.

    Si consiglia la lettura del seguente link:
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2021/04/1-4-1942-affondamento-della-regia-nave-giovanni-delle-bande-nere-4/

    Michele Ranaudo (San Martino in Pensilis (CB), 5.3.1922 – Mare, 1.4.1942)
    a cura Vincenzo Campese (*)

    (*) per conoscere gli altri suoi articoli digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome.

    Salvatore Eterno
    di Giorgio Eterno

    (Vittoria, 28.6.1919 – Mare, 1.4.1942)

    Salvatore Eterno, nato a Vittoria il 28 giugno 1919, imbarcato sulla regia nave Giovanni Giovanni Delle Bande Nere, affondata a largo dell’Isola di Stromboli, risultò disperso il 1° aprile 1942.
    Onori.


    Nota della redazione
    Giovanni Dalle Bande Nere era un incrociatore Leggero varato a Castellammare di Stabia il 27.4.1930. Partecipò alla Guerra dei Convogli e alla Seconda Battaglia della Sirte.
    Il mattino del 1° aprile 1942 lasciò Messina diretto a La Spezia scortato dal cacciatorpediniere Aviere e dalla torpediniera Libra.
    Alle ore 09.00, a undici miglia da Stromboli, le navi vennero intercettate dal sommergibile britannico Urge.
    Un siluro spezzò in due lo scafo e l’unità affondò rapidamente, trascinando con se 381 Marinai su 507 uomini dell’equipaggio.

     

    Fiorenzo Locci
    di Michael Locci

    (Monastir 12.4.1918 – Mare, 1.4.1942)

    … riceviamo e con immenso orgoglio misto a commozione pubblichiamo.

    Salve,
    sono Michael Locci pronipote del Sottocapo Cannoniere Fiorenzo Locci  deceduto il 1° aprile 1942 sul regio incrociatore Giovanni delle Bande Nere.


    Vorrei inviarli delle foto, come scopo storico e anche per ricordarlo…
    Vi ringrazio anticipatamente.


    Lo zio era nato a 
    Monastir il 12 aprile 1918.
    Saluti.

     

    Vittore Raccanelli (Venezia, 4 luglio 1904 – Mar Tirreno, 1º aprile 1942)
    a cura Antonio Pisanelli (*)

    (Venezia, 4 luglio 1904 – Mar Tirreno, 1º aprile 1942)

    Comandante in seconda del regio incrociatore leggero Giovanni dalle Bande Nere, su cui morì nel grado di Capitano di Fregata.

    Vittore Raccanelli nacque a Venezia il 4 luglio 1904, figlio di Silvio e Lucia Furlan. Arruolatosi nella Regia Marina frequentò la Regia Accademia Navale di Livorno conseguendo la nomina di guardiamarina  il 4 dicembre 1924. Proseguì la carriera con incarichi d’imbarco o a terra venendo promosso Tenete di Vascello il 1º luglio 1929. Quindi prese imbarco sulla regia nave Leone nel 1930, sulla nave appoggio sommergibile Antonio Pacinotti, quale ufficiale in 2^ nel 1931. Perfezionò il brevetto di idoneità al servizio elettrico e radiotelegrafico a bordo (qualifica E) presso la Regia Accademia Navale di Livorno nel 1932. Passò quindi sulla corazzata Andrea Doria nel 1933 e a Mogadiscio, quale aiutante bandiera del comandante del locale comando marina nel 1934. Eseguì il tirocinio per ufficiali in seconda sul sommergibile Balilla dal 5 novembre 1935.
    Divenuto comandante del sommergibile Galatea, con la sua unità partecipò clandestinamente alla guerra di Spagna, eseguendo una singola missione, dal 22 agosto al 5 settembre 1937; nel corso di tale missione cercò di silurare più volte diversi mercantili al largo di Tarragona, senza risultati.. Conseguì nel frattempo la promozione a capitano di corvetta, il 12 agosto 1937.
    Assunse il comando del sommergibile Enrico Tazzoli sin dal principio della guerra. Si trasferì col battello nella base atlantica di Bordeaux (Betasom) sin dall’autunno 1940, partendo da la Spezia il 2 ottobre. Il 12 seguente al largo di Capo San Vincenzo affonda il piroscafo iugoslavo Orao (5135 t.), al servizio degli inglesi. Il Tazzoli entrò a Bordeaux il 24 ed iniziò subito un turno di lavori. Il 5 dicembre, promosso capitano di fregata, cede il comando del Tazzoli al capitano di corvetta Carlo Fecia di Cossato, su cui diventerà un famosissimo asso, e passò al comando del sommergibile Reginaldo Giuliani, trasferito ed impegnato a Gotenafen (attuale Gdynia) in Polonia, per l’addestramento del personale italiano sui nuovi metodi di guerra al traffico oceanico.
    Nell’aprile 1941, promosso capitano di fregata, venne assegnato quale comandante in seconda dell’incrociatore leggero Giovanni dalle Bande Nere, sul quale parteciperà intensamente alle attività di squadra e di scorta ai convogli nel periodo 1941-1942, tra i più intensi di tutta la guerra.
    Prese parte anche alla seconda battaglia della Sirte, avvenuta il 22 marzo 1942, nel cui scontro il Bande Nere colpì con un suo proietto da 152 mm l’incrociatore inglese Cleopatra, unità di bandiera dell’ammiraglio Philip Vian, e per le forti avarie riportate dalle proibitive condizioni di mare in tempesta, l’incrociatore italiano riparò al termine della battaglia per le prime riparazioni nel porto di Messina. Dovendo però eseguire ben più estesi interventi di riparazione il Bande Nere partì, sotto scorta, il 1º aprile, alle ore 9,00 per La Spezia. Ma non vi arrivò mai perché all’altezza dell’isola di Stromboli, nel Basso Tirreno affondò colpito da due siluri lanciati dal sommergibile inglese Urge. La nave, spezzata in due, s’inabissò subito e permise il salvataggio di meno della metà degli uomini. Tra i caduti vi fu anche il capitano di fregata Raccanelli.

    Onorificenze
    – Medaglia d’argento al valore militare – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d’argento al valore militare «sul campo”». — Decreto del Presidente della Repubblica 28 luglio 1948
    – Medaglia di bronzo al valore militare – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia di bronzo al valore militare: «Comandante del sommergibile Galatea durante una importante missione di guerra sulle coste spagnole, dava ripetute prove di tenace volontà offensiva mantenendo l’agguato a distanza ravvicinatissima dal porto di Tarragona davanti al quale attaccava tre piroscafi contrabbandieri danneggiandone seriamente uno. Tarragona, 28 agosto-9 settembre 1937». — Regio Decreto 8 aprile 1939.
    – Medaglia di bronzo al valore militare – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia di bronzo al valore militare: «In comando di unità operante in zona avanzata, fatta più volte segno in navigazione ed in porto a violenti attacchi aerei nemici, reagiva sempre con prontezza e molta decisione con il fuoco delle proprie armi. Durante un attacco al convoglio, di cui faceva parte, abbatteva un velivolo avversario. Costante esempio di serena noncuranza del pericolo ed alto senso del dovere. Mediterraneo Orientale, 19 luglio-10 settembre 1942». — Regio Decreto 16 novembre 1942.
    – Medaglia di bronzo al valore militare – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia di bronzo al valore militare: «Comandante di sommergibile effettuava numerose missioni di guerra in acque contrastate dall’avversario. Animato da elevato sentimento del dovere dimostrava in ogni circostanza sereno coraggio, capacità professionale e spirito combattivo. Mediterraneo-Atlantico, 10 giugno 1940-20 maggio 1941». — Decreto del Presidente della Repubblica 28 luglio 1948.
    – Croce di guerra al valor militare – nastrino per uniforme ordinaria Croce di guerra al valor militare: «Comandante di 2ª di incrociatore leggero, durante uno scontro con forze navali nemiche, dava prova di slancio e di elevato spirito combattivo, assicurando la perfetta organizzazione interna della nave, alla quale si era costantemente dedicato, dimostrando belle qualità militari.»— Determinazione del 2 settembre 1942.

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    1.4.1910, entra in servizio la regia nave Pontiere

    di Antonio Cimmino e Carlo Di Nitto


    Il regio cacciatorpediniere Pontiere, classe “Soldato” (o “Bersagliere”), dislocava 415 tonnellate a pieno carico. Impostato impostato presso i Cantieri Ansaldo di Genova il 18.11.1905, fu varato il 3 gennaio 1910 presso i Cantieri Ansaldo Armstrong di Sestri Ponente, ed entrò in servizio il 1° aprile successivo.
    Iniziò la propria attività addestrativa in Alto Tirreno e nel novembre 1910 ricevette a Venezia la Bandiera di Combattimento. Il 14 settembre 1911, nel corso di una esercitazione presso Terranova Pausania, urtò uno scoglio affiorante riportando gravissimi danni nella zona prodiera. Rimorchiato in un primo momento alla Maddalena per le prime sommarie riparazioni, nell’aprile 1912 fu portato a Taranto dove, sullo scalo, furono effettuati estesi lavori di raddobbo. Il 1° novembre 1913 fu nuovamente varato e ritornò in squadra.

    Dopo lo scoppio della Grande Guerra operò in Adriatico per la ricerca di mine vaganti e per la protezione del traffico con l’Albania, compiendo anche ricognizioni offensive e di vigilanza. Negli ultimi mesi del conflitto venne assegnato alla difesa del traffico nelle acque siciliane.
    Al termine delle ostilità operò in Dalmazia per il controllo delle isole occupate dall’Italia fino al mese di luglio 1919. L’ 1/7/1921 fu riclassificato come torpediniera con la sigla PN.
    Fu quindi trasferito a Napoli dove rimase inattivo per lavori fino al 1923. Rientrato in squadra, ebbe modo di effettuare alcuni salvataggi di navi in difficoltà, incappando però in due incidenti che fortunatamente non produssero gravi avarie.
    Nel novembre 1925 fu destinato in Cirenaica per operazioni di polizia coloniale e la sua attività fu molto intensa ed efficace. Nel 1929 ne venne deciso il rimpatrio per il disarmo e la successiva radiazione, avvenuta il 1° luglio 1929.

    L’unità aveva un dislocamento normale di 395 tonnellate, era lungo 65 metri, largo 6, 2 metri e con 2,1 metri di pescaggio. Era fornito di 3 caldaie, 2 motrici alternative della potenza di 5.000 HP e 2 eliche che imprimevano all’unità una velocità di 28 nodi circa. L’artiglieria era composta da 4 cannoni da 76/40 mm ed era dotata di 3 tubi lancia siluri da 450 mm. L’equipaggio era formato da 56 uomini.


    Partecipò alla Prima Guerra Mondiale e fu declassato a torpediniere nel 1921.

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    30.3.1916, varo del regio monitore Faà di Bruno

    di Carlo Di Nitto

    Il regio monitore “Faà di Bruno” fu un grosso pontone armato semovente. Dislocava 2854 tonnellate e derivava dalla modifica di un ex pontone gru della Regia Marina (il G.A. 43).
    Impostato il 10.10.1915, presso i Cantieri dell’Arsenale Marina Militare di Venezia, fu varato il 30.3.1916 ed entrò in servizio il 01.4.1917.
    Potentemente armato con due cannoni da 381/40, quattro da 76/40 e due mitragliere da 40 mm., aveva un equipaggio composto di 45 uomini tra ufficiali, sottufficiali e marinai. Due motrici alternative gli consentivano una velocità di tre nodi. Come altre unità similari, era stato realizzato per affiancare l’esercito appoggiando, per quanto possibile, le operazioni sul fronte terrestre e le difese costiere.
    Il suo primo impiego operativo avvenne il 18 agosto 1917 bombardando le posizione austriache durante l’undicesima battaglia dell’Isonzo.
    A seguito dei fatti di Caporetto si dispose il suo trasferimento ad Ancona insieme al quasi gemello “Cappellini”. Purtroppo, il 18 novembre 1917, furono sorpresi da una violenta tempesta. Il “Cappellini” si capovolse ed affondò con la perdita di oltre 60 uomini mentre il “Faà di Bruno”, spezzati anch’esso i cavi di rimorchio, grazie all’azione del suo comandante, Capitano di Corvetta Ildebrando Goiran, fu portato ad incagliare nei pressi del borgo di Marotta (Pesaro). L’equipaggio rimasto a bordo fu aiutato in quel frangente, nonostante la tempesta in corso, da undici coraggiose ragazze che postesi ai remi di un palischermo raggiunsero l’unità e la rifornirono di viveri, frutta e alcune damigiane accompagnate da un biglietto che diceva:
    – “Le spose di Marotta offrono ai Marinai d’Italia un bicchiere di vino”.
    Una di esse poi, gettatasi arditamente a nuoto, riuscì a svolgere fino alla riva una sagola che consenti di filare dei cavi d’ormeggio per impedire che l’unità venisse trascinata nuovamente al largo.
    Dopo la guerra, il 24 agosto 1919, le undici eroiche ragazze furono decorate con la Medaglia di bronzo al Valor Marina. I loro nomi: ai remi Giustina Francesconi, Silvia Ginestra, Teresa Isotti, Edda Paolini, Arduina Portavia, Emilia Portavia, Emilia Portavia di Nicola, Maria Portavia, Nella Portavia, Erinna Simoncelli, e l’undicesima, la giovanissima sposa Zampa Maria, alla barra del timone.

    Riclassificato “Cannoniera” l’1/7/1921, Il “Faà di Bruno” venne radiato il 13/1/1924 ma fu rimesso in servizio all’inizio della seconda guerra mondiale come batteria galleggiante GM 194 a difesa delle città di Genova e Savona dove fu affondato nel 1945 dai tedeschi in ritirata. Fu recuperato a pezzi negli anni successivi.


    Il suo motto fu: “ Nec ferro nec igne” (né ferro né fuoco possono offendermi).
    ONORE AI CADUTI E ALLE “RAGAZZE DI MAROTTA”.
    Dello stesso argomento sul blog:
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2019/11/18-11-1917-marotta-e-le-undici-eroine-del-faa-di-bruno/

  • C'era una volta un arsenale che costruiva navi,  Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Pittori di mare,  Recensioni,  Storia

    28.3.1965, varo del traghetto Canguro Azzurro

    a cura Antonio Cimmino

    … a Castellammare di Stabia c’era un arsenale che costruiva navi, e adesso?

    Il traghetto Canguro Azzurro della Navalmeccanica S.p.A fu costruito nel cantiere navale di Castellammare di Stabia. Impostato il 6 giugno 1964, fu varato il 28 marzo 1965 e consegnato il 12 luglio 1965 per navigare sulla rotta Napoli – Palermo.