Che cos'è la Marina Militare?

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    6/7.10.1943, la cannoniera Mario Sonzini

    di Antonio Cimmino

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    antonio-cimmino-per-www-lavocedelmarinaio-com_1Realizzata nel 1924 come peschereccio Acciuga, nel 1931 fu acquistata dalla Regia Marina e nel 1932 è immessa in servizio come dragamine con il nome di Mario Sonzini. Nel 1938 è riclassificata cannoniera e, con la caduta del regime fascista, il 30 luglio 1943 è ridenominata Tramaglio.
    Il 9 settembre 1943, a seguito dell’armistizio, la cannoniera è catturata dai tedeschi nel Pireo e annessa alla Kriegsmarine come unità antisommergibile UJ2111.
    Nella notte tra il 6 ed il 7 ottobre 1943, si trova in missione di scorta a convoglio, composto dal piroscafo Olympus ed altri trasporti minori. Poco dopo la mezzanotte il sommergibile inglese Unruly si porta all’attacco con tre siluri diretti contro l’Olympus, senza colpirla. Riemerso, ritenta utilizzando il cannone, ma viene respinto dalla cannoniera Sonzini.

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    Prima dell’alba del giorno 7 il convoglio viene raggiunto, al largo di Kos, dagli incrociatori leggeri britannici Penelope e Sirius insieme con i cacciatorpediniere Faulkner e Fury che affondano, in breve tempo, tutte le navi tedesche.

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    4.10.1917, il triste epilogo del piroscafo Città di Bari

    Segnalato da Nico Vernì

    Prof. Giovanni Vernì – LA VERA STORIA
    del triste epilogo del piroscafo “Città di Bari”, silurato dal SMG tedesco UB48

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    PORTO DI TARANTO – MAR PICCOLO, Giovedì 4 ottobre 1917.

    Aria serena. Giornata mite e piena di sole, che fa ben sperare; una bella giornata ottobrina.
    Il solito movimento del tempo di guerra, piuttosto ordinato e circospetto; il solito andirivieni tra le banchine del gran porto tarantino.
    Navi alla fonda, navi che vanno, navi che vengono; mercantili o da guerra. Ultimi controlli per i passeggeri pronti all’imbarco.
    Attorno ad una, in particolare, ferve sin dal mattino un’insolita attività: si stanno mettendo a punto le ultime cose: fra le quali il funzionamento di un cannoncino da 76 m/m, di cui essa è stata dotata da poco; si stanno caricando le poche mercanzie, imbarcando, alla spicciolata, senza fretta alcuna, i pochi passeggeri, tutti militari, per la vicina Macedonia, via Grecia.
    E’ il piroscafo “Città di Bari”.
    Lo comanda un giovane ma esperto lupo di mare, un barese doc, credo, probabilmente parente stretto del defunto Pantaleo Castellano, un coraggioso di poche parole, concreto, essenziale, il capitano L.Castellano, coadiuvato da un eccellente equipaggio, composto, in gran parte, di pugliesi, se non di baresi – i Violante, p.e., i De Santis, i De Tullio, i Cassano, gli Introna, i Bottalico, i Bellomo, per dirne qualcuno. Chi ne volesse conoscere tutti i nomi, uno per uno, può scorrerne gli elenchi che noi alleghiamo in questo volume, sez. Documenti.
    Prima dello scoppio della “Grande Guerra” il “Città di Bari” aveva solcato con dignità e onore l’Adriatico e lo Jonio, soprattutto, attivamente partecipando ai traffici commerciali che si svolgevano nei due mari e tenendo ben collegate tra di loro le sponde che ne erano bagnate.
    Con l’entrata in guerra del nostro Paese, era stato requisito e, armato di cannone, dopo aver partecipato alle operazioni di salvataggio, da parte della Regia marina, dell’esercito Serbo-Montenegrino e di trasporto, da S.Giovanni di Medua a Brindisi, dei membri del governo slavo e del tesoro statale (come provano e documentano fonti italiane e britanniche pubblicate dalla Rivista Marittima del gennaio 2003, che qui di seguito vi mostriamo), veniva adibito ad “ausiliario” della Regia Marina Militare, nel servizio-postale e passeggeri, con partenza da Taranto, al giovedì, sulla linea Taranto – Gallipoli – Corfù – Patrasso.
    E qui, proprio qui, su questo tratto, la malasorte volle che, nel viaggio che stiamo per raccontare, si compisse il suo tragico destino.

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    IL FATTO
    La partenza del “Città di Bari” da Taranto. L’arrivo e la sosta a Gallipoli. L’imbarco di civili greci. Il primo siluramento. Il secondo siluramento. L’ammutinamento dei greci. Il cannoneggiamento da parte del sommergibile siluratore. L’affondamento del piroscafo. La scomparsa del capitano comandante. Lo sbandamento dei naufraghi.
    Lasciata Taranto nel pomeriggio di giovedì 4 ottobre, il “Città di Bari” giunse a Gallipoli (l’antica KalhpoliV, o “Città Bella”, fiorente centro commerciale affacciato sullo Jonio, a 38,5 Km. da Lecce), nelle prime ore della sera dello stesso giorno.
    Era solo, senza scorta, avendo a bordo, oltre all’equipaggio civile composto di 40 persone e all’equipaggio militare di 11, soltanto 37 (o 35?) passeggeri militari del Regio Esercito (c’era tra questi il padre di chi scrive, Pasquale, soldato del “271° Btg. Milizia Territoriale”, dislocato sul fronte Macedone, al quale faceva ritorno dalla licenza) e della Regia Marina ed un carico di 130 tonn. di viveri e materiali vari .
    “Quando il “Città di Bari” giunse a Gallipoli – narra nel suo interrogatorio l’Ufficiale di Porto – mi recai a bordo della nave, e il Capitano di questa, Luigi Castellano, mi chiese se il Piroscafo “Imera”, silurato due giorni prima, avesse avuto la scorta. Alla mia risposta negativa disse: “Chissà se per noi vi sarà la scorta”. Risposi che non sapevo, ma che però non lo credevo e, quindi, lo informai che i passeggeri da imbarcare superavano le cento unità.
    Al mattino seguente informai il Comandante di Spiaggia delle parole scambiate col Capitano a riguardo della scorta. Il Comandante Stranges mi rispose di non avere facoltà di dare la scorta, ma che, se il Capitano l’avesse ufficialmente richiesta, avrebbe telegrafato a Taranto per l’autorizzazione. Mi recai nuovamente a bordo e riferii quanto sopra al Capitano, ma questi mi rispose che non voleva chiedere scorta per non far credere di avere paura. Se queste non furono le sue precise parole, certo il senso ne era equivalente.
    Rimasi a bordo del Piroscafo tutto il pomeriggio e verificai se tutti avessero il salvagente e se lance e zattere fossero a posto, libere da impedimenti ed in numero sufficiente, del che ebbi anche assicurazione dal Capitano.
    Non mi occupai, perché non di mia competenza, del ritiro delle armi dei passeggeri; per quanto mi consta, ciò non fu fatto né dell’Autorità di Pubblica Sicurezza, né da quella di bordo, né dagli Agenti della Regia Dogana.
    Ritornai a terra mezz’ora prima della partenza e riferii al Comandante di Spiaggia che il Capitano non aveva creduto di chiedere la scorta.
    Il “Città di Bari” partì regolarmente alle 18h,30m. A tenore delle norme vigenti, non feci alcun telegramma di partenza, però, in vista del rilevante numero di passeggeri, telegrafai subito ai Servizi Logistici che il Piroscafo era partito con 400 passeggeri”.
    “Imbarcati, dunque, 405 passeggeri e come merci del vino e dei tessuti di cotone – scrive il Contrammiraglio Paladini – il Piroscafo lasciava, alle ore 18.30 del 5 ottobre, il porto di Gallipoli…

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    …La partenza del Piroscafo fu telegrafata al Ministero, al Dipartimento di Taranto ed al Comando in Capo dell’Armata di Taranto, con queste parole: “Piroscafo «Città di Bari» mare” – Nessun telegramma fu fatto invece ai Comandi Navali di Brindisi, Valona e Corfù”, perché, – si giustifica lo Stranges nel suo interrogatorio – nessun ordine di tale specie avevo per quanto riguarda la partenza per Corfù”. E nessuna scorta fu data al Piroscafo, perché, – sempre a dire dello Stranges – non avevo alcuna istruzione di fornire scorta per interi viaggi, perché il Città di Bari è partito dopo il tramonto, ma, soprattutto, perché il Capitano del Piroscafo si diceva riluttante a dar mostra di temere il pericolo”.
    Trascorsero tranquille – scrive sempre il Paladini – le prime ore della notte”: notte di luna – ricordano i superstiti -; aria fosca; forte vento di E-NE che rendeva il mare agitato; visibilità scarsa.
    Ma, attorno alla mezzanotte, tra le 23h,45m e le 24h, il marinaio Albano – che era di guardia al cannone, e qualche altro, videro passare di poppa la scia di un siluro. Avvisato, il Capitano della nave, si portò immediatamente sul posto, ma, non trovando conferma del lancio prospettatogli e non scorgendo alcun segno della presenza del sommergibile siluratore – (probabilmente perché questo si é affrettato a far perdere traccia di sé) – credette ad un abbaglio e tutto finì lì.
    Invece abbaglio non era e l’Albano e gli altri avevano visto giusto.
    E la conferma ce la dà il sopravvissuto – italiano o straniero? membro dell’equipaggio del «Città di Bari» o anonimo passeggero? – fatto prigioniero e condotto poi a Pola, del quale, però, la fonte austriaca non rivela il nome per ragioni di riservatezza .
    Alle Autorità di marina che lo interrogavano, il sopravvissuto anonimo raccontò che quel primo lancio il sommergibile siluratore lo effettuò esattamente alle 2h,30m del mattino del 6 ottobre. (“Am 6 Oktober um 2 Uhr 30′ a.m.”, è scritto nel documento precitato) e che il “Città di Bari” rispose all’attacco sparando alcuni colpi di cannone – (“Antwortete mit seinen Kanonen”).
    Veri o falsi, in tutto o in parte, questi particolari, sta di fatto che un primo siluro fu effettivamente lanciato contro il piroscafo italiano e che, probabilmente, l’U boot tedesco, andato a vuoto quel suo primo tentativo di siluramento, temendo la reazione del “Città di Bari”, sospese momentaneamente l’attacco per riprenderlo più tardi.
    L’allarme, perciò, rientrò; la calma ritornò a bordo e tutti tirarono un sospiro di sollievo.

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    “L’aria era fosca ed un forte vento di E, NE rendeva il mare agitato. Le 4 erano passate da circa un quarto d’ora – racconta il 2° Ufficiale del Piroscafo – e mi trovavo in sala nautica allorché udii lo scoppio…
    “Il tempo era quasi nuvoloso, tirava un vento moderato da scirocco ed il mare era mosso. Si diceva anche che era possibile qualche sorpresa all’alba. Alle 4h,10m circa, udimmo una forte esplosione”…- ricorda il 1° Ufficiale .
    “Mi trovavo sul primo cassero, – narra a sua volta il direttore di macchina – passeggiavo tra l’osterigio di macchina e la sala nautica; erano passate da poco le 4h,00m allorché udii un colpo metallico fortissimo e vidi sollevarsi dall’osterigio di macchina un’alta colonna di acqua e vapore. Il siluro aveva colpito il bastimento proprio fra la caldaia e le macchine, che si fermarono immediatamente, insieme naturalmente alle due dinamo. Il bastimento rimase all’oscuro”.
    “Svegliato dall’esplosione, – racconta, tra l’altro, Luigi Aleotti per prima cosa corsi abbasso nella stazione R.T. che si trovava proprio nel corridoio che univa la prima con la seconda classe: vidi tutti gli strumenti per terra e capii che la stazione non poteva più funzionare. In coperta la gente si agglomerava intorno alle sei imbarcazioni. Vi erano anche molte zattere, circa 16 in legno e sei od otto in ferro.
    Il Comandante era sulla dritta e il capo timoniere sulla sinistra; ambedue cercavano di ottenere un po’ di calma, per effettuare ordinatamente il salvataggio, ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei Greci: gettavano gli zatteroni a mare senza ritenuta, facevano capovolgere le lance, venivano alle mani…”
    “Intanto il bastimento si sbandò un poco a dritta, molto a sinistra, e quindi si immerse per circa due metri, rimanendo orizzontale. Una ventina di minuti dopo il siluramento – ricorda ancora il 2° Ufficiale -, arrivò la prima granata che cadde una ventina di metri a sinistra del bastimento. La seconda, credo colpisse il cannone di poppa. Seguirono altri colpi. Appena cominciato il fuoco, non fu possibile impedire alla gente di gettarsi a mare raggiungendo le zattere che, filate e senza ritenute, s’allontanavano dal bordo.”
    “Svegliato dall’esplosione, – riferisce a sua volta il sottocapo cannoniere – corsi subito vicino al pezzo, ma non vidi nulla. Dopo un po’ scesi dalla tuga per cercare il capo timoniere ed il Comandante. Trovato il capo timoniere, andai con lui ad aiutare a mettere le zattere in mare.
    Mentre facevo questa operazione, ho udito il primo colpo di cannone e visto il sommergibile al traverso a sinistra. Corsi subito a poppa, ma fui fermato dai Greci che non volevano si sparasse, temendo che il sommergibile, per rappresaglia, sparasse sulla gente a mare…
    …Prima di buttarmi a mare – a bordo eravamo rimasti solo io e il sottocapo francese AUGER Renè – vidi i Greci che facevano segno al sottomarino con una camicia, affinché non sparasse più. Mi precipitai addosso e strappai loro la camicia…
    All’ultimo momento i Greci ammainarono pure la bandiera italiana”.
    “Restai a bordo fin quasi all’ultimo – ricorda VALENZO Pietro. Vidi all’inizio del bombardamento che dei Greci facevano segnale al sommergibile gridando: “Costantino” .
    “Dopo una mezz’ora – racconta il marinaio cannoniere FAVAZZA Salvatore – il sommergibile emerse a circa 200 metri dalla poppa e cominciò a bombardare. Due colpi raggiunsero il fumaiolo ed uno colpì in prossimità della stiva prodiera. Durante il bombardamento (a base di granate incendiarie) solo io rimasi in prossimità del cannone. Poco dopo, però, me ne andai per mettermi al riparo. Il sottomarino, allora, si affiancò a dieci o quindici metri di distanza e mi si domandò in buon italiano dov’era il Comandante. Gli risposi che non c’era…”
    “Nel frattempo il sommergibile si era avvicinato al Piroscafo e aveva sbarcato il radiotelegrafista dell’IMERA su una zattera – riferisce il 2° Ufficiale-. Tirò una cannonata sulla prua del Piroscafo al galleggiamento determinando l’affondamento”.
    Colpito a morte, senza preavviso, da quindici granate incendiarie, l’ultima delle quali al bagnasciuga, tutte sparate tranne l’ultima, mentre la gente era ancora a bordo e cercava in tutti i modi e con tutti i mezzi di convincere gli artiglieri di bordo a non sparare contro il sommergibile e, alzando bandiera bianca e ammainando la bandiera italiana, quelli del sommergibile a non sparare sui passeggeri ancora presenti sulla nave, il “CITTA’ DI BARI”, lentamente affondò in fiamme – “…endlich sank das schiff in flammen”.
    Trascinando con sé, in fondo al mare, uomini e cose e inabissandosi a 39° 20′ Lat.N., 19° 23′ Long.E. – rotta 107° magnetico da un punto 15 miglia a sud di S.Maria di Leuca – al largo dell’isoletta di Paxòs o Paxì, a sud di Corfù, nel mentre in cielo e sul mare già albeggiava e si scatenava un furioso temporale che durò tutta la notte.
    Sfasciate le imbarcazioni per l’imperizia dei Greci che se n’erano impadroniti e che pagarono con la vita l’atto precipitoso, le zattere di bordo raccolsero i rimanenti passeggeri e affrontarono il viaggio della salvezza, che per i più non giunse mai.
    Ma, quasi a rendere più intricata e drammatica la fase finale di questa angosciosa vicenda, ecco, fosco ed oscuro, il dramma personale del coraggioso sfortunato Capitano: non é presente fisicamente, come noi ci aspetteremmo, alla morte della sua nave.
    Eppure, subito dopo l’esplosione del secondo siluro, molti lo hanno visto, lo hanno notato, mentre…
    …si precipitava fuori (della cabina di comando) gridando: “Salvagenti a posto”! – deposizione del secondo ufficiale -;
    …cercava di organizzare il salvataggio e infondere un po’ di calma” -(direttore di macchina)-;
    …sulla dritta cercava di ottenere un po’ di calma per effettuare ordinatamente il salvataggio…, ma questo non fu possibile, data la resistenza armata dei greci –
    …diceva all’artigliere: “Sono Capitano e la mia nave è stata già silurata. Non faccia fuoco, altrimenti sparano contro le zattere!” – (primo timoniere) -;…
    …vedendo la nave sbandare a dritta in modo che giudicò pericoloso, ordinava: “Gente in riga e zattere e lance a mare!” – (primo ufficiale) -;…
    Dopo tutto questo, il Capitano non si vede più, esce di scena, scomparendo proprio mentre ci si aspettava di vederlo, nel solco della tradizione marinara, fermo al suo posto di comando, andare coraggiosamente a fondo e morire insieme con la sua nave.
    Secondo un testimone oculare, egli si gettò a mare. Infatti, il primo cameriere testimoniò: “Mi gettai a mare dopo il Comandante dal boccaporto n.2″.
    Allora, gettatosi a mare, è per caso affogato? o, piuttosto, è sembrato gettarsi a mare, mentre, invece, vi cadeva accidentalmente probabilmente ferito a morte da…”quel colpo di rivoltella sparatogli contro dal basso da uno sconosciuto?”, come racconta nella sua deposizione il 2° Capo timoniere?.
    Non lo sapeva chi gli stava dattorno, non lo sappiamo nemmeno noi.
    Se, però, dobbiamo dar credito alla fonte austriaca, il capitano Castellano sarebbe morto di morte violenta, ucciso, con altri, durante la sommossa scoppiata a bordo del piroscafo in seguito alle prime cannonate sparate dal sommergibile.
    Vera o falsa, questa versione, verosimili o inventati questi particolari, il mistero resta e ci è difficile svelarlo.
    Quando, verso le ore 5.30 del mattino, la luce del giorno scese a illuminare questa parte del Mar Jonio, sulla scena del disastro non c’era più nulla ormai: non la snella mole della bella nave barese, sprofondata con tutto il suo carico negli abissi; non la sagoma scura del sommergibile tedesco, apparentemente assente, ma, di fatto, aggirantesi ancora minaccioso in quei paraggi; non le scialuppe di salvataggio, che, pur stracariche di naufraghi, vagavano sempre più lontane, alla deriva, facile preda delle onde, delle correnti e della forza dei venti.

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    “Nelle zattere si trovarono mescolati italiani e greci, che, numerosi, usarono soprusi e violenze, pestando coi piedi e ferendo di coltello e rasoio i nostri connazionali ed altri che si affollavano intorno alle già gremite imbarcazioni .”
    Dura, lunga e faticosa fu la lotta dei naufraghi in una situazione oltremodo loro avversa, folle e vana la speranza di veder arrivare da un momento all’altro il soccorso liberatore: Corfù non sapeva; Taranto nemmeno. Finché, poi, qualcuno non darà l’allarme.
    Nella notte, ad appena poche ore dall’affondamento, qualcuna delle zattere giunse anche a vedere in lontananza la terra della salvezza, …”ma il forte mare ci impedì assolutamente di avvicinarci a Fano, racconta un sopravvissuto.
    EPILOGO
    I soccorsi. Il recupero e il ricovero dei naufraghi superstiti negli ospedali di Gallipoli e di Corfù. L’inchiesta. L’amaro bilancio. Considerazioni finali.
    Nessun mezzo di soccorso videro i naufraghi durante tutto il giorno 6.
    “Verso il mezzogiorno del 7 – appena due ore prima che fossero scoperti e tratti in salvo – calmatosi ormai il mare, abbiamo visto una leggera imbarcazione, una specie di caicco, contenente un greco. Un greco che era con noi allora abbandonò la nostra zattera e andò a parlare con quello. Ritornò poco dopo dicendo che quella imbarcazione non poteva salvarci ” .
    “ Verso le prime ore del pomeriggio (del 7) apparve l’ESPERO ”.
    “ Potevano essere le 2.00 del pomeriggio, allorché avvistammo un caccia ed un rimorchiatore”…credo che la nostra zattera sia stata l’ultima ad essere recuperata dall’ESPERO ”.
    “ Alle 01.30 del giorno 7 – racconta il Comandante della Settima Squadriglia – ricevetti a Taranto un fonogramma che mi ordinava di accendere i fuochi per eseguire una missione.
    Ricevetti solo verso le 3.00 le istruzioni scritte che dicevano:
    di percorrere la rotta del Città di Bari che non era ancora giunto a Corfù. Dovevo continuare le ricerche fino al tramonto e passare la notte a Gallipoli.
    Partii alle 3.30 da Taranto con una velocità di 20 miglia e seguii la rotta ordinatami… Avvistai la prima zattera verso le 2.05 / 2.10 del pomeriggio.
    Questa conteneva tre o quattro uomini tra cui il 2° Ufficiale… Siccome sapevo che pure alla ricerca dei naufraghi si trovavano i C.T. “Pilo” e “Bronzetti”, feci loro un radiotelegramma, comunicandogli le coordinate geografiche del luogo ove mi trovavo. Infatti, dopo appena un quarto d’ora, essi arrivarono. Vennero altri due idrovolanti francesi che indicavano la posizione delle zattere. Continuai il salvataggio sino alle 16.45, raccogliendo ben 98 persone. Tra i salvati ve n’erano 97 della Città di Bari e uno R.T. dell’ “IMERA”. Avendo visto che vi erano dei feriti da coltello, ordinai il disarmo generale. Un greco, DEMETRE PRIFTIS, consegnò un rasoio insanguinato. A Gallipoli tutti i naufraghi ebbero assistenza.”
    A loro volta, il “Pilo” e il “Bronzetti”, ne recuperarono altri 58 che provvidero a trasportare all’ospedale di Corfù.
    “Di 493 persone che erano a bordo al momento della partenza da Gallipoli, – conclude malinconicamente nella sua relazione il Comandante della Divisione Base di Taranto – solo 156 si erano salvate e pure é certo che lo scoppio non può aver ucciso che, al massimo, una diecina di persone e che qualche altro può aver trovato la morte per aver battuto qualche forte colpo nel gettarsi in mare, forse tra questi ultimi il Capitano del piroscafo, del quale non si riuscì ad avere alcuna notizia dopo l’affondamento.”
    Dunque, terminate le operazioni di ricerca e fatta la conta dei superstiti, all’appello risposero soltanto 156 persone – (160, secondo la fonte austriaca).
    E le altre 337 o 368 o 560, o forse più? (se dobbiamo credere alla predetta fonte straniera).
    Disperse. Morte. Tutte morte. Tutte finite in fondo al mare. Precipitatevi, non dalla nave che le trasportava, ma dalle scialuppe di salvataggio, in cui erano riuscite, bene o male, a trovar posto, prima che il “ Città di Bari ” affondasse. Precipitatevi da sole. Lasciatevisi andare così, con semplicità, quasi con un dolce senso di abbandono e di rassegnazione nel proprio destino. Uccise dagli stenti, dal maltempo, dalla violenza di prepotenti compagni di viaggio, dagli scoraggiamenti, dalla lunga attesa e permanenza in mare – durata, è incredibile, un giorno e mezzo! –
    Ce ne parlano diffusamente, nelle loro deposizioni, i pochi fortunati superstiti. Basti leggere, come ha fatto l’orfano che scrive, – “ un groppo alla gola, l’occhio inumidito di pianto, il cuore in subbuglio ” – gli scioccanti racconti che i superstiti fanno alle autorità giudiziarie.
    Vi trovi tutto:
    La logica perversa
    della guerra;
    L’imponderabilità;
    L’imprevedibilità, l’inevitabilità, la fatalità, – come si usa dire in certi casi – degli eventi;
    L’impotenza dell’uomo nella lotta contro le forze scatenate della natura;
    L’insano egoismo, che spesso scaccia vincendolo l’altruismo, e sempre alberga nel cuore dell’uomo – come inorridisce tutta quella violenza! come suonano male tutti quei “mors tua, vita mea”, lanciati dal fratello contro l’altro fratello, al momento del pericolo!;
    L’irresponsabilità, o la totale mancanza di senso di responsabilità, la superficialità, la leggerezza nel governare talune contingenze;
    La temerarietà di qualcuno – che – si badi – non è coraggio, ma audacia eccessiva, sconsiderata, irragionevole;
    L’incapacità, l’apatía o mancanza di “páthos”, in alcuni, la negligenza « nell’adempimento dei doveri del proprio ufficio », in altri: (“non si manda una nave allo sbaraglio, stracarica di passeggeri, sola, senza scorta, non ce se ne lava le mani, non la si lascia partire, ci si oppone, se non si vuole andare incontro a disastro sicuro…; bisognava riflettere, pensarci due volte, prima di…obbedire almeno alla legge del…buon senso; non….”).
    Tutte cause o incidenze gravi, che hanno avuto un peso non indifferente nella dinamica dei fatti. Ove fosse stato possibile ridurne il malefico influsso, si sarebbe potuto almeno contenere, limitare, ridurre al minimo, le proporzioni di una “catastrofe annunciata”, che invece ebbe a costare la vita a un gran numero di persone.
    Oltre 400, certamente. Forse 500. Forse anche di più.
    La violenza, spesso senza volto e senza perché, era così diffusa, allora e dappertutto, che nessuno sapeva rinunciarci; e se ne ebbero i risultati!
    Un vero disastro, torniamo a ripetere, una sciagura immensa, incredibile…
    Non delle stesse proporzioni di quello lamentato nell’affondamento del “TITANIC” (1912), certo, o del “LUSITANIA”, il cui inabissamento, nel 1915, suscitò lo sdegno dell’opinione pubblica americana e contribuì ad orientarla in favore dell’entrata in guerra (nel 1917) degli Stati Uniti a favore dell’Intesa, ma pur sempre, enorme, raccapricciante, impressionante, che aveva chiaramente colpe ben definite.
    Un disastro, nel vero senso della parola. Una strage, o carneficina se preferite.
    Una tragedia che si poteva contenere, ridurre al minimo. Ma mancò l’impegno, la volontà di obbedire in pienezza di spirito e di partecipe generosità ai doveri precisi dello stato di ciascuno degli…addetti ai lavori.
    Colpa anche della propaganda insidiosa che tanto male stava predicando ed inculcando, anche nei soldati di prima linea, forse! -. Mancò, infine quello spirito di solidarietà che fa grande un fratello al momento del bisogno.
    E di scalpore e di impressione ne fece veramente tanta il malaugurato evento che ne rimasero giustamente preoccupati politici e militari, considerato anche e soprattutto, il grave momento in cui esso avveniva – si era, infatti, in un mese “caldissimo” della guerra in atto: nel fatale ottobre ‘17 -.
    E, per far piena luce e chiarezza sulla triste vicenda e tacitare le coscienze turbate, usando prudenza, cautela e circospezione, il Ministero della Marina, aprì in tutta fretta un’ampia inchiesta: furono sentiti, in primo luogo i sopravvissuti (italiani e stranieri): i membri dell’equipaggio, gli artiglieri, i radiotelegrafisti, i passeggeri imbarcati, tutti i veri protagonisti insomma della vicenda. Furono ascoltati inoltre, come parte in causa, indiziati di reato, il Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di Taranto, il Comandante in Capo dell’Armata R.N. “ Trinacria ”, il Comandante della Divisione Base di Taranto, il Comandante della Divisione Navale dello Jonio R.N. “ Città di Catania ”, il Comandante di Spiaggia di Gallipoli, il Commissario militare del piroscafo “ Città di Bari ”.
    E, dopo due mesi circa di minuziose indagini, acclarata ogni cosa e individuati i veri responsabili del disastro, il Tribunale Militare emanò la sua sentenza: inflisse le pene che ciascuno si meritava, ma con mitezza, senza infierire contro nessuno.
    Le sanzioni e i provvedimenti presi restarono però nel chiuso degli uffici, ammantati di discrezione e di riservatezza, mai svelati. Solo pochi conobbero le conclusioni della Giustizia. Esse non furono mai rese pubbliche “ per l’impressione ” si disse. Come non venne mai reso pubblico il numero preciso delle persone scomparse, tutte insieme, in uno stretto braccio di mare:
    morte,
    a due passi dalla salvezza, pensate!
    Sotto i nostri stessi occhi.
    Con la nostra stessa complicità.
    Come non pensare che essi, i morti, tutti quei morti, pesino, ancora oggi, sulla comune coscienza?
    Le colpe, le responsabilità, stavano là e parlavano da sole e chiedevano giustizia, non vendetta, ma neppure dimenticanza.

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    Giunse sì la giustizia, e anche presto; arrivarono le conclusioni del Tribunale, puntuali, rapide, immediate, ma non proprio eque, cioè giuste, commisurate alla gravità o levità dei reati realmente commessi, non proprio riparatrici, accompagnate, vorremmo dire, da giusto rigore morale e giuridico.
    Sapevano, esse, troppo di affrettato, di condizionato, di biasimevole, di ovattato, forse di vergognoso da nascondere ad ogni costo, chiusi a doppia mandata nei ferrei cassetti degli archivi di Stato, insieme con la verità.
    E le lacrime non furono mai asciugate!
    Sicché, una tragedia sì grande e sì grave, lentamente, fatalmente, scivolò nel dimenticatoio. Con tutti i suoi ricordi dolceamari.
    Che tristezza!
    Questi i fatti, nudi e crudi. Queste le dure verità. Queste le colpe e le responsabilità acclarate dalla Magistratura, quali ci rivengono dalla lettura “a caldo” dei documenti dianzi citati e riportati. Non li ho certo inventati io e neppure manipolati o adulterati. Li ho soltanto “raccontati” in tutta la loro rapida successione, ruvida asprezza, estrema angosciosità.
    Certo con la morte nel cuore per quello che stava succedendo al mio papà. Con l’animo straziato dal dolore. Con rabbia impotente. Con intensa passione e partecipazione.
    Non mi si farà poi colpa grave, se, talvolta, mi è capitato di condirli, senza volerlo, con un pizzico di amara insoddisfazione, dettata, peraltro, dal mio stato di “dolente parte in causa”.
    A mente fredda, invece, a mente libera dal velo della passione, questi stessi fatti, questi stessi comportamenti umani, riconsiderati più attentamente e visti alla luce di una più approfondita riflessione, assumono, possono assumere, come in un processo di decantazione, un aspetto nuovo; offrono, possono offrire una diversa valutazione e interpretazione dell’accaduto. Secondo la quale il personale della Marina Militare Italiana dislocato nel Basso Adriatico e nello Jonio, dall’ufficiale più elevato in grado al semplice marinaio, non avrebbe nulla da rimproverarsi nella triste “Historia” del “Città di Bari” e che, nel disimpegno delle proprie specifiche mansioni, tutti avrebbero operato “in assoluta buona fede” per il buon fine del pericoloso viaggio intrapreso dalla nave barese. E che, se dei responsabili del disastro c’erano, essi sarebbero da ricercare non tanto fra gli equivoci e i malintesi, fra le carenze e le omissioni lamentate o fra gli “sfilacciamenti” e le inadempienze di questo o di quello, quanto piuttosto nel “virus della discordia e della disobbedienza”, nei “veleni” della contrapposizione e della divisione, dell’odio e della violenza, che, penetrando nell’animo umano e stringendo nella morsa del contagio, tutti e ciascuno, avrebbe sconvolto anche le coscienze corazzate, le difese resistenti dei marinai italiani impegnati nella guerra.
    Analisi precisa, argomentazioni giuste, verità palesi, indiscutibili, che, però non hanno la forza e il potere di dimostrare l’infondatezza delle accuse mosse e comprovate in sede di inchiesta giudiziaria; di mandare assolti i presunti responsabili della sciagura, di rendere meno gravi e dolorose le proporzioni del disastro.
    Di un “caso” sì grave riesce veramente difficile, se non impossibile, diluirne nella verità il pianto ed il rimpianto di ciò che si è responsabilmente o irresponsabilmente perduto.
    «Per il dono del tuo Spirito, Signore, fa che ogni condizione di paura si apra alla fiducia, ogni situazione di dolore sia illuminata dalla speranza della pasqua, ogni atteggiamento di egoismo o d’indifferenza si converta nella gioia della condivisione e del servizio verso il fratello».
    «Ma, di questa immensa tragedia – si domanda a questo punto l’uomo della strada -, di tutte queste vittime innocenti dell’umana follia, che cosa ricorda oggi la memoria storica? che cosa resta di bello e di buono e di moralmente utile alla società odierna?».

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    Era mio padre, orfano di guerra dall’età di 2 anni. Su quella nave c’era mio nonno Pasquale. Mio padre è deceduto il 6 gennaio 2014 all’età di 98 anni. Da lassù, ringrazia il direttore pro-tempore dell’Ufficio Storico della MMI, amm. Buracchia. Grazie.
    (In foto mio padre è il primo a sx; io sono quello accovacciato).

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    Nave Ardito, una pagina in più 37 anni dopo

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Una pagina in più 37 anni dopo e il libro di Lino Gambino che ripercorre momenti di vita, la nostra, dove scrivere o comunicare sentimenti è come attraccare la barca nel porto della solidarietà.
    L’autore ripercorre e continua a dare la giusta rotta con questo pregevole libro e con un pensiero fisso: quello di immortalare, 37 anni dopo, momenti di vita vissuta tra mare, cielo e terre lontane…

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    Era il 18 luglio 1979 e il 6° Gruppo Navale, costituito dalle due unità Ardito e Lupo, salpava dal porto di Livorno per una campagna addestrativa fuori dal Mar Mediterraneo.
    Il protagonista era imbarcato su nave Ardito come sergente Segnalatore e, dopo anni di ricerche fotografiche e testimonianze, scrive una pagina che percorre, nella giusta ed equilibrata misura, gli anni di vita di questa unità navale.
    Nel libro non mancano momenti di intensa commozione specie quando il protagonista si incontra con gli “amici” che sono stati imbarcati con lui e che, dal 2006, celebrano annualmente il consueto raduno conviviale con le famiglie.
    Foto e illustrazioni, curiosità e tantissimo altro materiale, sottolineano e contribuiscono a tenere sempre vivo il ricordo di una circumnavigazione del globo e dare vita a ricordi indelebili, di una vita vissuta e testimoniata, da protagonisti.

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    Il libro, costituito da 250 pagine, con realizzazione grafica di Alfonso Zampaglione e foto di Flavio Gallo, è stato realizzato, a proprie spese, dal Capitano di Fregata (r) Lino Gambino. Sebbene abbia una tiratura limitata, è un excursus di eccezionale documentazione storica -fotografica. Io, che l’ho ricevuto e letto tutto d’un fiato, ne consiglio la stesura con un gruppo editoriale e, soprattutto, la lettura alle care genti di mare e ai parenti e amici che per noi vegliano, condividono e pregano per noi uomini di mare e di guerra.

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    Gli Eroi come Simone Neri sono vittime dell’indifferenza

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

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    ezio-pancrazio-vinciguerra-www-lavocedelmarinaio-com_10La storia di Simone Neri e degli Angeli di Giampilieri ha trovato spazio nei “salotti televisivi” o sulle prime pagine dei grandi giornali nella settimana imminente a quel tragico 1° ottobre 2009.

    Salvo rare eccezioni, Istituzioni comprese, oggi non se ne parla più.
    Il tentativo di cercare far cadere nell’oblio notizie che parlano di tragedie umane, singole e collettive, che dovrebbero far riflettere e allo stesso inorridire la pubblica opinione, ci sfiora o meglio ci colpisce solo se il dolore assume carattere personale.
    Il dolore è un umano sentimento ed è anche una condizione che fa soffrire molto le persone sensibili.
    Non tutti siamo sensibili come non tutti riusciamo a sopportare la sofferenza per la perdita di una persona a noi cara che non c’è più.
    Un rimedio alla sofferenza c’è: sarebbe sufficiente che non ci fosse indifferenza. Basta poco quindi per alleggerire la nostra coscienza da questo fardello, liberandolo dal peso dell’indifferenza.
    No, non sto piangendo, mi tengo il volto tra le mani, per scaldare la mia solitudine.
    Mani che proteggono, nutrono ed impediscono alla mia anima di vivere nella rabbia.
    Quando si rimane indifferenti, l’amore rimane intrappolato in una rete e non lo fa uscire.
    Il cuore è fatto per amare ed il cuore “cristiano” di ognuno di noi non ha dubbi, sa chi deve amare: “Il prossimo suo come se stesso”.
    Risuonano forti e chiare le parole di San Giovanni Paolo II in un Natale di tanti anni fa:
    “L’uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio. L’altezza di questa vocazione soprannaturale rivela la grandezza e la preziosità della vita umana anche nella sua fase temporale”.

    A Natale si celebra la vita che nasce, il Verbo che si incarna per abitare insieme a noi. Proprio il mistero del Natale ci ricorda che la vita è sacra.
    A nessuno “umano” è concesso di cambiare il corso dell’esistenza.

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    In ricordo di Simone Neri (Joseph Gorgone)

    di Joseph Gorgone

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    In ricordo di Simone Neri
    di Joseph Gorgone

    Qual più grande sacrificio, si possa fare;
    se non la propria vita per l’altrui dare?
    Sacrificio supremo, in terra oppure in mare;
    gesto nobile e bello, generato dal saper amare!
    Alla propria salvezza, sul tetto di casa sua rinunziò
    e senza pensar due volte, nel fango si buttò;cercò,
    trovò e per ben otto volte l’altrui vita egli salvò
    udito il pianto di un bambino, il fango lo richiamò.
    Quel pianto di bimbo voleva trovare e placare,
    per l’ennesima volta, Simone si mise a cercare;
    brancolando nel buio e nel fango quella sera,
    Simone, non trovò il bimbo e ne lui poté tornare.
    Trent’anni non compiuti, una vita da esplorare;
    una donna che lo amava, or è sola a ricordare.
    La famiglia tutta affranta, sol possiamo consolare,
    e le gesta di Simone ai posteri ricordare.

    qui-e-stato-ritrovato-il-corpo-di-simone-neri-www-lavocedelmarinaio-com-copia

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    A caccia di Enigma

    di Claudio53

    Diritti riservati dell’autore per gentile concessione a www.lavocedelmarinaio.com (vietata la duplicazione, anche parziale, se non autorizzata dall’autore).

    1 – Operazione Ruthless
    Il 12 settembre 1940 un uomo dell’intelligence britannico, Ian Fleming, propose di catturare un nave della kriegsmarine. Si doveva lanciare un finto SOS simulando un incidente di un aereo tedesco nel Canale della Manica e mettere in mare un battellino di salvataggio con dentro 5 soldati britannici vestiti da aviatori tedeschi e che simulavano, con le bende e con le uniformi sporche di sangue, di essere feriti. Una volta recuperati da una unità tedesca di salvataggio, presumibilmente una R-Boot (Dragamine impiegato in maniera polivalente), dovevano impadronirsi della nave, uccidere l’equipaggio, gettarlo in mare e portare l’unità in un porto del Regno Unito.
    Accolta la proposta l’intelligence britannico pianificò l’Operazione Ruthless con l’obiettivo di poter catturare su una nave tedesca un esemplare della macchina Enigma. Il piano che doveva essere realizzato ad ottobre del 1940 ma non fu mai attuato.
    Ian Fleming alla fine della Guerra incomincerà a scrivere romanzi di spionaggio e diventerà famoso inventando il super agente dei servizi segreti 007.

    2 – Operazione Primrose
    E’ un’operazione iniziata nel febbraio del 1940 e conclusa nel 1941. Anche se studiata solo per i sommergibili, nella rete di questa operazione caddero anche unità navali.
    a) U-Boot 33
    Il 5 febbraio 1940 l’U-Boot U-33 partì da Wilhelmshaven (Ge) per svolgere una audace missione di minamento alla foce del fiume Clyde sulla costa occidentale scozzese dove si trova, sulla riva est del Gare Loch a nord del Firth of Clyde a circa 25 miglia ad ovest della città di Glasgow, una importante base navale inglese (oggi base dei sommergibili nucleari britannici). Tale base era l’ancoraggio più importante degli Alleati nella parte orientale dell’Oceano Atlantico.1-u-boot-U33-foto-internet-www-lavocedelmarinaio-comDopo una navigazione in un mare in tempesta, il battello raggiunse la foce del fiume la sera dell’11 febbraio entrando nel Firth of Clyde intorno a mezzanotte tra 11 ed il 12. Contemporaneamente il dragamine britannico HMS “Gleaner” era in pattugliamento a sud dell’isola di Arran.

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    Verso le 02.50 le vedette del sommergibile avvistarono a poca distanza l’unità nemica. L’U-33 si immerse nella speranza di non essere stato visto cosa che così non fu perché il Gleaner, anche se in maniera saltuaria, prese contatto e riuscì a mantenerlo. Iniziò una lunga lotta anti sommergibile con il lancio di numerose bombe di profondità e che finì alle prime luci dell’alba quando, alle ore 05.22, l’U-Boat venne in superficie. Il “Gleaner” aprì il fuoco con le armi di bordo ma dopo 5 minuti cessò il tiro per prepararsi a speronare il battello.
    L’azione fu subito annullata quando fu osservato che l’equipaggio del U-33 si era riunito sul ponte superiore, con le mani sollevate in aria in segno di resa e successivamente si buttarono nell’acqua gelida per raggiungere l’unità inglese. Il dragamine si era appena posizionato a 250 metri di distanza, con rotta parallela al sommergibile, quando una esplosione fece scuotere il battello che affondò dopo pochi minuti. Il Comandante dell’U-33 aveva fatto collocare delle cariche esplosive ed aveva fatto distribuire i rotori del codice Enigma a 3 marinai con l’ordine di gettarli in mare quanto più distante dal sommergibile. Intanto nelle gelide acque iniziarono le operazioni di recupero del personale tedesco, a cui parteciparono altre unità da Guerra britanniche ed anche pescherecci giunti sul posto. Su 42 uomini di equipaggio i sopravvissuti furono 17 ed i morti 25. Addosso ad un prigioniero furono trovati tre rotori della cifrante Enigma di cui due erano il VI ed il VII impiegati solo dalla Marina Militare, ovvero si scoprì che la Kriegmarine impiegava più rotori per crittografare le sue comunicazioni.

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    L’azione fu subito annullata quando fu osservato che l’equipaggio del U-33 si era riunito sul ponte superiore, con le mani sollevate in aria in segno di resa. I sopravvissuti si buttarono nell’acqua gelida ed il dragamine si era appena posizionato a 250 metri di distanza, con rotta parallela al sommergibile, quando una esplosione fece scuotere il battello che affondò dopo pochi minuti. Il Comandante dell’U-33 aveva fatto collocare delle cariche esplosive ed aveva fatto distribuire i rotori del codice Enigma a 3 marinai con l’ordine di gettarli in mare quanto più distante dal sommergibile. Iniziarono le operazioni di recupero del personale tedesco, a cui parteciparono altre unità da Guerra britanniche ed anche pescherecci. Su 42 uomini di equipaggio i sopravvissuti furono 17 ed i morti 25. Addosso ad un prigioniero furono trovati tre rotori della cifrante Enigma di cui due erano il VI ed il VII impiegati solo dalla Marina Militare, ovvero si scoprì che la Kriegmarine impiegava più rotori per crittografare le sue comunicazioni.

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    Ancora oggi, il relitto dell’U-33 si trova 53 metri di profondità nel Firth of Clyde in PSN 55° 21.29′ Nord e 05° 01.41′ West.
    b) Nave meteo KMS München
    A Bletchley Park, il crittologo Harry Kingsley scoprì che le navi meteorologiche tedesche, di solito pescherecci riconfigurati con armamento che operavano isolatamente, utilizzavano gli stessi cifrari delle macchine Enigma impiegate sugli U-Boot. Fu chiaro allora che catturando una di quelle piccole navi sarebbe stato possibile non solo violare l’Enigma navale ma anche decifrare i messaggi verso gli U-Boot e quindi identificare la loro posizione.
    Il piano per la cattura di una di queste imbarcazioni, nome in codice “EB”, fu ideato dal Capitano J.R.S. Haines, dell’Operational Intelligence Centre ed il 5 maggio 1941 la 18^ Squadriglia Incrociatori (costituita dalle navi HMS Edinburgh, Manchester, Birmingham e cinque Cacciatorpediniere di scorta) partì da Scapa Flow verso le acque della Norvegia con il compito di catturare il peschereccio München.
    La Nave fu intercettata e catturata il 7 maggio e fu inviata a bordo una squadra di abbordaggio. Sul München c’erano solo il Comandante, un altro Ufficiale e due uomini poiché il resto dell’equipaggio aveva già abbandonato l’unità. Benché il Comandante vedendo avvicinare le navi britanniche avesse fatto buttare a mare, come era prevedibile, la macchina Enigma e i codici del mese di maggio, furono recuperati i codici di giugno che arrivarono a Bletchley Park il successivo 10 maggio.
    Il München fu trasportato a Scapa Flow in maniera occulta e la fortuna volle che la Kriegsmarine pensò che la nave fosse affondata per cui il codice rimase in vigore regolarmente facilitando il lavoro dei Crittografi Britannici.
    c) Polares/Schiff 26
    Il 30 aprile 1940 il cacciatorpediniere HMS Griffin era in pattugliamento al largo della Norvegia. Alle ore 10.30 fu avvistato un peschereccio di nome Polares battente bandiera danese. Il Comandante del Griffin, John Lee-Barber, avendo ricevuto in precedenza una comunicazione che un’altra unità britannica era stata attaccata da una piccola unità tedesca mascherata da peschereccio olandese, decise di investigare inviando a bordo del presunto peschereccio una squadra di abbordaggio.
    Avvicinandosi all’unità da ispezionare il Comandante della squadra, il tenente Alex Dennis, notò che sotto il nome Polaris sembrava esserci un altro nome ed un telo, che da lontano sembrava coprire un’imbarcazione, invece nascondeva un cannone. I sospetti furono confermati quando a bordo furono accolti da un componente dell’equipaggio che parlava in inglese con un forte accento tedesco e fu notato che delle reti da pesca coprivano due tubi lanciasiluri. In sintesi, si trattava di un peschereccio requisito dai tedeschi il cui nominativo era Schiff 26. L’equipaggio del finto peschereccio si arrese subito quando uno della squadra di abbordaggio nel salire a bordo dell’unità d’istinto sfoderò la pistola.
    Mentre l’equipaggio si arrendeva dalla parte opposta dell’unità alcuni uomini buttarono in mare due sacchi. Uno affondò subito, dopo si seppe che conteneva la macchina Enigma, e l’altro rimase a galla. Un cannoniere della Griffin, sfidando l’acqua gelata con temperatura prossima allo zero, si getto in mare e dopo vari tentativi riuscì a recuperare il sacco che conteneva il registro dell’operatore alle comunicazioni con alcuni messaggi in chiaro e i corrispondenti testi cifrati, le configurazioni del pannello delle connessioni (plugboard) e la posizione di partenza di Enigma. Il peschereccio fu poi trainato in porto a Scapa Flow, ma anziché arrivare ed essere ormeggiato in segreto in un angolo del porto fuori da occhi indiscreti, fu rimorchiato come una preda da Guerra con la bandiera tedesca sventolante con sotto una bianca. La scena fu filmata da una troupe cinematografica ma per fortuna il film fu confiscato prima che potesse essere divulgato.
    Il materiale recuperato consentì di violare il traffico tedesco relativo a sei giorni di trasmissione della Kriegsmarine.
    d) U-Boot 110
    L’U-Boot 110 e l’U-201 l’8 maggio 1941 attaccarono nei pressi dell’Islanda il convoglio Britannico OB-318, che trasportava munizioni e armi destinate al fronte egiziano. L’U-110 individuato dalle Unità di scorta fu sottoposto ad una violenta reazione con lancio di bombe di profondità che lo costrinsero, per i danni subiti, all’emersione rapida. Appena in superficie il battello su sottoposto al fuoco dei Cacciatorpediniere e colpito iniziò ad imbarcare acqua. Il Comandante dell’U-110 credendo in un rapido affondamento dell’Unità diede l’ordine ai suoi di abbandonare il sommergibile e dispose di distruggere o sabotare tutto ciò che era possibile. Per motivi non noti l’ordine non venne eseguito. Poiché il sommergibile, pur essendo fortemente danneggiato, non stava affondando così rapidamente come sembrava, il Capitano di Fregata britannico John Baker Cresswell intuì la straordinaria opportunità che si presentava di tentare di recuperare a bordo eventuali codici tedeschi ed ordinò subito il cessate il fuoco. Fece rinchiudere nell’interno delle Unità britanniche i superstiti tedeschi recuperati in mare, in modo che non potessero vedere quello che succedeva all’estero, ed inviò a bordo dell’U-110 una squadra che riuscì a recuperare una la macchina cifrante Enigma, il manuale e le tavole per il posizionamento dei rotori oltre ad un gran numero di documenti amministrativi.

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    L’U110 fu preso successivamente a rimorchio ma affondò durante la navigazione. Questo evento favorì il mantenimento del segreto su quanto accaduto e consentì all’unità di crittoanalisi del Regno Unito di Betchley Park la decrittazione del traffico radio degli U-Boot sulla rete della Kriegsmarine denominata Hydra. Tale vantaggio operativo fu mantenuto fino all’inizio dell’anno 1942, quando l’introduzione della variante Triton nel sistema di cifratura tedesco, destinato alla flotta degli U-Boot, impedirà qualsiasi decrittazione dei messaggi radio fino a tutto dicembre dello stesso anno.
    3 – Operazione Jubilee
    Inizialmente denominata Operazione Rutter e successivamente Jubilee, fu un assalto anfibio condotto il 6 giugno 1944 che prevedeva lo sbarco sulle spiagge della cittadina di Dieppe nel nord della Francia. Le motivazioni che portarono all’esecuzione di questa Operazione, per molto tempo, furono giustificate con la necessità di distrarre truppe tedesche dal fronte orientale poiché la Russia era in difficoltà ed acquisire informazioni sulle operazioni anfibie nella zona atlantica della Francia, in previsione dello sbarco in Normandia. Con la declassificazione di molti documenti negli anni settanta si è potuto apprendere che un altro obiettivo dell’operazione era quello di impossessarsi dell’Hotel Moderne vicino al porto di Dieppe, dove era allocato il Quartier Generale della Kriegsmarine dell’Atlantico, con lo scopo di catturare dei materiali e documenti di Enigma. Per tale motivo il personale di Betchley Park era imbarcato su alcune Unità.

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    Nessuno degli obiettivi fu raggiunto ed in meno di 10 ore di duri combattimenti su 6.086 uomini che sbarcarono morirono o furono feriti o fatti prigionieri 3.367 uomini (quasi il 60%), in buona parte canadesi del Calgary Regiment del 1° Canadian Tank Brigade. La Royal Air Force perse 106 velivoli (rispetto al 48 persi dalla Luftwaffe) e furono affondati 33 mezzi da sbarco e un cacciatorpediniere della Royal Navy.

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    30.9.1940, Luigi Longobardi e il regio sommergibile Gondar


    di Antonio Cimmino

 e A.N.M.I. Stabia

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    Elettricista imbarcato sul sommergibile Gondar, attaccato con bombe di profondità da tre navi ed un aereo avversari per dodici ore consecutive, si prodigava instancabilmente nell’espletare, con bravura e decisione, i compiti affidatigli.

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    Determinatesi la necessità di emergere ed autoaffondare il sommergibile ormai reso inoperante dalle esplosione delle bombe, dava prova di eccezionale coraggio e profondo senso del dovere, restando al proprio posto di manovra fino alle estreme possibilità onde contribuire alla salvezza dell’unità.

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    Lanciatosi in mare negli ultimi istanti, restava investito dallo scoppio di bombe lanciate da aereo ed immolava la giovane vita per un estremo ideale di Patria che lo aveva trattenuto sulla sua nave oltre il dovere.
    Mediterraneo Orientale, 30 settembre 1940

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    Il foglio d’ordine n. 75 del 31.12.1945 – D.V.M. – del Ministero della Marina Italiana recita così:
    Elettricista di un Sommergibile che, gravemente avariato, non poteva più immergersi né combattere ed era stretto da forze avversarie; si offriva spontaneamente, con la sicurezza di dare la vita, per restare sul Sommergibile ed affondarlo, e impedire così che, riparata la sua nave, potesse divenire nelle mani del nemico strumento di offesa e di morte contro le nostre navi e i nostri marinai. Davanti a questo atto di Eroismo Supremo anche il nemico piegava il capo ammirato”.