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    10 febbraio 2024 “Foibe”, noi non dimentichiamo

    a cura di quelli che non dimenticano mai

    Foibe, Auschwitz, la vita è odio o amore?
    A pagare sono sempre gli innocenti.

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Fino a pochi anni fa, quando si parlava di Foibe in Italia valeva quanto riportato in un celebre e diffuso dizionario della nostra amata lingua, che semplicemente usava la definizione di “dolina carsica”. Nulla che potesse richiamare una verità terribile e scomoda per la storiografia ufficiale, ovvero quegli eccidi compiuti dalle truppe titine a danno della popolazione italiana particolarmente tra il 1943 e il 1947, anche molto dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Barbarie tanto più odiosa, perché compiuta contro degli inermi, donne e bambini, anziani, colpevoli solo di essere italiani, in un clima di odio diffuso che prendeva rapidamente i contorni di una vera e propria pulizia etnica. Il dolore dei profughi, negli anni seguenti, è stato se possibile reso ancora più forte dal silenzio calato sull’intera vicenda, e chi è sopravvissuto ha dovuto anche sopportare, oltre alla perdita dei propri cari e ad atrocità di ogni genere, l’umiliazione di sentirsi straniero in Patria, testimone scomodo di una realtà che si voleva a tutti i costi rimuovere e dimenticare. 
“A pagare sono stati e sono sempre gli innocenti“
. L’uomo continua la sua strage degli innocenti, ammassandoli come rifiuti senza una degna sepoltura, ne una Prece, ne un ricordo…
    La barbarie umane compiute contro degli inermi, colpevoli solo di essere creduti dalla parte sbagliata, alimentano odio; un odio esteso subito anche dal mondo animale e vegetale.
    L’odio, perpetrato nell’omicidio, nella pulizia etnica, nell’inquinamento, nell’affannosa ricerca al benessere sfrenato, non ha colore o ideologia: è odio!
    L’amore è il contrario dell’odio.  Ma questo decantato amore è latente perché siamo peccatori, perché siamo sordi e non sappiamo più ascoltare col cuore, perché siamo pronti a giudicare e non sappiamo perdonare, perché ci professiamo  sempre innocenti e non conosciamo più vergogna, perché siamo i primi a scagliare le pietre pur sapendo di essere complici e colpevoli: complici dell’omertà del silenzio e colpevoli o correi di omissione alla verità.
    Perché non arrossiamo alla vergogne nostre e degli altri rendendoci  complici di fronte a quell’odio che è peccato? Che cos’è il peccato? E l’espiazione al peccato che cos’è? Siamo ancora credenti? La vita, la nostra, è odio o è amore?

    Foibe e infoibati
    di Ottaviano De Biase

    In occasione dell’istituzione nel febbraio 2004 della “Giornata del Ricordo” delle foibe e dell’esodo abbiamo assistito a tutta una serie di dichiarazioni, trasmissioni televisive e radiofoniche, interventi da parte dei media e dibattiti politici, tutte con l’intento di fare piena luce su un problema politicamente ignorato per troppi lunghissimi anni. Analogo discorso andrebbe fatto sul reale numero delle vittime. Sempre nel 2004, l’On. Fassino parlava di 2000 infoibati, viceversa l’allora Ministro dell’Informazione On. Gasparre riteneva che le vittime fossero addirittura milioni. Ricordiamo anche che già nella primavera del 2002 il Presidente Ciampi andò a Trieste per sostenere che le foibe furono un esempio di “pulizia etnica”, focalizzate a cancellare la presenza italiana in Istria, in Dalmazia e in tutta quell’area oggi chiamata Venezia Giulia.
    Ma come stanno oggi le cose? Non bene. La recente visita nel Friuli (Udine, Aviano, Monfalcone, Gorizia: città ove ho presentato il mio ultimo romanzo “Notti di veglia in guerra fredda”) mi ha dato la possibilità di confrontarmi con studiosi locali sullo scottante tema della pulizia etnica, attuata dall’esercito italiano, durante l’occupazione della Slovenia, della Dalmazia, e dell’Istria.
    Lo studioso Giacomo Scotti lo spiega parlando di interi paesi rasi al suolo, di 11606 internati civili sloveni e croati morti nei lager italiani tra il 1941 ed il 1943 che, secondo le direttive emanate dall’allora generale Gastone Gambara, sarebbero stati lasciati morire d’inedia e malattie varie. Seguì poi l’8 settembre 1943. Seguì cioè l’occupazione della Venezia Giulia, nonché parte del Friuli e la provincia di Camaro (Fiume), da parte dell’esercito germanico con l’annessione al Reich col nome di Adriatisches Kustenland (Litorale Adriatico). Sul versante opposto abbiamo i partigiani di Tito ed i primi scontri tra civili ed esercito invasore.
    Antun Giron, partigiano nonché storico di Fiume, nel 1945, a distanza di due anni dal suo ritorno da un campo di concentramento nel Friuli, ebbe a scrivere: All’inizio a nessun italiano è stato fatto nulla di male. I partigiani avevano diramato l’ordine che non doveva essere fatto del male a nessuno. Ma qualche giorno dopo lo scoppio della rivolta popolare, alcuni corrieri a bordo di motociclette sidecar hanno portato la notizia che i fascisti di Albona avevano chiamato e fatto venire da Pola i tedeschi in loro aiuto e questi avevano aperto il fuoco contro i partigiani. Poco dopo si è saputo che i tedeschi erano stati chiamati in aiuto anche dai fascisti di Canfanaro, Sanvincenti e Parendo, fornendogli informazioni sui partigiani (…) Pertanto partigiani e contadini hanno cominciato ad arrestare ed imprigionare i fascisti (…) i partigiano decisero di fucilarne solo alcuni, i peggiori. Purtroppo quando, alcuni giorni più tardi, cominciarono ad avanzare i reparti germanici, i partigiani vennero a trovarsi nell’impaccio, non sapendo dove trasferire i prigionieri fascisti per non farli cadere nelle mani dei tedeschi. In questo imbarazzo hanno deciso di ammazzarli. Ne hanno uccisi circa 200 gettando i corpi nelle foibe.
    Questa di Scotti, anche se di parte in quanto partigiano di Tito, è la prima vera, diretta tragica testimonianza. Particolarmente gravi ci sono sembrate le dichiarazioni fatte a suo tempo dal segretario del PCI Fausto Bertinotti che, in assenza di una reale conoscenza storica della materia, ebbe a dichiarare, riprendendo le tesi di due noti storici, anch’essi dichiarati comunisti, Pupo e Spazzali, che bisognava condannare il modo di fare informazione, ritenendolo, nei riguardi della verità storica, nocivo in particolar modo sotto l’aspetto politico. La realtà è che a partire dal 1945 la sinistra sapeva e tacque!

    La pulizia etnica jugoslava del 1945
    A tacere lo furono un poco tutti. Sul versante opposto, infatti, abbiamo la seguente situazione. Dopo la battaglia di Basovizza del 30 aprile 1945, la gente del posto gettò in una foiba detta “Pozzo della Miniera” un imprecisato numero di soldati italiani e civili. Il 1 maggio 1945 a Trieste e a Gorizia si insediò il potere popolare controllato dall’Esercito di Liberazione Jugoslavo, seguirono 40 giorni di inauditi massacri e vendette personali e retroattive.

    Molti dei militari arrestati nelle zone occupate di Trieste e Gorizia furono internati nei campi di lavoro di Borovnica, a qualche chilometro da Lubiana. In quello stesso campo furono pure internati i bersaglieri del battaglione “Mussolini”, catturati nella zona di Tolmino, e alcuni corpi appartenenti alla Guardia di Finanza, Polizia di Stato, Carabinieri, militari della X.ma Mas, ed altri. Circa 4500. Alcuni di loro, una volta riconosciuti essere gli esecutori dei vari rastrellamenti effettuati dal 1941 al 1943, furono immediatamente fucilati. In gran numero furono lasciati morire di tifo e di stenti.

    Testimonianze di prima mano
    Le foibe esplorate e censite sarebbero più di 60. La voragine nota come Foiba di Basovizza è in realtà il pozzo di una vecchia miniera abbandonata. Sui cui massacri, avvenuti tra il 2 e il 5 maggio 1945, vi è una nota del successivo 14 giugno del Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste, inviato alle autorità angloamericane appena insediatisi. Si legge in questa nota: Nelle giornate del 2-3-4- e 5 maggio numerose centinaia di cittadini vennero trasportate al cosiddetto POZZO DELLA MINIERA, in località presso BASOVIZZA, e fatti precipitare nell’abisso profondo circa 240 mt. Su questi disgraziati vennero in seguito lanciate le salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti e le carogne putrefatte di alcuni cavalli.
    Il 29 giugno, apparve su Risorgimento Liberale la seguente notizia: Grande e penosa impressione ha destato in tutta l’America la notizia, proveniente da Basovizza presso Trieste, circa il massacro di oltre 400 persone da parte dei partigiani di Tito.
    Scrive, al riguardo, don Flaminio Rocchi, nel suo libro di memorie: L’esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati, del 1971. Dal primo maggio al 15 giugno 1945 sono state gettate in questa voragine 2.500 tra civili, carabinieri, finanzieri e militari italiani, tedeschi e neozelandesi…”, a riprova che non tutta la verità era stata fatta emergere. Molte vittime,continua don Rocchi, erano prima spogliate e seviziate. E’ da notare che tra le vittime risultano moltissime donne e bambini. A volte intere famiglie, come il caso della postina di Sant’Antonio in Bosco, Pettirossi Andreina, che venne precipitata nella foiba insieme al marito ed alla figlioletta di due anni…
    Ma c’è anche chi da quelle viscere riuscì ad uscirne vivo. Racconterà Giovanni Radeticchio, sopravvissuto di Sirano. “…mi appesero un grosso masso, del peso di circa 10 kg, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Udovisi, già sceso nella foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell’acqua della foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l’ultima vittima gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più. Sono uscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella foiba per un paio di ore. Poi col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba…
    Molte sono le testimonianze che ci consentono di capire le reali difficoltà di quei giorni terribili. Claudia Cernigoi in “Operazione foibe” racconta tra l’altro di Giuseppe Cernecca, che, di ritorno da un viaggio a Trieste, fu arrestato da tre slavi mentre stava cenando in una osteria di Cittanova. Fu portato al comando, interrogato, bastonato, senza alcun valido motivo. Seguì il trasferimento a Cimino, sede del quartiere generale del temutissimo braccio destro di Tito, tal Ivan Motika, e da questi fu condannato a morte. In una cella accanto alla sua ritrovò la sorella con quattro suoi ragazzi: riuscì a trattenersi solo poche ore… Il mattino seguente fu lapidato e gettato in una fossa comune…
    In ordine al pietoso recupero delle salme nelle zone della Venezia Giulia rimasta all’Italia, anche in relazione del fatto che due tra le più grandi foibe: quella di Basovizza e di Monrupino, contenenti migliaia di cadaveri, furono rozzamente tappate con un solaio di cemento. L’allora Ministro della Difesa, On. Giulio Andreotti, incalzato dalla stampa nazionale ed estera, sull’argomento si espresse in questi termini: La chiusura è del tutto provvisoria. Essa è costituita da lastre di cemento poggiate su travi di ferro e munite di anelloni per il loro sollevamento. La chiusura non preclude quindi la possibilità del recupero delle salme giacenti nel fondo del pozzo, recupero che sarà effettuato quando sarà possibile superare le molteplici e serie difficoltà di ordine igienico e di sicurezza. Un decreto del Presidente della Repubblica, Luigi Scalfaro, datato 11 settembre 1992, dichiarò la foiba di Basovizza monumento nazionale.
    Altra foiba tristemente nota è quella di Plutone. Altra voragine che si apre sul Carso triestino, sulla strada che porta a Gropada. Segue la grotta di Sath, che si trova a circa 500 metri da Basovizza, sempre sul Carso, lungo la strada per il paese di Jezero. Anche in questa grotta furono scoperti un gran numero di corpi marcescenti di soldati italiani e civili. Anche qui, pur di nascondere ogni traccia, i partigiani di Tito vi gettarono esplosivo e nitroglicerina. Tra queste poche citazioni meriterebbero il giusto spazio quelle di tante altre persone scomparse o uccise a Trieste ed a Gorizia nel periodo dei tragici 40 giorni di amministrazione jugoslava o perché arrestate in base a denunce di privati cittadini, ritenutisi vittime del precedente governo fascista.

    I processi
    Quello di Trieste, il più importante, si aprì il 3 gennaio 1948. In seguito furono istituiti decine di altri processi tutti per foibe. Tra questi vi è quello altrettanto triste di San Sabba che andò in aula solo nel 1976. Molti conobbero il carcere; altri, per aver fatto perdere ogni traccia, furono condannati in contumacia. L’amnistia, concessa dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, pose la parola fine .

    Una polemica infinita
    L’uscente  Presidente della Repubblica, Napolitano, ha di recente accusato un poco tutti di aver tenuto nascosta la verità alla Nazione; tale presa di posizione, per quanto si è potuto leggere sulla stampa, sembra sia stata mal digerita dal protempore collega croato, Mesic. Come è possibile? A Gorizia ho avuto il piacere di discorrere con il Generale di Brigata, Sabatino Aufiero, mio conterraneo, il quale, riguardo l’aspetto foibe, mi confermava che tutto quanto ha avuto origine nel 1943 quando – ormai era chiaro a tutti che la guerra era persa – Tito, avuto l’appoggio di Togliatti, fece pressione per annettersi tutta la Venezia Giulia; al seguito poi della rottura con Mosca, l’allora segretario del PCI italiano scelse apertamente di stare al fianco di Stalin, non solo inimicandosi Tito quanto impedendo a tanti nostri soldati prigionieri in Russia, e a tutti quei comunisti italiani che erano andati in Jugoslavia a lavorare per una causa che credevano giusta, per favorire la ripresa economica in particolar modo di Pola e di Fiume, di fare rientro in patria. Altra chiave di lettura che spiega la vendetta cieca degli Slavi, tesa a colpire tutto quello che era italiano, anche per creare, come del resto abbiamo visto nell’ultimo conflitto balcanico, un regime di stragi e di terrore mirato a far migrare, come poi è successo, intere popolazioni.

    Una lezione di vita
    Molti sono gli intellettuali che hanno preso le distanze dai politici di sinistra e di destra del tempo. I primi, come sappiamo, avevano cercato di imbavagliare una realtà per molti scomoda, mentre i secondi avevano cercato in tutti i modi di ingigantirla. Tuttavia la strada che ci porta dritto verso la verità è tuttora in salita in quanto troppi lati oscuri sono circonfusi da una palpabile ipocrisia. Questo spiega il clima sospettoso delle varie etnie presenti in quell’area. La stessa Legge dello Stato che ha riconosciuto il 10 febbraio come il Giorno della Memoria, non è che il primo passo verso il definitivo riconoscimento di responsabilità di una politica sbagliata in quanto priva di ogni fondamento storico ed umano.

    Una lezione che vale per tutti. Quando l’umanità si lascia trascinare dalla febbre del potere, dalla voglia di primeggiare e di prevaricare sull’altro, quando ci si lascia andare alla violenza cieca, si finisce sempre per generare altra violenza. Un continuo per dire che chi crede di doversi difendere con la violenza, altra violenza si deve pure aspettare. Chiudo col prendere in prestito un pensiero di Brecht, che recita più o meno così: “…impari l’uomo; però, prima impari ad essere di aiuto all’uomo”.

    Foibe, per non dimenticare
    di Lidia Bellavia

    Lidia Bellavia per www.lavocedelmarinaio.comFino a pochi anni fa, quando si parlava di Foibe in Italia valeva quanto riportato in un celebre e diffuso dizionario della nostra amata lingua, che semplicemente usava la definizione di  “dolina carsica”. Nulla che potesse richiamare una verità terribile e scomoda per la storiografia ufficiale, ovvero quegli eccidi compiuti dalle truppe titine a danno della popolazione italiana particolarmente tra il 1943 e il 1947, anche molto dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Barbarie tanto più odiosa, perché compiuta contro degli inermi, donne e bambini, anziani, colpevoli solo di essere italiani, in un clima di odio diffuso che prendeva rapidamente i contorni di una vera e propria pulizia etnica.
    Il dolore dei profughi, negli anni seguenti, è stato se possibile reso ancora più forte dal silenzio calato sull’intera vicenda, e chi è sopravvissuto ha dovuto anche sopportare, oltre alla perdita dei propri cari e ad atrocità di ogni genere, l’umiliazione di sentirsi straniero in Patria, testimone scomodo di una realtà che si voleva a tutti i costi rimuovere e dimenticare.
    “A pagare sono stati e sono sempre gli innocenti”
    L’uomo continua la sua strage degli innocenti,  ammassandoli come rifiuti senza una degna sepoltura, ne una Prece, ne un ricordo…


    Abdon Pamich, il fiumano che correva più forte di tutti

    di Andrea Arena

    Con quel nome un po’ così e quelle due medaglie olimpiche sul caminetto verrebbe da pensare ad uno sciatore altoatesino. O a un bobbista. O a qualche altro sangue misto naturalizzato in fretta e furia per assicurare qualche medaglia in più alla vecchia italietta. Invece Abdon era più azzurro dell’azzurro del cielo, dentro si sentiva italiano, ed era nato in terra italiana, quando Rijeka si chiamava ancora Fiume e il tricolore sventolava sull’Istria.

    Ma poi ci fu la guerra, e dopo arrivarono i cattivi, e ai cattivi gli italiani non piacevano. Li facevano sparire nelle foibe, quando andava male, e quando andava bene invece li torturavano e basta. E allora il fratellone di Abdon decise che era meglio scappare dalla furia jugoslava, e di andare in Italia, dentro i confini di quella Patria che s’era spostata di qualche centinaio di chilometri a causa di patti scellerati e bottini di guerra. Scapparono, allora, due ragazzini a piedi per giorni e giorni, e chilometri e chilometri. Profughi, poveri, soli. Al freddo e alla fame nei centri per gli sfollati.
    Così crebbe Abdon, e si fece la scorza dura. E vent’anni dopo, a Tokyo ’64, quella pellaccia gli servì per andare più forte di tutti e regalare la medaglia d’oro nella marcia alla sua Patria, alla sua Italia.

    Io Francesco Ruggieri, emigrante di poppa e profugo istriano
    di Francesco Ruggieri e Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Ciao Ezio,
    grazie per le foto ricordo complimenti, condivido il tuo operato su internet, W la Marina Militare Italiana orgoglioso di aver servito con onore come il Marinaio Fumarola di cui io ti ho già scritto tempo fa e il tuo sito mi ha dato le dritte nella ricerca storica.

    Hai ragione da vendere quando affermi “Marinai per sempre”.
    Io ero profugo a Fiume (Croazia ex Istria ), avevo 5 anni nel ’43. Questa foto l’ho avuta in eredità da mia madre Fumarola Isabella sorella del defunto. Nei miei ricordi, nella mia mente lo chiamavano Angelo, ma il vero nome è Paolo come l’Apostolo perciò il discorso fila … (*)

    Caro Ezio ti ringrazio anche perché io vivo a Milano, come emigrante di poppa, i miei parenti sono di Martina Franca.
    Ho letto il tuo libro e me lo sto divorando ancora una volta. Anch’io ho passato la guerra, i titini, l’Istria, le foibe di Fiume, proprio come il tuo papà Giorgio.
    E poi quei sapori dei dolci plumachelle che ti faceva la zia Sara, e il bottegaio che vi voleva fare u “culu russu”, la tua Sicilia la hai nel cuore…
    Ti chiamavano “u canterinu catanese”, lo sto rileggendo mentre mi imbarco per la Sardegna per doveri di famiglia (mia moglie è sarda).
    Sei veloce come un proiettile cal.6,5/ 91.
    Grazie a Dio di averti conosciuto solo mi devi scusare se sbaglio perché ho fatto le scuole Italo-Croate perché eravamo profughi giuliani. Mio padre era militare aggregato all’11° Reggimento Bersaglieri di Gradisca, poi ti racconterò la mia odissea: scappai dal campo profughi per venire in Italia ma al confine di Sezana i titini mi arrestarono. Avevo 12 anni eravamo nel 1950, poi se non ti stanco ti racconterò.
    Certo che per un meridionale come me aver fatto il profugo giuliano…
    Ciao Ezio, ti sono riconoscente a risentirci.

    Ciao Francesco,
    come ogni anni, ho deciso di pubblicare la tua mail il 10 febbraio… scusa per il ritardo ma sono certo di essere compreso e perdonato.
    La tua storia “giuliana”, le sensazioni di un marinaio di “confine come me” che ha provato col linguaggio del cuore il vero senso di “Emigrante di poppa”, si assomigliano.
    Quando scrivevo il libro, sotto la Sua dettatura, pensavo che gli emigranti di poppa siamo noi marinai reali e virtuali … soprattutto quelli di confine o confinati.
    Caro Francesco, io ti esorto a scrivere un libro autobiografico che può far comprendere, qualora ce ne fosse ancora di bisogno, di che cosa è capace la belva umana.
    Abbiamo parecchi amici istriani che non hanno dimenticato cosa è accaduto a loro e ai loro parenti… abbiamo il dovere “Sacrosanto” di raccontarlo a figli e nipoti.

    (*) https://www.lavocedelmarinaio.com/2014/08/angelo-fumarola-marinaio-a-tripoli/

    Giovanni Battista Acanfora, Capitano della Finanza
    di Antonio Cimmino 

    Istria (Domenico Leggiero)
    di Andy Holyred segnalato da Domenico Leggiero (*)

    L’Istria è un triangolo rovesciato di 4.956 chilometri quadrati. La base di 67 chilometri è attaccata alle radici del Carso triestino. A nord e a est è difesa dalla bianca cerniera delle Alpi Giulie e dalle creste dei monti Tricorno, Nevoso e Maggiore. Si allunga per 48 chilometri, si restringe fino ad immergere il vertice nel Quarnero.
    E’ fasciata da una costa di 500 chilometri, frastagliata da porticciuoli confidenziali e da baie sabbiose a mezza luna, circondate da rocce fantasiose che catturano e difendono il tepore.
    A sentinella delle cittadine costiere, ingioiellate di logge, di bifore e di campanili veneziani, ci sono molte piccole isole che nelle pinete nascondono ville e monasteri.
    Verso Fiume d’Italia, l’Istria si apre con un ventaglio di piante esotiche. In certi tratti, sotto il mare, sgorgano numerose polle d’acqua tiepida a 10 gradi.

    La legge agraria “Julia” del 49 d.C. aveva assegnato molti terreni costieri ai fanti, ai centurioni, ai cavalieri romani, ai veterani delle guerre di Augusto.
    I geografi hanno scelto la parola Carso per indicare un altipiano di petraia corrosa, che si presenta come tante schiene taglienti di antichi dinosauri pietrificati.
    Durante e alla fine dell’ultima Guerra Mondiale, i soldati si sono inseguiti rabbiosamente. Dodici mila, vivi e morti, sono stati buttati, come rifiuti nelle voragini. Centinaia di profughi, braccati dalle mitragliatrici, si sono mimetizzati con le pietre e i cespugli. Molti sono rimasti appesi al filo spinato. Lìalito freddo e violento della bora, l’odio e l’eroismo degli uomini hanno graffiato, inciso storie sfolgoranti di colori e di tragedie, di preghiere e di maledizioni. Poeti come Benco, Svevo e Slataper hanno celebrato l’Istria come un altare sacro e maledetto sotto un velo di fiori e di ricordi.
    L’Istria ha costituito durante la storia una frontiera difficile e tormentata tra la civiltà latino-veneziana e quella slava. Il nome Istria deriva da “Histrum”, un affluente del Danubio che scorreva attraverso la penisola. Agli albori della Storia era popolata da veneti del nord, da liburni lungo la costa, da istri del sud.
    Ai tempi dell’ impero romano e per secoli, l’Istria visse nella “Pax Romana”. Fondata Aquileia (Forum Julii), i romani inviarono in Istria 15 mila coloni e fondarono le colonie di Trieste (Tergeste) e di Pola(Pietas Julia) dal nome della figlia di Augusto), i municipi di Parenzo (Parentium), i “Vici”, cioè i villaggi di Fasana (Fasanum) e di Nesazio (Nesathium), di Orsera (Ursaria), di Rovigno (Rubinium), di Umago (Humagum). La grande via Flavia collegava Trieste, Pola, Fiume (Tarsaticum). Nel 27 d.C. Augusto concesse loro la cittadinanza romana. Il 13 gennaio dello stesso anno il Senato divise l’Italia in undici Regioni e creò la “Decima Regio Venetia et Histria” che si estendeva dall’Oglio al’ Arsa e dalle Alpi al Po. Comprendeva 51 mila chilometri quadrati.
    Un’ iscrizione augustea dice: “Haec Est Italia Diis Sacra” : questa è l’Italia sacra agli dei (si parla già di Italia non solo di Roma).
    La provincia diede a Roma guerrieri, tribuni, consoli, senatori e ammiragli e Roma lasciò le nobilissime orme della sua arte.
    Tutti conoscono ciò che accadde nel prosieguo della Storia, con l’avvento dell’Impero d’Oriente. Gli slavi avevano tentato invano di insediarsi in Istria nel 599 a seguito degli Avari, nel 602 a seguito dei Longobardi e nel 611 da soli. In piccolo gruppi apparvero nei secoli IX e X ma, come scrisse il Douroselle essi avevano “il carattere di incursioni e pirateria”. Egli aggiunge: “La lotta per la conquista della regione giuliana si riassunse storicamente tra romani e germani e, più tardi, tra italiani e austriaci. Ciò mette in luce uno dei fatti fondamentali di questa storia: mai, o quasi, gli slavi del sud, croati o sloveni, hanno preso parte direttamente in questo conflitto di sovranità e ciò è vero sino al 1918. Il regno croato ha potuto soltanto sfiorare la regione giuliana nei secoli X e XI”.
    Il leone alato è stato il simbolo della presenza veneziana. Il primo apparve nel 1250 su una vecchia torre dell’isola di Veglia. Da allora lo troviamo sulla facciata delle chiese, dei comuni, sulle porte d’ingresso, sulle vere dei pozzi, con il vangelo chiuso, simbolo di guerra, o con il vangelo aperto, simbolo di pace. Quasi sempre con la scritta: “Pax tibi Marce, Evangelista meus”.

    Per tornare ai tempi nostri non si può far a meno di evidenziare che durante la dominazione austriaca delle terre istriane e dalmate non si verificarono esodi di massa come poi avvenne con Tito. Nel 1945-47, il 90% degli italiani prese la via dell’esilio Durante la prima Guerra Mondiale ben 2.107 giuliani, dei quali 1.030 ufficiali passarono clandestinamente la frontiera e si arruolarono nell’esercito italiano, rischiando la forca. Uno spirito di italianità che trovò conferma nel primato dei caduti giuliani nel corso dell’ultima Guerra con 25.000 morti su un totale di 444.523. La Venezia Giulia ebbe 30 caduti ogni mille abitanti. La seguì il Friuli con 16 morti ogni mille. La Venezia Giulia con Trieste ha avuto 26 medaglie d’oro al Valor Militare.
    Il ministro Sforza, nel secondo dopo guerra, dichiarò in parlamento che dal 1928 al 1938 l’Italia aveva investito 430 milioni di dollari per spese speciali nella Venezia Giulia: In particolare vennero costruite 450 chilometri di strade e se ne sistemarono altri 4.034. Si costruirono 200 chilometri di ferrovia, 4 ponti, 1.065 case, 363 edifici pubblici, l’acquedotto istriano lungo 260 chilometri, 5 dighe marittime e altre portuali, 1.800 chilometri di elettrodotti, 6 centrali elettriche, 996 opere di bonifica, 14 compressori, il porto franco di Fiume e di Zara, il villaggio dell’Arsa per 6.000 minatori e potenziò la raffineria di Fiume.
    L’Italia dal punto di vista della civiltà e della cultura è la somma e la reciproca influenza fra le tradizioni, le culture, le civiltà delle sue molteplici e così varie regioni, delle sue “cento città”. Tessere insostituibili e indimenticabili sono anche quelle portate dall’Istria e dalla Dalmazia.
    L’Istria e la Dalmazia sono un immenso scrigno che custodisce l’essenza della nostra civiltà italiana: i castellieri degli antichi illirici, le pietre romane, i mosaici di Bisanzio, gli affreschi paleocristiani, le calli e i campielli veneziani etc.
    Il 16 aprile 1941 l’Italia dichiara guerra alla Jugoslavia e dopo 5 giorni le truppe italiane entrano a Lubiana ed occupano tutta la Dalmazia. Dopo soli 11 giorni la Jugoslavia capitola e chiede l’armistizio. l’Italia istituisce il Regno di Croazia e il Governatorato della Dalmazia. l’8 settembre 1943 l’Italia chiede l’armistizio agli alleati. I partigiani slavi dilagano disordinatamente nella Venezia Giulia. Trieste, Pola e Fiume rimangono, comunque, in mano ai tedeschi. Questa prima occupazione slava dura 35 giorni. Infatti, i tedeschi, appoggiati da “gruppi spontanei” italiani riprendono il dominio del territorio giuliano. Il 13 ottobre , gli ultimi gruppi slavi vengono rigettati oltre il vecchio confine e i tedeschi si inventano a Trieste l “Operationszone Adriatisches Kustenland ” (Zona di Operazioni del Litorale Adriatico) sotto il comando di un “Oberster Kommisar” (Supremo Commissario).
    Una seconda occupazione avviene dal 1° maggio al 15 giugno del 1945 e interessa tutta la Venezia Giulia, da Gorizia a Zara.
    Quando alla fine di aprile i tedeschi si ritirano, gli slavi occupano tutta l’Istria, comprese Trieste, Gorizia, Pola e Fiume. Zara è già in mani slave dal 30 ottobre del 1944. Questa seconda occupazione, si diceva, dura 45 giorni. Nel periodo tra il 12 e il 15 giugno 1945 gli jugoslavi, per ordine alleato, abbandonano i centri urbani di Gorizia, Trieste e Pola che passano alle dirette dipendenze dell’ AMG (Governo Militare Alleato). Tutto il rimanente territorio giuliano, comprese le città di Fiume e Zara, rimane definitivamente alla Jugoslavia.
    Una terza occupazione ha inizio il 15 settembre 1947. A seguito dell’entrata in vigore del trattato di pace gli alleati abbandonano la città di Pola che viene immediatamente occupata dagli slavi. In attesa della costituzione del Territorio Libero di Trieste, il Trattato di pace affida la Zona A (Trieste) all’amministrazione provvisoria alleata e la Zona B (Capodistria, Pirano, Umago, Buie, Cittanova) all’amministrazione Jugoslava. In base al “Memorandum” di Londra del 5 ottobre 1954 gli alleati si ritirano da Trieste che viene restituita alla Madre Patria, mentre la Jugoslavia continua ad amministrare “provvisoriamente” la Zona B. fino a quando, nel 1975, il governo italiano cede anche la Zona B.
    Le tre occupazioni si inquadrano in un groviglio di violenze belliche e politiche che trasformano la penisola istriana in un teatro di disumane guerriglie nelle quali si scontrano contemporaneamente sei fazioni armate. Qui, infatti, la guerra durerà più a lungo che nel resto dell’Italia. La Venezia Giulia registrerà il maggior numero di morti.
    A seguito del tradimento italiano dell’8 settembre 1943, i tedeschi entrano in Udine e Trieste dove, un reggimento di 500 soldati obbliga alla resa un Corpo d’Armata italiano. l’11 entrano a Pola e il 13 a Fiume.
    E il via ad una serie di atrocità ed atti di terrore perpetrati dalle diverse forze in campo.
    Circa 2.000 giuliano dalmati, inquadrati in 5 reggimenti della Milizia Difesa Territoriale, nei battaglioni “Zara” e “Rismondo”, nel battaglione bersaglieri volontari “Mussolini” e nella Decima Flottiglia MAS, combattono per la difesa ad oltranza dell’italianità della loro terra. In difesa dell’italianità dell’Istria lottano contro i comunisti slavi anche i volontari giuliani del 2° reggimento M.D.T. “Istria” al comando di Libero Sauro, figlio di Nazario, ed i partigiani giuliani al comando di Dino Leonardo Benussi.
    Una feroce guerra che culmina con l’esodo di 350.000 italiani.

    Con la tragedia giuliana compare un nuovo nome nel dizionario criminale “foiba” e il verbo “infoibare”. Le foibe sono voragini rocciose, create dall’erosione violenta di molti corsi d’acqua. Raggiungono i 200 metri di profondità e si perdono in tanti cunicoli nelle viscere della terra. Le pareti, viscide, nere, tormentate da sporgenze e da caverne, terminano su un fondo di melma e detriti. Le truppe slave, incattivite dall’attacco di quelle italiane che erano arrivate fino a Lubiana, provocate dagli incendi e rappresaglie italo – tedesche, logorate e incarognite dalla fame, dilagano sull’Istria con una terribile sete di vendetta. Un giornale slavo, il “Gorsk List”, scrive in data 16 agosto 1944: “irroreremo queste terre con il nostro sangue, ma porteremo i confini all’Isonzo”. I partigiani di Tito videro nella popolazione giuliana, non solo il nemico etnico secolare, ma anche i rappresentanti di un altro stato sociale, dello stato dei possidenti che venivano liquidati o radicalmente espropriati. Ora si conosce molto dell’orrore delle foibe ma non si deve dimenticare che Trieste e l’Istria hanno pagato un prezzo disumano durante l’occupazione tedesca e l’abbandono agli slavi dopo l’8 settembre del 1943. Migliaia di nostri connazionali sono stati gettati nelle foibe dai titini con un colpo alla nuca a talvolta precipitandoli senza neppure quello. Un cumulo di rancori e odi, di vendette e rappresaglie su “fascisti” che nella maggior parte dei casi erano soltanto italiani, ai quali far finalmente pagare la colpa della loro nazionalità. Molti giovani della Repubblica Sociale Italiana si sono sacrificati per difendere fino all’ultimo l’italianità delle terre di confine, ma inutilmente.
    Dobbiamo avere ancora la forza di inorridire per questo nostro olocausto, per i delitti di cui si macchiarono senza giustificato motivo i partigiani slavi: è vero che torturavano: è vero che fucilavano senza ragione. Il supplizio di legare i prigionieri per le braccia ai pali e tenerli così sospesi per molte ore era una normalità. Le grida di dolore facevano impazzire gli altri italiani prigionieri, costretti ad assistere ai supplizi.
    Non parleremo di cifre, ben altri autorevoli testimoni lo hanno fatto, ma ricordiamo, per tutti, Norma Cossetto.
    Norma era una splendida ragazza di 24 anni di S:Domenica di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l’Università di Padova. In quel periodo era solita girare in bicicletta per i Comuni dell’Istria allo scopo di preparare materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo “L’Istria rossa”(terra rossa per la bauxite).
    Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono anche nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone.
    Il giorno successivo prelevarono Norma: Venne condotta prima nella ex caserma della Finanza di Visignano assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici. Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte, con un camion, nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio; fissata ad un tavolo con alcune corde, è stata violentata da 17 aguzzini, ubriachi ed esaltati e quindi gettata, nuda, nella foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri di italiani d’Istria. Una signora di Antignana, che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì , distintamente, invocare la mamma e chiedere pietà.
    Suo padre era conosciuto e stimato per aver dedicato la sua vita allo sviluppo di quei paesi. Proprietario terriero, era stato podestà per tanti anni, commissario governativo della Case Rurali per la Provincia: Aveva dato impulso alla banda musicale ed aveva aiutato molti poveri della zona. Si trovava in quei giorni a Trieste: Informato dell’arresto della figlia, ma ignorandone la fine, si precipitò a S.Domenica con un parente invalido di guerra, Mario Bellini, giovane tenente, sposato da neppure un anno e con la moglie in attesa di un figlio. All’ ingresso del paese i partigiani lo rassicurarono che gli avrebbero consegnato la figlia. Verso sera lo trascinarono in un agguato: una mitragliata. Il Bellini rimase ucciso mentre il Cossetto rimase ferito. Si avvicinò allora un partigiano a dargli l’ultima coltellata. Si venne a sapere che proprio questo criminale,alcuni mesi prima, era stato salvato da sicura morte proprio dal Cossetto, il quale, essendo l’unico in zona a possedere un’automobile, lo aveva trasportato d’urgenza, di notte, all’ospedale di Pola. Le due vittime furono poi, a loro volta, gettate in foiba e ritrovate in seguito dal leggendario maresciallo dei pompieri Harzarich come anche le spoglie martoriate di Norma.
    L’Università di Padova, subito dopo la guerra, concesse a Norma la laurea Honoris Causa.

    Non è possibile giustificare tutto questo male fatto alla povera gente giuliana con l’attenuante di un comportamento feroce da parte dei militari italiani durante l’occupazione della Jugoslavia. Quando si è continuamente attaccati e uccisi da partigiani sanguinari è ovvio che i rastrellamenti e la “caccia ai banditi” non vengono portati avanti dai boy scouts, ma da soldati e comunque non certo dei sterminatori.
    Crediamo si sia semplicemente trattato di un odio atavico contro gli italiani ” padri, signori e artisti ” della “Decima Regio Venetia et Histria”.

    (*) Sito Web: http://www.osservatoriomilitare.it

    10 febbraio Foibe: “sono Italiano e devono morire”
    di Marino Miccoli

    Ogni 10 febbraio, ci ricordiamo di quelle vittime barbaramente trucidate sul finire della II guerra mondiale (…e purtroppo anche dopo il termine del conflitto) in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia per motivi politici ed etnici, ovvero anche per il solo fatto di essere Italiani.
    Sì, avete letto bene: uccisi perché erano Italiani.
    Considerati tutti fascisti, dal primo all’ultimo, furono giustiziati perché ritenuti oppositori del regime del dittatore Tito vittime del suo disegno che voleva l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. Tra le vittime ci furono diversi antifascisti, membri del Comitato di Liberazione Nazionale, che avevano combattuto per la Resistenza al fianco di quelli che sarebbero poi divenuti i loro assassini.
    La pianificazione dell’eccidio da parte delle Milizie Popolari Iugoslave prevedeva che gli Italiani fossero legati due alla volta, avessero i piedi e i polsi legati con del filo di ferro per poi essere condotti sull’orlo della voragine (la “foiba” appunto). Ad uno dei due italiani veniva sparato un colpo alla nuca così che il primo trascinava con sé, cadendo sul fondo dell’inghiottitoio, anche l’altro. Migliaia furono gli Italiani trucidati con questo “rituale” tragico e barbarico molti dei quali anche a guerra finita!
    Per quei pochi fortunati sopravvissuti ci fu lo sradicamento forzato e l’esilio, l’allontanamento definitivo dalle loro case, dalle loro città e da quelle terre su cui da tempi assai remoti sventolava il vessillo della Serenissima Repubblica di Venezia. Luoghi bellissimi dove il Leone di San Marco è scolpito sulle facciate di Chiese e di antichi palazzi.

    A seguito dell’occupazione slava si stima in 300.000 (trecentomila) il numero degli esuli Italiani di Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia.
    Oggi, dopo oltre 60 anni, il riconoscimento storico e l’istituzione della Giornata del ricordo ci deve far riflettere, e non poco, sull’assurda follia costituita dalla guerra e sui suoi frutti che per l’umanità sono sempre amarissimi e funesti.

    Di seguito si riporta uno stralcio della legge che venti anni fa istituì il riconoscimento di questa triste pagina di storia.

    Legge 30 marzo 2004, n. 92: Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2004).

    Art. 1. La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. […]

    La profuga Polese
    di Salvatore Contreras
    Caro Ezio,
    ricordo che negli anni ’50 Gaeta ospitò diverse centinaia di profughi Istriani. Li chiamavamo, genericamente, i “Polesi”. Propongo per la giornata di oggi la lettura di questa bellissima e sentita poesia in dialetto gaetano scritta con grande e particolare sensibilità dall’Amico Salvatore Contreras, che ringrazio. Io ne ho curato la trascrizione in italiano.
    Tuo Carlo Di Nitto

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    9.2.1943, affondamento del regio sommergibile Malachite

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    In ricordo del regio sommergibile Malachite, colpito “al cuore” alle ore 11.00 del 9 febbraio 1943, dal sommergibile olandese Dolphin.

    Il regio sommergibile Malachite era in missione di guerra sin dai primi mesi del 1941.
    L’unità era al comando del Tenente di vascello Alpinolo Cinti, di ritorno da una missione sulle coste algerine. L’ordine era quello di trasportare undici incursori del Battaglione San Marco, per un’azione di sabotaggio sulla costa algerina, con lo scopo di conquistare il ponte ferroviario di El Kejur.
    Il 6 febbraio 1943, sbarcata la pattuglia al largo di Capo Matifou, si dirigeva a terra.
    Il 9 febbraio 1943, colpito al centro da uno dei quattro siluri lanciati dal sommergibile olandese Dolphin, in agguato a poche miglia da Cagliari, si inabissò. 
Solo 8 membri dell’equipaggio si salvarono dal siluramento del Malachite che giace, da allora, a 124 metri di profondità.

    Caratteristiche tecniche
    Classe: Perla;
    Impostato: 1935;
    Varato e completato presso i cantieri O.Y.O. di La Spezia: 1936;
    Dislocamento: 855 t;
    Lunghezza: 60,18 m;
    Larghezza: 6.45;
    Immersione: 4,7;
    Velocità: 14 nodi e 7,5;
    Equipaggio: 44 uomini.
    La controplancia era dotata di deflettore per il vento e un paraspruzzi sotto i finestrini della plancia.
    Le camicie dei periscopi erano accorciate rispetto alle altre unità della stessa serie e la traversa di sostegno dell’antenna r.t. abbassata. L’armamento era simile alle altre unità gemelle con in dotazione anche un fucile mitragliatore da 6,5 mm.

    Dino Buglioni
    di Andrea Grelloni

    (Camerino, 18.3.1921 – Mare, 9.2.1943)


    Per la stesura di questo articolo ci tengo a ringraziare Gualberto Ferretti, ex sommergibilista e presidente della locale ANMI (Associazione Nazionale Marinai d’Italia) di Porto Potenza Picena, per le preziose informazioni confidatemi su Dino Buglioni, al cui eroismo e sacrificio questo contributo è dedicato.

    A primo impatto può apparire un fatto alquanto insolito inoltrarsi nell’entroterra del maceratese, a ridosso della dorsale appenninica, ed imbattersi di fronte ad un monumento in stile marinaresco.
    Il mare è lontano da queste terre, dove il paesaggio è caratterizzato in gran parte da montagne e rilievi collinari, a limite lo si può intravedere dalle cime più alte dei monti, in quelle limpide giornate prive di foschia che permettono allo sguardo di spingersi a chilometri e chilometri di distanza.
    Eppure, recandosi presso il piccolo borgo fortificato di Castel Santa Maria, nel comune di Castelraimondo, almeno con l’ausilio dell’immaginazione, è possibile respirare un po’ di aria marittima.
    Infatti, poco fuori le sue mura si trova una lapida commemorativa, con tanto di ancora appoggiata sul suo basamento, che attraverso le parole incise nel marmo ricorda la storia di un equipaggio di marinai che durante la Seconda guerra mondiale persero tragicamente la vita a bordo del sommergibile Malachite.
    Nella lastra spiccano anche le generalità di uno dei membri di quel valoroso manipolo; si tratta del sottocapo Dino Buglioni, ed è proprio lui a rappresentare il trait d’union che lega in maniera così indissolubile il mare alla montagna.

    Per conoscere la sua vicenda personale, insieme a quella del Malachite, bisogna andare parecchio a ritroso nel tempo ed addentrarsi negli eventi della storia italiana del secolo scorso.
    Dino Buglioni nacque il 18.3.1921 a Camerino da una famiglia di umili origini, forgiando la sua giovinezza secondo i valori del dovere e del sacrificio.
    Il destino di questo giovane ragazzo sembra già segnato a rimanere confinato nella sua terra, ma in testa ha altre ambizioni ed è il mare la fonte della sua aspirazione, così, motivato da una grande volontà di servire il suo Paese, appena sedicenne, si arruolò nella Regia Marina Militare in qualità di allievo elettricista.
    Superato il corso di base, fu inviato a bordo di un’unita di superficie dove ottenne la qualifica di sottocapo, finché con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 viene imbarcato a bordo del sommergibile Malachite.
    Quello del sommergibilista è un compito assai arduo e rischioso, per il cui adempimento è richiesta un’alta specializzazione tecnica, un grande coraggio e un forte spirito di adattamento, dovendo operare in spazi limitati ed in condizioni di elevata pressione psicologica.

    Nel corso della guerra il Malachite partecipò a numerose e diversificate missioni nel Mar Mediterraneo, consistenti nel trasporto di truppe e materiali bellici, nel pattugliamento nonché in azioni offensive, fino al giorno del suo affondamento.
    Nel febbraio del 1943, di ritorno da una missione in Algeria dove si era recato per sbarcare un gruppo di incursori, il Malachite, che si trovava in prossimità delle coste meridionali della Sardegna in procinto di attraccare presso il porto di Cagliari, fu intercettato da un sommergibile nemico, l’olandese Dolphin per la precisione, che con un siluro riuscì a centrarlo nella zona poppiera e nel giro di un minuto colò a picco.
    Dei quarantotto membri dell’equipaggio soltanto in tredici riuscirono a mettersi in salvo e tra questi non vi era Dino Buglioni che con il Malachite si inabissò nelle profondità marine senza più fare ritorno nella sua amata Castel Santa Maria, dove oggi quella lapide ne ricorda il supremo sacrifico.

    Dino Buglioni
    21/09/2008

    A nome dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia, porgo il saluto alle Autorità Civili, Religiose e Militari, alle Rappresentanze delle Associazioni d’Arma e Combattentistiche, a tutti i graditi ospiti e sopra tutti a Voi ragazze e ragazzi delle Scuole Elementari e Medie che sarete le donne e gli uomini di domani, madri e padri del futuro.
    Quella di oggi è la dodicesima volta che ci ritroviamo in Castel Santa Maria per ricordare il sacrificio di milioni di italiani per unire l’Italia e consegnarci, poi, un’Italia libera e democratica.
    Sicuramente per oggi avevate altri progetti, altri programmi.  Questo piccolo sacrificio, di cui siete artefici, non è sicuramente lo stesso che fecero i vostri nonni e le persone che hanno dato la vita per l’Onore dell’Italia e la sua Bandiera. Il passato va ricordato e valorizzato come salda radice che affonda nella realtà di ieri, per consentire al tronco di oggi di mettere nuove gemme e nuovi virgulti per il domani. Queste gemme e questi virgulti siete Voi, cari ragazzi. A voi spetta l’onere e l’onore di continuare sul percorso tracciato dai vostri nonni e bisnonni, magari migliorarlo e perfezionarlo, in modo che simili orrori non vengano più a mortificarci il cuore e l’anima. E’ preoccupante la caduta di tensione verso i valori della Patria e dell’identità nazionale che porta a relegare cerimonie come questa, nella dimensione del “nostalgico”: una di quelle rievocazioni retoriche del “bel tempo andato”. Non c’è dubbio che gli incontri tra veterani assomigli un po’ alle rimpatriate tra vecchi compagni di scuola, ma con una differenza davvero non trascurabile che nulla toglie al piacere del ritrovarsi: quello di un forte presidio del rigore e del dovere della memoria. Qui ogni analogia finisce e con essa ogni rischio di caduta in un malinteso spirito nostalgico che, in genere, tende a contrapporre il bel tempo antico ad un presente preferibilmente dipinto con toni apocalittici.
    La guerra, sia per chi vince sia per chi è sconfitto, porta solo lutti e distruzione!
    Se essere giovani, non è soltanto una condizione generazionale, ma anche una inestinguibile propensione ad affrontare la vita con slancio e con spirito positivo, allora dobbiamo dire che la manifestazione di oggi è un’occasione veramente straordinaria per esprimere questo sentimento e questo senso giovanile della vita. Esser giovani nello spirito avendo l’età rispettabile del veterano, significa sempre e prima di tutto rifiutare questo atteggiamento persino quando esso, basandosi su dati di fatto, può trovare negli eventi dell’attualità una qualche consistente  ragione. Il compito, diremmo la missione, del veterano è la quinta essenza del pensare positivo. E’ il mettere la propria esperienza al servizio dei giovani che affrontano oggi, nel mutato spirito dei tempi, difficoltà non dissimili nella sostanza a quelle che hanno affrontato le vecchie generazioni. Quando si riesce a svolgere questa azione di supporto, mettendo a frutto davvero il privilegio e il saper vivere che deriva dall’esperienza, allora si dà un contributo fondamentale alla crescita della società e alla capacità dei giovani di assicurarle un futuro migliore.
    Per essere vissuta e capita dai giovani di oggi la rievocazione del passato non deve cadere nella retorica, ma si deve riproporre con la semplicità, il rigore, il senso della misura di chi, raccontando la propria esperienza, vuole contribuire alla formazione delle generazioni dei propri figli e dei propri nipoti.
    Il nostro dovere è quello di non soccombere alla nostalgia, che pure è un sentimento degno e rispettabile, ma di ricercare e di trovare nella nostra storia, nei volti e nella gesta degli uomini che l’hanno nobilitata, le ragioni che rendono le nostre radici e la nostra identità sempre più solide e forti.

    Il Sottocapo Elettricista “Dino Buglioni”
    La sua storia nella Regia Marina, anche se breve, è stata intensa. E’ durata soltanto cinque anni. Comincia da questa graziosa località di montagna, quando riceve la notizia che è stato accettato, come allievo elettricista, nella Regia Marina Militare. Correva l’anno 1937 ed Egli aveva appena sedici anni. Un forte giovincello, ancora imberbe, che aveva già nel cuore i valori di cui oggi si sono perse le tracce.  Dopo un anno di studi, superato il corso da elettricista, Dino, viene inviato a bordo di una Unità di superficie, sulla quale riceve i galloni di Sottocapo. L’Italia entra in guerra e il nostro Buglioni viene trasferito a bordo del Regio Sommergibile “Malachite”. Affronta, con successo, molte missioni, ma nel febbraio del 1942 al rientro da una missione in Nord Africa,  a 3 miglia a Nord di Capo Spartivento, vicino Cagliari, mentre era in superficie, viene individuato da un sommergibile olandese, il Dolphin, che lancia quattro siluri, tre dei quali vengono schivati dal Malachite ma il quarto lo colpisce affondandolo. Dei 52 uomini di equipaggio si salvano solo dodici marinai, ma tra questi non c’è Dino. Avrebbe compiuto 21 anni solo una settimana dopo l’affondamento. Quanto dolore, quanta costernazione, quale dramma, quante lacrime versate dalla mamma per l’unico fiore della sua casa. “Statti contenta” le avrà scritto Dino, che chi muore per la Patria e la Sua Bandiera, non muore mai. Certo è così! Il suo ricordo vivrà sempre, e fintanto ci saranno uomini che della memoria faranno un insegnamento per il futuro, la guerra non albergherà più nei nostri cuori. Il passato, è la garanzia dell’avvenire. Il Suo ricordo Vi ispiri, cari ragazzi, coraggio e fermezza nell’affrontare i compiti che la vita oggi vi affida, per missioni di pace e di fratellanza.  “Non torneremo mai! Tante le sofferenze ed il supremo sacrificio. Siamo i figli di tutta l’Italia. Siamo tanti. Sacrificati e dimenticati. Offesi dal lungo pesante silenzio. Abbiamo fatto il nostro dovere. Vi abbiamo insegnato ad amare la Patria. Se non ci ricordate Voi, noi siamo morti invano per l’Italia”.

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    La consapevolezza del dare

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    I naviganti sanno che quando un gruppo, come il nostro, vive nella consapevolezza che il ricordo (anche se doloroso) genera fraternità e condivisione, si crea una nuova mentalità, una cultura più del dare che del ricevere. Molti anni fa ho intrapreso la navigazione di una cultura, fatta di storia, fatta da donne e uomini, e vi ho aderito pienamente come del resto state facendo anche voi sottolineando, con articoli e commenti, consapevole che un nuovo Rinascimento è possibile.
    Se siamo ciò che siamo è perché abbiamo dato e ricevuto amore, ed è importante per noi continuare a condividere questo dono altrimenti rischiamo di diventare egoisti.

    Egoismo, invidia, superbia, è quanto di peggio possiamo ricevere o condividere … meglio ricevere o condividere la reciprocità dell’amore che è il modo più efficace per combattere il male in ogni sua forma.
    Quando viviamo nella reciprocità, creiamo una nuova mentalità e, soprattutto, la cultura del “dare”. Quando diamo, riceviamo centuplicato, viviamo per la fraternità e non per la quantità.
    Che sia molto o che sia poco, viviamola questa cultura del “dare”. 

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    Sergio Denti (Prato, 3.6.1924 – Pontassieve, 8.2.2018)

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    (Prato, 3.6.1924 – Pontassieve, 8.2.2018)


    Claudio Costa e la Ronin Film Production, nella loro vasta produzione, propongono anche eccezionali documenti storici, con interviste e filmati, frammenti di un passato recente della nostra italica storia.
    Proprio agli amanti della nostra storia non può certamente passare inosservato il racconto degli “MTM 548 e di Sergio Denti”.
    Sergio Denti falsificando i documenti di identità si arruola nella Regia Marina appena l’Italia entra in guerra. Ha sedici anni. Per due anni viaggia sulla Torpediniera Orsa, ed è protagonista di imprese eroiche meritando tre Croci al valor Militare.
    Dopo l’8 settembre, si arruola nella Decima Flottiglia Mas , agli ordini di Borghese. Sarà decorato con una medaglia di bronzo al V.M. La notte del 17 Aprile 1945, Sergio Denti a bordo del suo barchino MTM 548 carico di tritolo, scorge nel buio il cacciatorpediniere Trombe. Inizia il suo attacco… Danneggia irrimediabilmente la nave ma viene catturato dai francesi. Fugge e torna in Italia.
    Per il suo passato nella “Decima” viene imprigionato a Taranto, ma presto rilasciato e affidato a James Angleton, dei servizi segreti americani, che sta reclutando ex combattenti per una possibile guerra contro i comunisti che vogliono insorgere e prendere il potere in Italia. Sergio grazie ad Angleton riceve denaro e cibo, ed aiuta ex combattenti come lui a rimettersi in sesto. Tra questi “Raimondo Vianello” e i fratelli, che in quei giorni sono alla fame come molti reduci di Salò. La guerra con i comunisti non ci sarà, nel ‘46 la monarchia perde al referendum e Sergio torna alla vita civile, visto che la Marina Militare lo allontana, perché ha militato nella repubblica di Salò.
    Sergio diventa mercante d’arte.
    Viene riavvicinato dalla Marina in modo indiretto tramite l’Ammiraglio Gino Birindelli, che lo vuole con lui nella P2 di Licio Gelli, per il suo passato eroico. Ma Sergio dei giorni eroici ricorda soprattutto gli insegnamenti del suo Comandante Junio Valerio Borghese…

    MTM 548 durata 50 min. Colore 1:85
    EXTRA: l’MTM visto da vicino (Riprese realizzate presso
    il Museo della scienza e tecnologia LEONARDO DA VINCI di Milano).
    Una produzione Ronin Film Production
    Contatti diretti per richiesta DVD:
    roninfilmproduction@libero.it

    Sergio Denti
    da un artico di Liberohttps://digilander.libero.it/rsi_analisi/denti.htm

    Nasce a Prato, allora provincia di Firenze, il 3 giugno 1924. Dopo la scuola elementare, giovanissimo, entra come allievo nello studio del noto pittore Ottone Rosai. Il suo destino sembra poter essere la pittura, ma il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra. Sergio Denti ha sedici anni compiuti da sette giorni. La pittura è bella, ma i tempi richiedono un altro tipo di impegno. Il giovane ama fervidamente la sua Patria e ritiene di dover, anche lui, dare un contributo per la vittoria delle armi italiane.
    Il mare ha sempre avuto, per il giovane Sergio, un fascino irresistibile. E inevitabile, perciò, che il suo contributo di combattente scelga di darlo arruolandosi in marina. Ma per la sua giovane età servirebbe il consenso del padre che è restio a concederlo. Non sarà questo a fermarlo. Falsifica la firma del padre, si presenta a La Spezia dove viene arruolato e inviato presso la scuola C.R.E.M. di San Bartolomeo quale allievo torpediniere. La Domenica del Corriere gli dedicherà una foto quale più giovane marinaio d’Italia. In meno di un anno conclude brillantemente il periodo di addestramento e, il 30 aprile 1941, viene destinato al Comando Marina di Trapani e imbarcato sulla regia torpediniera “Orsa”. Finalmente è in grado di dare il suo contributo di combattente. Non ha ancora diciassette anni. Il primo ottobre è nominato Comune di 1^ Classe e in data 16 dicembre 1941 riceverà il suo primo encomio solenne con la seguente motivazione:
    Destinato su una bettolina allo scarico di materiale bellico, in una zona attaccata da aerei nemici, rimaneva al suo posto contribuendo efficacemente ad allontanare e mettere al sicuro il materiale esplodente.
    Nei due anni successivi Sergio Denti, sempre sulla regia torpediniera “Orsa” parteciperà ad oltre quaranta missioni. Le nostre truppe in Africa Settentrionale hanno continuo bisogno di rifornimenti e i convogli necessitano di essere scortati per proteggerli dagli attacchi nemici. Anche la torpediniera “Orsa” sarà continuamente impiegata in queste missioni e, nel corso di queste varie missioni, riuscirà ad affondare quattro sommergibili nemici. Il contributo del torpediniere Denti sarà sempre determinante ed egli riceverà un secondo encomio solenne con la seguente motivazione:
    Imbarcato su torpediniera, durante un’azione di caccia contro un sommergibile nemico, cooperava con serenità e tenacia a determinarne l’affondamento. Mediterraneo Centrale 22 maggio 1942.
    Infine, con determinazione del 12 giugno 1942, gli verrà conferita la Croce al Valor Militare con la seguente motivazione:
    Destinato alle armi a.s. su Torpediniera, durante una prolungata caccia contro un sommergibile nemico, assolveva il suo compito con serenità e coraggio, contribuendo con la sua opera all’affondamento dell’unità subacquea avversaria. Mare Jonio 5 aprile 1942.

    Nel maggio 1943, affascinato dalle leggendarie imprese della X^ Flottiglia Mas, sentendosi pronto per più ardimentose imprese, fece domanda per entrare a far parte di questo reparto.
    Ma il 24 agosto 1943, giorno dell’assassinio di Ettore Muti, Denti rimane ferito nel corso di un’azione di guerra. Naturalmente viene sbarcato e ricoverato all’ospedale di Tolone. Sarà, poi, durante la convalescenza a Firenze, che lo coglierà la notizia della capitolazione dell’8 settembre. Sono i giorni dello sfacelo delle forze armate. Quasi tutti, abbandonate le armi, cercano di tornare a casa. Ma Sergio Denti, appena diciannovenne ma ormai veterano, rifiuta il prolungamento della licenza di convalescenza e cerca di ritrovare la sua “Orsa”. Così giunge a La Spezia, dove trova, sotto il tricolore che sventola al Muggiano, Junio Valerio Borghese con la sua Decima che non ha deposto le armi.
    Sergio Denti non ha esitazioni: si presenta presso la Caserma San Bartolomeo e, finalmente, riesce ad arruolarsi nella mitica X^ Flottiglia Mas. Viene presentato al comandante Borghese e, su sua domanda, viene assegnato a quei reparti di élite che sono i Mezzi d’Assalto. La Scuola dei mezzi d’assalto di superficie “Gruppo Todaro”, comandata dal Tenente di Vascello Domenico Mataluno, da La Spezia si trasferisce a Sesto Calende sul Lago Maggiore e qui, nel dicembre 1943 inizia l’attività addestrativa teorico-pratica sui M.T.M. (Motoscafo Turismo Modificato), M.T.S.M. (Motoscafo Turismo Silurante Modificato), M.T.S.M.A. (Motoscafo Turismo Silurante Modificato Allargato).
    E il 1° Gennaio 1944 (XXII°) il Sottocapo Sergio Denti riceve il “Brevetto di pilota dei mezzi d’assalto di superficie” firmato dal Comandante Borghese e dal Sottosegretario di Stato Contrammiraglio Sparzani.
    Il 22 gennaio 1944, come è noto, avvenne lo sbarco degli “alleati” ad Anzio/Nettuno per cui divenne urgente attivare al massimo le nostre forze offensive in quella zona del Mar Tirreno. Così le forze d’assalto della marina repubblicana trasferiscono subito, con una autocolonna, uomini e materiali da Sesto Calende a Fiumicino, dove viene allestita la base “X”. E già il 20 febbraio viene effettuata la prima missione che attacca e fa colare a picco una nave pattuglia alleata. E comincia l’impari lotta fra la potente flotta alleata e i minuscoli barchini d’assalto della Decima. Le missioni sono rese difficili dalla potenza di reazione del nemico, dalle non rare avarie dei mezzi e anche dalle cattive condizioni del mare, ma l’attività continua ottenendo anche lusinghieri successi. Intanto a Fiumicino la base “X”, ora comandata dal Ten.Vasc. Gustavo Fracassini, si arricchisce di uomini e mezzi giunti con una seconda autocolonna. Per i nostri assaltatori il livello di pericolo è alto. Spesso i barchini vengono intercettati e attaccati duramente. Nel mese di marzo anche l’M.T.S.M di Capo Boccato e Sergio Denti venne mitragliato da aerei nemici, per fortuna senza danni ai due combattenti. Ma si arrivò a Giugno e alla caduta di Roma. Inevitabilmente la base “X” dové essere spostata in Toscana, nella tenuta di San Rossore. Le missioni continuarono. Il 14 giugno 1944 tre mezzi del tipo S.M.A. uscirono in missione. Su uno dei tre c’era anche Sergio Denti. Purtroppo una formazione aerea inglese li attaccò e affondò tutti e tre i mezzi. Dei sei piloti due furono colpiti e scomparvero fra i flutti. Denti, che si era gettato in mare, vide il suo copilota Luigi Taccia riverso sul barchino in fiamme e tornò indietro malgrado il mitragliamento fosse ancora in corso e risalì sul barchino cercando di portargli soccorso, ma lo trovò ormai spirato. Allora si rituffò e nuotò per tutta la notte e per tutto il giorno successivo per molte miglia. Solo verso sera, ormai vicino alla spiaggia, fu raccolto da soldati tedeschi. La sua condotta in combattimento gli valse l’abbraccio commosso del Comandante Borghese e la medaglia di bronzo con la seguente motivazione:
    Secondo pilota di un mezzo d’assalto, durante un trasferimento in cui l’intera squadriglia veniva distrutta da una formazione aerea nemica, dava prova di grande serenità e sprezzo del pericolo. Essendo stato colpito il suo mezzo da una diecina di colpi di mitraglia che avevano provocato un incendio nel deposito di benzina, si gettava in acqua. Perdurando ancora l’attacco aereo ed il mitragliamento, non scorgendo più il suo primo pilota, risaliva sul mezzo in fiamme per portargli soccorso. Esempio luminoso di sprezzo del pericolo, cameratismo e senso del dovere. Acque del Tirreno 14 giugno 1944 – XXII”.


    E così, di mese in mese, i barchini della Decima, con missioni quasi quotidiane, costituirono una seria minaccia e grande apprensione per il nemico, che subì apprezzabili perdite. Purtroppo anche i nostri fragili mezzi che così coraggiosamente si esponevano, subirono dolorose perdite in uomini e mezzi. Ma non si fermarono. E dimostrarono al mondo intero che la Repubblica Sociale Italiana era al suo posto di combattimento e riscattava, così, l’onore dei combattenti italiani. Avvicinandosi il pericolo di uno sbarco in Provenza, verso la fine di agosto un reparto dotato di una ventina di mezzi si dislocò prima a Villafranca, porticciolo a est di Nizza e, poi, a San Remo. E le azioni continuarono indefessamente. Fino alla fine. E’ la notte fra il 16 e il 17 aprile 1945. Siamo ormai agli ultimi giorni di guerra. La linea gotica sta cedendo. Il 10 è caduta Massa, l’11 Carrara e i Nisei tentano di scendere in Lunigiana per tagliare la ritirata alle truppe che iniziano a ritirarsi dalla Garfagnana, ma i barchini della Decima sono ancora in missione: l’ultima. Occorre qui lasciare la parola al comandante Nesi che mirabilmente descrive l’azione:
    “La torpediniera francese Trombe era in pattuglia la notte fra il 16 e il 17 aprile a 14 miglia a sud di Oneglia, quando Zironi e Malatesti la avvistarono. Quella notte erano usciti unitamente all’M.T.M. del S.C. Sergio Denti. Mentre lo S.M.A. 312 aggirava la torpediniera da sud per cercare di attrarre la sua attenzione, Denti lanciò il suo M.T.M carico di esplosivo da 500 metri di distanza in piena velocità. A 100 metri si lanciò in mare e balzò sul salvagente. L’M.T.M. si schiantò contro la fiancata destra verso prua. L’esplosione capovolse il salvagente di Denti che venne sbalzato in mare. Non vedendo più il battellino di salvataggio, Denti si mise a nuotare, osservando la nave colpita. Fu ritrovato al mattino da una unità francese e catturato. Trasportato a Nizza, riuscì a fuggire ed a rientrare in Italia poco prima della fine del conflitto”. E il protagonista di questo audacissimo attacco non aveva ancora ventun’anni. Il Trombe, gravemente danneggiato, non essendo più in grado di muoversi verrà rimorchiato a Tolone. Il Comandante della Base Ovest Ten.Vasc. Gustavo Fracassini propose di conferire al Pilota Sergio Denti la Medaglia d’Oro al Valor Militare sul campo. Purtroppo Fracassini moriva nove giorni dopo per una vile imboscata dei partigiani. Ed eravamo agli ultimi giorni di guerra.

    La guerra è ormai finita e Sergio Denti è prigioniero a Taranto. Ma la sua competenza, la sua determinazione e bravura di combattente non sono passate inosservate anche in campo nemico. Così James Angleton, dei servizi segreti americani, che sta reclutando ex combattenti per una possibile guerra contro i comunisti che vogliono insorgere e prendere il potere in Italia, lo fa liberare e lo arruola. Denti ne ricaverà anche una retribuzione con la quale aiuterà reduci della R.S.I. in gravi situazioni di indigenza. Fra questi il noto Raimondo Vianello. Poi il pericolo comunista svanirà e Denti tornerà alla vita civile perché la Marina lo caccerà “per aver prestato servizio continuativo a carattere operativo nella Marina della RSI (X^ MAS)”. Ritornato, quindi, definitivamente alla vita civile, Denti ritornerà alla passione giovanile per l’arte e diventerà un importante gallerista e mercante d’arte. Senza mai dimenticare i camerati e l’epopea della X^ Flottiglia Mas.
    Sergio Denti è deceduto il 8 febbraio 2018  a Pontassieve.

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    Edoardo Campana (Molfetta, 8.2.1925 – Biserta, 17.12.1942)

    
di Claudio Confessore

 e Michele Balducci

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    (Molfetta, 8.2.1925 – Biserta, 17.12.1942)

    ….Ignazio Castrogiovanni e quelle strane coincidenze.

    …riceviamo e con immenso orgoglio pubblichiamo.

    Salve dott. Vinciguerra,
    vorrei chiederle, se possibile, di ricordare nel gruppo de “La voce del marinaio” della ricorrenza odierna dell’affondamento, il 17 dicembre di 75 anni fa, della regia nave “Aviere” (silurata da un sommergibile britannico “Splendid”.

    Mi chiamo Michele Balducci, sono il pronipote del marò Campana Edoardo, uno dei duecento marinai periti nel naufragio. Della vicenda vi siete occupati più volte grazie anche alle informazioni di Lucio Campana, mio cugino. A distanza di tanti anni, finalmente, abbiamo potuto commemorare la memoria di questo nostro parente – eroe della patria.

    Di seguito le scrivo alcune righe sulla cerimonia di commemorazione e alcune foto. Grazie. Questa mattina si è svolta la commemorazione del caduto Campana Edoardo, ufficialmente disperso in mare, perito alla giovanissima età di 17 anni durante il secondo conflitto mondiale. Il giovanissimo marò era infatti imbarcato sulla regia nave Aviere, salpata da Napoli e affondata nel Canale di Sicilia da due siluri lanciati dal sommergibile britannico Spendid il 17 dicembre 1942.

    La breve cerimonia si è svolta presso la Stele dedicata “Ai Marinai molfettesi dispersi in mare” nel Cimitero di Molfetta alla presenza di Don F. de Lucia e dei familiari del caduto. A distanza di 75 anni, la vicenda della giovane vita spezzata nel fiore degli anni, sta ancora una volta a testimoniarci che in guerra non esistono vincitori, né vinti: in guerra, a perdere, è tutta l’umanità…

    …ricevemmo e con infinto orgoglio e riconoscenza pubblichiamo questo articolo anche in memoria di Edoardo Campana sollecitati e stuzzicati dalla memoria del nipote Lucio Campana che, a distanza di tanto tempo ricorda ancora con infinito affetto lo zio.

    Egregio sig. Ezio,
 confermo che nell’albo d’Oro della Marina è riportato che Campana Edoardo è deceduto il 17.12.1942 e viene indicato come disperso. La data coincide con il siluramento del regio cacciatorpediniere Aviere.
Consiglio a Lei e ai lettori del blog la lettura del secondo capitolo del libro “Guerra di Mare di Maffio Maffi del 1917” scritto a guerra ancora in corso in cui si narra del Guardiamarina Ignazio Castrogiovanni e del suo “primo siluramento”.
    Alla figlia di Castrogiovanni, deceduta recentemente, regalai  l’estratto del libro.
    Cordiali saluti
 Claudio Confessore

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    Il Marò Campana Edoardo nato a Molfetta l’8 febbraio 1925 è stato imbarcato sul regio cacciatorpediniere Aviere i qualità di Specialista Direzione Tiro. E’deceduto il 17.12.1942 disperso nel Canale di Sicilia a nord di Biserta in 38°00’ Nord – 010°05’ Est posizione dell’affondamento della suddetta unità navale.

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    Il Comandante Ignazio Castrogiovanni

    ignazio-castrogiovanni-foto-marina-militareTra i morti e dispersi anche il Comandante Ignazio Castrogiovanni, che, dopo aver radunato ed incoraggiato gli uomini, cedette il proprio posto su una zattera ad un marinaio sfinito e scomparve in mare. Alla sua memoria fu conferita la medaglia d’oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
    Già valoroso combattente della guerra 1915-18, riprendeva il suo posto di combattimento nel conflitto 1940-43, confermando elevate doti di perizia e di ardimento.
Comandante di Squadriglia Cacciatorpedieri in ardue missioni ed in vittoriosi scontri navali, si distingueva per elevato spirito aggressivo e leggendario valore. Al comando di altra Squadriglia Ct. effettuava nuove, rischiose missioni di guerra, finché – durante scorta a motonave veloce lungo rotte aspramente contrastate dall’avversario – la sua unità veniva affondata in seguito ad insidioso fatale attacco subacqueo. Animato da nobile senso di altruismo e permeato dei più alti doveri di comandante, si preoccupava unicamente della salvezza dell’equipaggio. Naufrago in un mare gelido ed avverso, benché estenuato nelle forze cedeva con sublime altruismo il suo posto su zattera ai più bisognosi; e scompariva poi nei flutti suggellando con generoso sacrificio la nobile esistenza tutta dedicata alla Patria e alla Marina” (Canale di Sicilia, 17 dicembre 1942).

    Altre decorazioni

    • Medaglia d’Argento al Valore Militare (Basso Adriatico, novembre 1916);
    • Medaglia d’Argento al Valore Militare (Tobruk, luglio 1940);
    • Medaglia d’Argento al Valore Militare sul Campo (Mediterraneo centrale, giugno 1942);
    • Medaglia di Bronzo al Valore Militare (Africa settentrionale, marzo 1941);
    • Medaglia di Bronzo al Valore Militare (Mediterraneo centrale, gennaio 1942);
    • Medaglia di Bronzo al Valore Militare sul Campo (Africa settentrionale 1940 – Mediterraneo Centrale 1942);
    • Croce di Guerra al Valore Militare sul Campo (Mediterraneo centrale, 1941-1942);
    • Croce di Ferro tedesca di 2a Classe (ottobre 1942).

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    Ultima missione del regio cacciatorpediniere Aviere
    Il regio cacciatorpediniere Aviere, con il gemello Camicia Nera, salpò da Napoli il 16 dicembre 1942 di scorta alla motonave tedesca Ankara diretta a Biserta.
Giorno 17 dicembre 1942, alle ore 11.15 in 38°00’ Nord – 010° 05’ Est fu colpito da due siluri lanciati dal sommergibile britannico P.228 Splendid. La nave si spezzò in due ed affondò rapidamente.
A bordo dell’Aviere c’erano 250 uomini (secondo altre fonti 220): di questi, un centinaio fecero in tempo ad abbandonare la nave, ma nessuno dei superstiti fu raccolto dal Camicia Nera o dall’Ankara, che si allontanarono a tutta velocità. L’affondamento della nave era stato così rapido e violento che solo due zattere di salvataggio, oltre a vari rottami, si erano staccate dalle sovrastrutture. Quando, durante il pomeriggio, le torpediniere Calliope e Perseo raggiunsero i naufraghi, solo 30 erano ancora vivi, tra cui il Comandante in Seconda ed un Ufficiale di macchina che successivamente morì.
    Maggiori notizie sulla regia nave Aviere sono reperibili al seguente link:
    
http://it.wikipedia.org/wiki/Aviere_%28cacciatorpediniere%29



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    Le coincidenze
    Il 16 ottobre 1916 la regia torpediniera Nembo, con truppe a bordo, partì da Valona diretto a Santi Quaranta per scortare il piroscafo Bormida. Tra Valona e Saseno il convoglio fu attaccato dal sommergibile austroungarico U 16.
Il Nembo (stazza T. 340) fu silurato ed affondò rapidamente spezzato in due, nel punto 40°08’ N 019°30’ E, a poche miglia da Santi Quaranta nei pressi di una località conosciuta come Strade Bianche. L’U 16, Comandante Zopa, fu speronato dal Bormida
Su 55 uomini che formavano l’equipaggio del Nembo, 32 affondarono con la nave o scomparvero in mare (tra di essi il comandante Russo, il comandante in seconda, tenente di vascello Ceccarelli, ed il direttore di macchina, tenente del Genio Navale Meoli). I 23 superstiti furono recuperati da navi italiane o raggiunsero la costa a nuoto, come fece un gruppo di quattro naufraghi tra i quali il guardiamarina Ignazio Castrogiovanni, che rifiutarono di essere salvati da una zattera con a bordo alcuni superstiti dell’U 16.
Le coincidenze della vita vogliono che il Comandante Castrogiovanni che si era comportato eroicamente da Guardiamarina a seguito di un siluramento nella Prima Guerra Mondiale, eroicamente morì a seguito di altro siluramento nella Seconda Guerra Mondiale.
A lui la Marina Militare ha intitolato il centro addestramento reclute di Taranto (MARICENTRO).

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    Mario Delmiglio (Zorlesco, 13.5.1919 – Milano, 8.2.1992)

    di Rossella Catalano

    (Zorlesco, 13.5.1919 – Milano, 8.2.1992)

    … riceviamo e con orgoglio e commozione pubblichiamo.

    Il convoglio Mantovani, salpato da Napoli in direzione Libia e scortato dal cacciatorpediniere Alvise da Mosto e da una scorta aerea, il giorno 1 dicembre 1941 s’imbatté in un ricognitore britannico e successivamente fu attaccato dalla Forza K. Alle 18:15, dopo una estrema ed ìmpari battaglia, la regia nave Da Mosto del comandante Dell’Anno affondò a 75 miglia da Tripoli, persero la vita 138 anime tra ufficiali, sottufficiali e marinai. La torpediniera Prestinari quella notte riuscì a soccorrere i naufraghi sopravvissuti. Tra questi vi era mio nonno Mario Delmiglio, marinaio, nato a Zorlesco vicino Casalpusterlengo, nella provincia di Lodi, il 13.5.1919 e deceduto a Milano l’8.2.1992.

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    8.2.1939, auguri di buon compleanno a Nello Mariani

    di Nello Mariani

                                                                        DA ZERO A OTTANTA.

                                                                               Prima Parte

    Nel lontano 1939 verso le ore 21 in una casa di contadini nelle campagne Marchigiane, in frazione Santa Maria in Selva comune di Treia: venni al mondo. Ero il nono figlio dei simpatici genitori Mamma Santa e Babbo Angelo.
    Quella sera i miei fratelli avevano organizzato una serata da ballo come si usavano a quei tempi nel periodo di Carnevale, bastava che uno sapesse suonare la fisarmonica e ben presto tutti gli amici e amiche della zona si ritrovassero lì,  per ballare naturalmente a lume a petrolio. La mia famiglia era poverissima con tante bocche da sfamare, però regnava molta allegria.
    All’età di circa un anno e mezzo stavo male molto magrolino per la scarsità di cibo ,dicono che mi davano pancotto (pane raffermo cotto e una goccia d’olio. Eravamo  agli inizi della seconda guerra mondiale, finalmente mia madre mi portò da un pediatra a Macerata dal dottor Gentilucci per che non riuscivo neanche a fare i primi passetti, quanta miseria cera in casa, per pagare la visita del dottore mia mamma si portò 12 uova, il dottore gentilmente le rifiutò e le disse signora le dia a suo figlio che ne a più bisogno di me anzi che dargli sempre patate e pancotto. Nel 1942 nasce Giordano,un altro fratellino così siamo ora dieci fratelli.
    Quella sera ricordo che mia sorella Maria  allora sedicenne mi prese con se dalla culla, per far posto al fratellino appena nato eravamo nel bel mezzo della guerra ,mio padre e aiutato dai fratelli più grandi creò una specie di rifugio scavando una buca nel terreno poi ricoperta con delle fascine e terra. Dopo pochi giorni sentivano il bombardamento su Macerata, e noi via tutti nel rifugio. Ricordo vagamente il passaggio dei tedeschi in ritirata. Una coppia di loro si misero a rovistare dappertutto mentre ispezionavano tutti i locali, la stalla la capanna il pollaio il soffitto, dove li trovarono una bici e se la portano via, poi in un cassetto della credenza trovano un osso di Prosciutto quasi tutto scorticato, e si presero anche quello. Mio fratellino Giordano di circa 15 mesi con la manina toccava il fucile di un tedesco, e sto pirla disse caput caput, subito mia mamma disse no no è piccolino. Per fortuna che non entrarono in cantina  dove alcuni giorni prima i miei fratelli avevano scavato un pozzo grande quanto il fondo di un tino, dove cerano nascosti 3 dei miei fratelli essendo ricoperti da quel vecchio tino Enrico di 28 Adelio di 23 e Raimondo di 19 anni. Avendo anche nascosto alcuni sacchi di grano nel sottoscala poi murato bene la porticina. Passati i tedeschi dopo qualche giorno arrivarono gli alleati erano americani inglesi polacchi e altre nazionalità. Una sera avevo la febbre ero in una specie di lettino, si avvicinarono due soldati chiamati da mia madre, uno era dottore, mi misurò la febbre con un termometro piccolino, poi mi diete 2 arance.
    Invece nei pressi della villa del padrone cerano accampati gli americani, i quali vedendoci così poveri ci davano qualche pezzo del loro pane era un pane bianco mai visto noi bambini felicissimi con gli alleati nel periodo della guerra eravamo davvero alla fame. Mangiavamo patate lesse o un po di polenta, poi molte erbe di campo del favino, molti favini con in vermicino interno ricomparivano sul piatto, si vedevano galleggiare, tutto buono per la vera fame, olio pochissimo non si trovava neanche il sale. Il mare era lontano alcuni andarono a prendere qualche damigiana di acqua salata al mare ma spesso le damigiane si rompevano prima di arrivare a casa a causa del carretto rigido e sconquassato, dove venivano trasportate. Un altro ricordo a quella età quando arriva a casa la trebbiatrice  per trebbiare il grano. Veniva su da una leggera salita, tirata da 3 paia di buoi, poi messa in posizione la trebbiatrice vicino al barcone dei covoni di grano. Messa in funzione la trebbia con tutte le sue pulegge concatenate da diverse cinghie di cuoio, mentre il tutto veniva fatte girare da un trattore a scoppio chiamato LANDINI con un lungo cintone che collegava la puleggia principale della trebbia a quella del trattore. Per avviare il trattore, il motorista gli scaldava la testata con una grossa lancia  fiamme, quando la testa del trattore diventava rossa quasi incandescente (per rendere fluida la nafta – combustibile ), un uomo robusto fa muovere un volano e via i primi colpi di scoppio con sbuffi di fumo scaturiva dalla sua marmitta, tutto il trattore urla e la trebbia si mette  in movimento dal trattore alla trebbia e da essa da movimento a tante pulegge della trebbia, e delle scalette che trasportava la paglia ai pagliai e della pula…così si iniziava a trebbiare.

    Arriva il primo giorno di scuola, mi accompagna mia sorella Elena di 14 anni, io non volevo che mi lasciasse solo perché avevo paura ma non so di chi dovevo aver paura, nei giorni successivi andavo da solo ma con altri amichetti vicini di casa, e cosi le prime aste i primi cerchietti come zeri disegnini vari. Per andare a  scuola portavo un grembiulino nero con il colletto bianco senza fiocco. Ai piedi verso l’autunno e inverno indossavo i ciocchi fatti da una vecchia tomaia che mio padre se la procurava dal calzolaio e il sotto lo faceva di legno, il babbo, lui era un mago nel lavorare il legno anche la mia cartella era di legno. Non conoscevo i calzini, mia mamma ci dava due pezze quadrate e noi ci fasciavamo i piedini e via poi dentro i ciocchi. Durante le giornate fredde la mamma mi dava una vecchia giacca del babbo per indossarla come se fosse un cappottino.  A scuola ero bravino  però mi pesava molto quando il sabato la maestra ci dava una poesia da impararla a memoria per il lunedì, per fortuna mia mamma mentre cucinava me la ripeteva al fine riuscivo ad impararla a memoria oppure mentre mi mandavano a portare al pascolo i maiali o le 5 pecore,mi portavo anche il libro delle poesie.
    Ricordo nel 1946 quando si sono sposati due dei miei fratelli, fu un giorno emozionante ma io li aspettavo a casa non avevo nulla di decente da indossare. Abitavamo a circa 2 km dalla Chiesa, la scuola, e un gruppetto di case, quindi vedere arrivare le due coppie di sposi a seguito di loro parenti amici e vicini di casa era uno spettacolo.
    Arriva il Santo Natale  facciamo il presepe in casa con l’aiuto di Elena, lei ritaglia i pastori i Re Magi e Gesù dai libri vecchi delle scuole dei miei fratelli, vado a raccogliere il muschio nel fosso così realizziamo il presepe. La sera del 5 gennaio mia sorella mi sveglia in piena notte e mi dice è arrivata la befana e guarda cosa ti a portato, cerco dentro i miei ciocchi e trovo una carta lucida con dentro alcune caramelle, due arance e delle castagne, io felicissimo ero molto emozionato. Arriva giorno dell’Epifania pronto per la recita la quale poesia me la portò Gino il fidanzato di mia sorella Maria,nel pomeriggio vado a recitare la poesia dedicata a Gesù Bambino, dicono che o fatto ridere parecchi presenti,per la bella poesia.
    Nel 1947  vado alla dottrina così poi arriva il giorno della Cresima, per Padrino ,il fidanzato di mia sorella Maria, come entriamo in Chiesa il mio padrino mi riprende subito perché a suo dire facevo un sacco di rumore con le scarpe quando camminavo in Chiesa. Ma se non avevo mai avuto un paio di scarpe?  Comunque poi a casa avevano organizzato un certo pranzetto il mio onore con parenti e amici. Finito il pranzo  mia sorella contando i soldini che mi avevano regalato, mi a detto  per poco non arrivi a mille lire.
    Mio fratello Raimondo  entra in polizia, noi siamo  contenti, una bocca in meno da sfamare.
    Si fidanza mia sorella Elena a 17 anni, una curiosità  la sera che il futuro fidanzato viene in casa a chiedere la mano di mia sorella. Lui suona il campanello della bici mio padre lo fa entrare mentre, noi eravamo tutti seduti a tavola e pronti per la cena con verdure e ricotta. Elena era seduta nel banco verso il muro, era quasi in centro fra Maria e Armando. Elena cerca di scappare uscire dal banco per farsi bella, scavalcando Maria e gli butta a terra la bella ricotta spalmata sopra una fetta di pane casereccio, che Maria si stava divorando con gli occhi. Maria disperata dice per la prima volta avevo una bella ricotta e me l’ha distrutta. Comunque Elena e Guido si fidanzarono ufficialmente. Io ma raramente mi divertivo a giocare con la palla, ne avevo fatta una con dei stracci, era quasi bella per che cucita con l’ago era rotonda ma non rimbalzava. Oppure giocavo con dei mattoni e pezzi di legno. Io dormivo con mio fratello più piccolo Giordano, quando eravamo felici quando il nostro letto era più alto del solito  il pagliericcio, di regola dentro non conteneva lana o crine, ma solo sfoglie delle pannocchie di granturco, quindi le si rinnovavano dopo aver raccolto le pannocchie del granturco nel mese di settembre, sotto il pagliericcio non cerano le reti ma solo tavole sorrette da due trespoli. Il pagliericcio (materasso) avevano due aperture ai lati, così al mattino le donne quando risistemavano i letti infilavano le mani dentro il pagliericcio per rimuovere le sfoglie per renderlo un poco più morbido.

    In quel periodo ovviamente non sapevamo cosa volesse dire  (luce elettrica ) ci si illuminava la sera con dei lumi a petrolio, posto al centro della cucina e per illuminare una camera si girava con la Luma ad Olio accesa, o una candela. Si mia mamma vendeva le uova e qualche pollo per comperare del baccalà diceva che rendeva di più per condire la polenta ci dava un uovo quando stavamo male ,allora ci metteva un uovo vicino alla brace, quando incominciava a sudare ce lo dava apriva un buco sopra un tantino di sale, poi ci intingevamo delle striscioline di pane. Che bontà?
    Arriva l’Acetilene: gas sprigionato fra la reazione del carburo di calcio e poche gocce di acqua, così in casa viene istallato il cosi detto Gasometro, ideale per sprigionare del gas.  Il detto gas acetilene viene trasportato con un tubicino di piombo in cucina e nella stalla:  alle estremità vi è un beccuccio dove il gas che fuoriesce si accende e rimane una bella fiammella da illuminare abbastanza meglio del lume a petrolio. Con lo stesso principio poi vengono le Acentilene ( lampada a carburo ), il gas  esce attraverso il beccuccio e quindi fiammella,ed è portatile. Mio padre si è accattivato le grazie del fattore. Un giorno mentre babbo potava un albero di mele, in fattore controllava e voleva che il melo fosse potato in un certo modo, al fine il babbo si è incavolato, a gettato a terra il falcione,e poi a detto al fattore potala come ti pare … per vendicarsi il fattore a riportato l’accaduto al patrone dicendogli Angelo mi a tirato il falcione, così il patrone a detto a mio padre devi andar via, lascia libero il podere appena puoi. Eravamo poveri ma con molta dignità. Ci si arrangiava, andando a far qualche giornata di lavoro ai vicini che ne avessero bisogno, mio padre nella buona stagione andava a cavare i pozzi, per cercare dell’acqua. Per scoprire dove poteva scavare si muniva di una bacchetta di olmo fatta a V .e così andava avanti ed in dietro a destra e sinistra fin che la bacchetta si sollevasse da sola, poi seguiva una cera direzione e quando la bacchetta si abbassava, capiva in che profondità avrebbe trovato la vena dell’acqua, e so che sbagliava pochissimo, oggi si chiamerebbe Rabdomante? A quel tempo non lo sapevamo. non esistevano gli acquedotti di oggi . era un duro lavoro, scavava tutto con lo zappone e la pala. I pozzi in genere del diametro di 170 cm profondi a volte anche 10 metri nella stagione di autunno e inverno costruiva dei telai per tessere le stoffe, o costruiva delle botti per il vino, o altri lavoretti a legno.
    In quel periodo mia sorella Elena si fidanza con Guido, una nota simpatica…La prima sera in cui Guido rimane a cena con noi tutti a tavola eravamo una bella tavolata. Eravamo in 14  più Guido, i fratelli mediamente 2 annidi differenza di età, e i nostri genitori, più due cognate credetemi bella tavolata. Certo noi ragazzini gli occhi verso il fidanzato della nostra sorella. Mamma ci serve l’insalata per cena e visto che Guido se l’aveva finita con 4 forchettate, mia madre ce ne da dell’altra, in seguito scoprimmo che al povero Guido non piacesse l’insalata). Guido fa sapere a Mio padre che nella sua zona cera la possibilità di andare ad abitare in un terreno più grande e più redditizio. Quindi ci trasferimmo in questo nuovo podere sempre a mezzadria in via Santa Cristina comune di Montecassiano, era il 1948. Naturalmente tutti entusiasti convinti di progredire e di fare una vita più decente, il terreno era buono cerano degli olivi dei filari e 2 vigneti piante di frutta varia, l’unico problema che era non pianeggiante ma collinosa. A quel tempo il lavoro nei campi era molto duro, la terra veniva elaborata tutta con la fatica delle vacche. Nella stalla ne avevamo 3 paia da lavoro poi vitellini e vitelloni.

    Il proprietario del terreno era il Marchese Rangoni, ovviamente era proprietario non solo del nostro ma di altri 42 terreni simile al nostro. I miei fratelli più grandi andavano a far qualche lavoro dove potevano portare a casa una discreta paghetta .  dove  uno andava direttamente nell’azienda del patrone.
    Per frequentare la terza elementare,mi mandarono nella scuola alla frazione Vissani, dove una brava maestra, proveniente da San Ginesio. Mentre l’ora di religione ce la faceva il parroco del posto.
    Verso la fine dell’anno scolastico scoprimmo che la maestra era in cinta e se ne andò con il prete. L’anno seguente era il 1950 verso la fine anno mio padre mi disse : ma sei sicuro che vuoi andare fino alla quinta elementare?  Siiiii  però sai che ti devi fare circa 4 km a piedi per raggiungere la scuola,  dissi va bene io voglio continuare a studiare.
    Iniziai la quarta elementare in ritardo rispetto alla mia classe, quell’anno fui bocciato ma, nonostante tutto, volli continuare. Il maestro si chiamava Giacobini Corrado anziano ma benché fosse un ateo era molto umano con noi alunni di campagna. La scuola isolata si trovava in contrada Forano nel comune di Appignano. Il maestro veniva da Macerata con la sua auto Topolino. Per merenda mia mamma mi faceva un panino fatto con due mezze fette di pane ed una fettina di salame o prosciutto ma nel giorno in cui in casa si faceva il pane mi faceva una crescia (pizzetta) grande quanto la cartella, emanava un profumo,ero invidiato dai compagni, però nella merenda delle 10 la facevo assaggiare ai miei compagni o compagne.  Un usanza ultimo giorno della scuola la mamma mi diceva porta questa cosa al maestro, una volta mi fece portare della farina e delle uova l’anno successivo gli portai un polletto vivo.
    Un aneddoto che mi a fatto sempre riflettere.  Un giorno il maestro mi chiese se gli potevo dare una lavatina alla sua auto, nel cortile della scuola, mentre la stavo lavando arriva un suo collega e discutendo tra loro sentii dire ma Corrado chi te lo fa fare di perde tanto tempo con questi ragazzi? Basta che sanno leggere e scrivere sono figli di contadini, e il maestro disse
    Secondo te che soddisfazione avrebbe un meccanico che lavora ore e ore in un motore e alla fine non riesce a farlo partire?
    Mentre, ancora facevo la quarta elementare, era il 1951 mia madre si reca alla fiera del 29 Aprile ad Appignano e mi compera la prima penna a sfera Bic. Pensa che l’ebbe pagata 100 £. era la fine dell’inchiostro del pennino e calamaio e della carta assorbente. Quando mia madre o i miei fratelli vanno in paese per fare della spesa, io prendo sempre quella carda di giornale che avvolge certe cibarie  e me le leggo altro non c’è da leggere.
    Finalmente nel 1952 in casa arriva la corrente elettrica che bellezza? Mio padre subito si recò con la bici a Montecassiano a comperare la Radio un Ducati, con l’occhio magico, quando lo si accendeva specie la sera per ascoltare il  Giornale Radio poi spento la radio per recitare il Santo Rosario.
    A 16 anni mi mandano a garzo’ (mi manda da un altro contadino per lavorare con loro) per una somma irrisoria,  intanto in casa una bocca in meno da sfamare, lì ci sono rimasto per 6 mesi. il fratello più grande Enrico (figlio della prima moglie di mio padre) la quale morì nel periodo della epidemia. La Spagnola nel 1917, mentre il babbo era a combattere sul Carso. Enrico con moglie e due bambini si trasferiscono in un altro podere  picco di 4 ettari di terra, voleva che fossi andato con lui, ma i miei genitori non mi ci vollero mandare definitivamente, ma solo ogni tanto per dargli una mano nei campi.
    Nel Settembre del 1957 ci trasferimmo sempre a mezzadria in un podere della Santa Casa di Loreto un bel salto di circa 25 km. eravamo sotto il comune di Recanati in contrada Valdice, al confine fra i 3 comuni, Recanati, Loreto e Porto Recanati.
    Alcuni giorni prima del trasferimento si sposa mio fratello Fernando, e va a vivere in casa della sposa con i suoceri dal momento che la sposa era figlia unica. in autunno dopo la semina già avevo fatto amicizia con alcuni amici della zona. seppi che nella contrada successiva ,era iniziata la scuola serale, per ottenere il diploma della Sesta elementare, ne approfittai subito per frequentarla anche se era iniziata da un paio di settimane. come entro con altri due amici, il maestro prossimo alla pensione, mi chiama e mi dice per favore vai alla lavagna, e così  mentre mi dettava vide che scrivevo con una certa scorrevolezza, disse ok ok basta così o capito,  e così nell’invernata presi la pagella per la sesta elementare ma prima di salutarci mi disse. E’ vero chi ha il pane non ha i denti, capii subito cosa volesse dire, in realtà aveva capito che mi sarebbe piaciuto tanto studiare. nel frattempo pensavo, come poter studiare un po senza spendere soldi dal momento che in famiglia non ce n’erano, così pensavo, bè potrei arruolarmi in qualche arma forse in Finanza ma non arrivavo di altezza. La domenica andavo con i miei amici se non cera qualche festa nelle varie frazioni tipo Feste di Sant’Antonio o di San Vincenzo insomma si andava per poter parlare con qualche ragazzina, se non cerano delle feste andavamo al cinema a Porto Recanati con le bici. I miei fratelli mi mandavano volentieri al cinema , a patto che durante la settimana raccontassi la trama del cinema che avevo visto, mentre eravamo tutti a lavoro nei campi abbastanza riuniti, come a zappare il grano o il granoturco vangare la vigna, o fare la (canafoia) sfogliare le canne per poi darla alle vacche e le canne rimanevano pulite,per poi tagliarle in quando sarebbero servite per sostenere le viti o per i pomodori, piselli, o per rinforzare il recinto del prato e tanti altri lavori. Soliti cinema strappa lacrime. Gli anni scorrevano pensando a come cambiar mestiere, perché a mezzadria si guadagnava quel che serviva per vivere ,d’estate ci si alzava presto, prima custodire gli animali lavori nella stalla ci impegnava in particolare i fratelli più grandi ma anche noi ragazzi dovevamo stregliare le vacche, io avevo anche il compito dell’allevamento dei conigli procurare loro l’erba custodirli , poi nelle giornate invernali io e mio fratello più grande costruiamo dei cesti ,con i vimini, delle canestre, io intessevo la seduta delle sedie, le imbottivo, con della stoppa, mi divertivo a creare dei motivi in ogni sedia o a dama, o a spina di pesce o adelle righe o senza motivi ero sempre impegnato, mentre alcuni poco più grandi di me con la scusa che non lo sapevano fare, se ne andavano di fuori nel prato a giocare, o magari se cera la neve si tiravano palle di neve fra loro. una di quelle domeniche ,mentre eravamo a spasso per il corso di Porto Recanati vedemmo un manifesto della Marina  Militare diceva (Vieni in Marina imparerai un mestiere e girerai il mondo). Dissi al mio amico Italo come possiamo avere qualche spiegazione? Dai domani andiamo ad informarci nell’ufficio qui vicino della Marina Militare. Ok  feci la domanda e la indirizzai secondo le istruzioni del manifesto, arriva l’otto Settembre e con Italo ed altri due amici decidiamo di andare alla festa della Madonna a Loreto, nel parco giochi incontriamo tre ragazze, Italo mi presenta due delle tre ragazze Maria vittoria ed Edda  scambiamo quattro parole poi le salutiamo.

    Seconda parte

    Dopo alcuni mesi mi arriva la risposta dalla Marina Militare  con la quale mi invita a presentarmi nella caserma a La Spezia per la visita psicotecnica. Per la prima volta salgo in treno, sono un po emozionato ma cerco di fare l’indifferente , arrivo a la Spezia esco dalla stazione vedo un pulmino della M.M. prima che mi avvicinassi a loro , un  sergente mi si avvicina e mi chiede se devo andare per la visita nella caserma della Marina, ok .  Dopo la registrazione dei documenti ci accompagnano dove sarà il nostro dormitorio e la mensa, fin che saremmo lì per gli esami. Esami molto particolari, oltre al problema ed un tema sul perché ho scelto di andare in Marina … risposta? Per che desidero studiare ed apprendere cose che nelle mie condizioni famigliari non me lo permetteva essendo famiglia contadina si poteva guadagnare il minimo per sopravvivere. Mi chiedono che categoria vorrei scegliere, io scelsi Elettricista, dal momento che avevo iniziato  di frequentare un corso per corrispondenza Radio Elettra con la possibilità di costruire un televisore ed alcuni strumenti, elettronici, mi affascinava, l’elettricità e l’elettrotecnica. Dal lunedì al venerdì un continuo esami a quiz, altre prove con materiali tipo blocchetti di legno incastrati fra loro veniva un bel cubo, ce lo faceva vedere poi lo guastavano e io dovevo ricomporlo per controllare i tempi che impiegavo per ricomporlo altra prova proiettavano delle chiazze ad acquarello, e noi dovevamo scrivere cosa ci vedevamo il quelle macchie come quando macchi un foglio di carta poi lo ripieghi e quando è asciutto lo riapri, poi controlli visivi ed altro. Ovviamente dal punteggio raggiunto loro ci assegnavano la categoria da specializzarci con il corso biennale alle scuole C.E.M.M.
    Il Venerdì mattina tutti in cortile, qui ci chiamano per nome e creano due gruppi, per che quello più numeroso i bocciati, e quindi torneranno a casa ed un gruppetto al quale appartenevo io ci dicono di andare a far la visita Medica. Io ero euforico dalla gioia.
    In quella settimana avevo fatto amicizia con dei ragazzi ma in particolare con uno che proveniva dalla campagna anche lui si chiamava Morlupi.  Torno a casa felice tranquillo, nel frattempo in attesa della chiamata continuo il lavoro nei campi con la mia famiglia per tutta l’estate, nel frattempo il parroco della mia parrocchia di Chiarino mi dice che la Marina, tramite i carabinieri di Recanati vorrebbe sapere le mie referenze, i carabinieri non mi conoscevano per cui sono andati dal parroco della mia Parrocchia sapere se mi conosceva, ovvio che il parroco gli a detto che ero un bravo ragazzo.
    A fine Agosto mi arriva la lettera dalla M. M. dicendomi che mi devo presentare alle scuole Centro Equipaggi della M.M. Domenico Bastianini a La Maddalena in Sardegna, con la qualifica di Allievo Meccanico, pensai va bene lo stesso non sarò elettricista.  Finito i 6 anni era la prima ferma, tornerò a casa e farò il meccanico? Sbagliato, nelle categorie in M.M. il meccanico non lavora con i motori  ma con le caldaie, turbine turboalternatori a vapore.
    L’otto settembre del 1959 si sposa mio fratello Armando, un bel pranzo in casa sotto una grande transenna con più di 250 invitati fra parenti ed amici suoi. I miei pensieri erano già altrove. Nella sera stessa verso le 19 parto per andare in Marina,  con la  valigetta di cartone già pronta e circa 2.000 lire in tasca arrivo al mattino a Civitavecchia, per imbarcarmi sul traghetto per Olbia in Sardegna. Ci troviamo con molti altri ragazzi come me e ritrovo il nuovo l’amico Morlupi, che avevo già conosciuto la settimana a La Spezia per le visite. Ad aspettarci ad Olbia c’erano due pullman della M.M. per trasferirci a Palau, poi da lì ancora il traghetto per la Maddalena,  entrati in caserma inizia una disciplina severa, inizia l’inquadramento, ci dividono per sezioni, io facevo parte della terza sezione Meccanici, il nostro capo Inquadratore si chiamava capo Buluggiu.  Da lì ai dormitori al piano di sopra assegnati il letto e l’armadietto. Di nuovo in cortile. In magazzino per la consegna della divisa , le scarpe i calzini la tuta per la scuola e per il lavoro.
    Poi in fila per la cena assegnato il tavolo nel refettorio. Giorno successivo in fila per la puntura al petto, poi  ci consegnano i libri, eeeeeh che bello finalmente avevo 23 libri, scrissi subito a mia madre dicendogli, finalmente ho da studiare.


    Il giorno seguente inizia la vera vita in caserma. Sveglia alle 6 e 30, alle 7 giù in cortile per la ginnastica, in pratica in 30 minuti andare al bagno radersi la barba lavarsi vestirsi e rifare la branda in perfetto ordine. Ore 7 e 30, posto di lavaggio, a gruppetti, con in capo sezione è un allievo scelto (anziano) dell’anno precedente, in quanto (il corso aveva la durata di 2 anni). Muniti di scopa e  radazza dovevamo pulire il posto a noi assegnato, come dormitori, le aule il refettorio le officine, la sala cinema ecc. Ore 8 colazione, ore 8 e 30, tutti in aula, 10 e 30 di nuovo in cortile per la merenda (panino e formaggio) ore 11 in aula fino alle 13 pranzo poi dalle 15 un ora di esercitazioni,per imparare a marciare, fare il saluto militare ad usare il fucile. Le materie scolastiche erano diverse Matematica- Italiano – Motori – Materiali motori – Fisica Disegno – elettrotecnica – Officina I.G.V (istruzioni generali varie) pratica di bordo. In officina, nel giro dei 2 anni scolastici si faceva il giro nel locale officina, lì si impara a lavorare al tornio. Poi si passa alla saldatura sia elettrica che autogena con la fiamma ossidrica, poi  congegnatore  con lima e calibro,a forza di limare si deve realizzare un incastro a coda di rondine fra due pezzi di ferro il più preciso possibile. Poi ci portava nell’officina Macchinari, li un istruttore Maresciallo anziano della nostra categoria ci mostrava come erano fatti internamente certi macchinari, caldaie turbine turboalternatori  (generatori di corrente) pompe di alimento, condensatori dissalatore (distilla l’acqua di mare in acqua dolce), pompe a campana (sono sotto ad una campana in sentina (nel punto più basso della nave) in quanto devono funzionare anche quanto il locale è allagato per qualche eventuale falla, e per alimentare l’impianto antincendio.
    Alle ore 16 tutti gli allievi che durante le lezioni in aula avessero preso l’insufficienza. Dovevano recarsi in refettorio con il libro, e studiare con il massimo silenzio, sorvegliati da un paio di sottufficiali, mentre gli altri potevano uscire in franchigia,io volevo studiare captare il più possibile anche se non ero punito mi mettevo fra loro così ripassavo quelle cose che mi rimanevano più difficili, in particolare ,il disegno tecnico devo dire mi riusciva molto bene, però ecco mi ci voleva più tempo.
    Verso il 10 Dicembre il primo vero esame, ero un po preoccupato, molti dei miei colleghi avevano delle scuole superiori, ben pochi avevano le scuole elementari come me, però in fondo speravo di superarlo.
    Gli esami duravano alcuni giorni , chi venivano bocciati li rimandavano a casa. Con mia vera sorpresa mi classificai 24esimo su 175 allievi, ero stracontento, un particolare che mi fece riflettere? I miei disegni tecnici li ritenevo ottimi e il voto fu  18 ventesimi direi ottimo, un mio amico di scuole superiori nel suo disegno prese 19 ventesimi rimane il fatto che alcuni disegni i più difficili gli e li avevo fatti io certo non era curati come i miei eppure un voto in più del mio, vabbè lui era raccomandato. Io anche ma dal PADRETERNO. Il 17 Dicembre via tutti a casa in licenza fino all’epifania. Nel frattempo il Comandante delle scuole scrive a mio padre, una bella lettera. E complimentandosi per le mie doti (di bravo figliolo).
    La paghetta alle scuole era di  circa 5.000 lire al mese, siccome uscivo pochissimo ne spendevo 2000 £ e me ne rimanevano 3000.vado in licenza con circa 13.000 £ in tasca.  A Recanati mi compero l’orologio bello un Lanco da 9.000 £ mi sentivo bene. Un signoretto. Mente sto passeggiando sotto il monumento di Leopardi con il mio amico Italo incontrammo le sue cugine Maria Vittoria e Edda ed una loro amica faceva freddino, le invitammo a prendere un qualcosa di caldo al bar li in piazza, gli pagai volentieri da bere. Mi sentivo già uno che cercava di farcela.

    Ormai, ritorno alle scuole tutto prosegue tranquillamente fino al prossimo esame al Giugno dell’anno successivo1960 , ottenni un buon punteggio dagli esami e ci mandarono per fare il primo tirocinio per 3 mesi sulle navi, a me con altri allievi ci mandano sull’incrociatore  Raimondo Montecuccoli, accompagnati da un nostro Ufficiale, la nave è vecchiotta ma va bene così. A bordo cerano anche un gruppo di cadetti da Livorno, futuri ufficiali, tutti diplomati o laureati.
    Il propulsore della nave era composto da 4 locali caldaie e due locali macchine, per dar movimento alle due eliche. Ci misi il massimo del mio impegno per poter fare una bella figura agli esami del fine tirocinio. Mi procurai un quaderno da disegno, aggiunsi due fogli mi sarebbero serviti per disegnarci tutti quei tubi di vapore saturo e surriscaldato, tubi della nafta e dell’aria compressa compresi quelli di tutto il percorso che va dalla caldaia dove gli arriva l’acqua dolce derivante dal vapore condensato tramite uno scambiatore di calore fra acqua di mare e il vapore ormai saturo dopo aver ceduto la sua energia termica e dinamica alle turbine. Nelle ore libere scendevo dal primo locale caldaia di prua rilevavo dei schizzi su un quaderno, davo anche le dimensioni ai tubi come se fossero a scala, inserivo, valvole macchinari   insomma alla fine viene fuori davvero un bel disegno tecnico, premetto che una gran parte dei tubi corre in sentina, cioè sotto i paioli (sono lastre di ferro che compone il pavimento) ed a sollevarli talvolta anche sporchi non è stato facile ma volevo riuscire.
    Il bello avviene il giorno degli esami, si svolge in coperta, vedo intorno dei pezzi grossi l’Ammiraglio, il comandante e il Maggiore del genio navale ed altri ufficiali in coperta all’ombra di un grande tendone.
    Arriva il mio turno come presento il mio disegno il maggiore mi interroga e mi fa seguire dei circuiti ,gli bastano poche parole  per capre che era fatti da me, invece un un ufficiale molto alto di grado credo l’Ammiraglio disse, ma lui lo avrà copiato dai cadetti (allievi ufficiali) per fortuna il tenente che ci accompagnava disse comandante questi schizzi li a fatti Mariani ho visto quando li rilevava. Dopo di me un altro mio amico presenta il disegno, il quale aveva copiato il mio, ma in parte, quando lo interroga sul disegno non sa dare spiegazioni adeguate, il maggiore gli dice basta così ho capito che non è farina del tuo sacco. Dopo  questi esami , un amico della mia sezione Miglionico di origine Napoletana mi dice mi vendi il disegno ti do 500 £.  Ci ho pensato un po, ma poi pensandoci dico, cosa me ne faccio,su questa nave non ci manderanno di sicuro, (stava per andare in disarmo), gli cedetti il disegno. Dopo circa un anno seppi che lo aveva rivenduto, per 3000 £. Vero che i napoletani son dei simpatici esperti di commercio.
    Ancora 15 giorni di licenza, poi di nuovo alle scuole per frequentare il secondo anno con il grado di caporale. Tutto fila liscio, ancora un esame,sempre in tutte le materie, verso il 18 dicembre di nuovo in licenza natalizia.  Ancora in aula dopo l’epifania, a Giugno del 1961 esami finali. Gli esami finali in tutte le materie. Con ottimi voti mi sento soddisfatto. di fine tirocinio sulle navi consisteva in una materia unica ciò che avevamo appreso durante le navigazioni.  Ancora il tirocinio sulla nave Cigno dopo i due mesi esami prima di sbarcare. Poi in licenza per 15 giorni, in quei giorni di  licenza, la domenica andiamo con il mio amico Italo, cugino di mia moglie andiamo a Loreto per la festa della Madonna, nel parco giochi, incontriamo ancora le 3 ragazze, due cugine del mio amico Italo me le presenta e incominciamo a chiacchierare del più e del meno  in particolare la più grande mi crea un certo interesse così passa la giornata, la domenica successiva, ci incontriamo di nuovo a Recanati offro loro un caffè passeggiamo un po’, la Maria vittoria mi crea un certo interesse ma non dico nulla al mio amico.
    Finito la licenza, imbarco definitivo sulla Nave Castore a partire dal settembre del 1961 al Maggio del 1965.

    Terza parte

    Settembre 1961 destinazione nave Castore , assieme ad altri 3 compagni di corso ,con il grado di sottocapo, mi trovo subito a mio agio, perché è la gemella della Nave Cigno dove feci il tirocinio 3 mesi prima. Destinazione locale macchina di Poppa, sia come posto di lavoro che come posto di guardia in navigazione,mi adattai abbastanza presto, sia con gli ufficiali del mio reparto che con i sottufficiali e marinai di leva. Mi trovavo bene pian piano resi il mio locale quasi perfetto pulito ordinato ,strumenti efficienti e brillanti. In navigazione la mia squadra era composta da un maresciallo anziano prossimo alla pensione,  io e 3 giovani  ragazzi di leva la loro categoria si chiama Fochisti. Un tempo le caldaie si alimentavano con il carbone quindi i ragazzi di leva stavano attento al fuoco che non si spegnesse. Fuoco  (fuochisti). Il maresciallo ,non dava confidenza ai ragazzi di leva non li istruiva, certo che anche lui si sentiva,non tranquillo, per che lui avendo fatto la scuola Meccanici ,minimo 30 anni addietro e a quel tempo non cerano le turbine con i rispettivi riduttori per far girare le eliche, bensì le macchine alternative simile a quelle delle locomotive a vapore ai treni. A me piaceva insegnare a quei ragazzi tutto il funzionamento ed i meccanismi delle varie macchine, turbine, condensatori (scambiatori di calore), Eiettori che servivano per mantenerla massima depressione o vuoto nel condensatore, e turbo alternatori per erogare energia quando le caldaie fossero in funzione, d’altronde alcuni di essi erano diplomati o scuole medie superiori. Così si sentivano responsabili del proprio lavoro. Li vedevo soddisfatti ed interessati nel loro posto di lavoro e di guardia in navigazione. Eravamo ormai una squadra molto coesa, peccato che il Maresciallo non riusciva dialogare con i ragazzi, i quali venivano spesso messi a rapporto e puniti creando un ambiente difficile scontroso. Un giorno il maresciallo, odiato dai ragazzi , se ne va per un mese in licenza ,rimasi io come sostituto al Maresciallo, il primo giorno scendiamo al posto di lavoro in sala macchina sapevo che cera da pulire la sentina; locale sotto il pavimento sempre unto sporco fra grasso olio e nafta ed acqua. Ok senza dire nulla al ragazzi dopo una breve chiacchierata ed una sigaretta armato di cascame e stracci tolgo dei paglioli (lastre che compone il pavimento) chiacchierando mi metto a pulire io  e loro vedendomi che non gli ordinavo di farlo, loro dopo un po mi dice ,dai lascia perdere lo facciamo noi, loro tranquilli lavoravano davvero con piacere. Dopo alcuni giorni mi chiama a rapporto il Maggiore GN. e mi chiede: “ma cosa gli ai fatto a quei ragazzi! Non prendono più le punizioni ? Io li faccio chiacchierare e loro lavorano volentieri risposi”.

    Verso il 1963, come posto di lavoro non più in macchina ma addetto alla manutenzione ai frigoriferi ed ai condizionatori di aria ed ai vari Pavan (fontanelle di acqua fresca). Sinceramente non ero molto pratico del freddo artificiale anche se alle scuole C.E.M.M. avevo avuto delle delucidazioni, però imparai abbastanza con l’aiuto degli operai specializzati dell’arsenale addetti a queste macchine del freddo, in cambio di una stecca di sigarette loro mi sono stati molto preziosi come ottimi insegnanti.  Nel frattempo studiavo per conseguire la patente di Primo grado generale da conduttore Caldaie a vapore  di qualsiasi potenza. quando mi sentii pronto chiesi il permesso per dare gli esami all’ispettorato del lavoro di Arezzo. Superai brillantemente gli esami. Detta abilitazione mi poteva servire per trovare lavoro una volta tornato nella vita  civile. Ormai conoscevo abbastanza bene tutto l’impianto della propulsione a vapore e l’impianto antincendio e condizionamento.
    Nel 1964 Olimpiadi di Tokio. Il nostro Governo su scelta del Comando M.M. mandano alcune delle nostre navi come rappresentanza della Marina Militare Italiana. Una bella crociera di alcuni mesi, mi viene chiesto di far pervenire dei documenti dei miei famigliari che attesti la fedina penale pulita, a casa avevo 9 maggiorenni fra fratelli cognate e genitori, procuro tutto il materiale  e lo consegno regolarmente nella segreteria di bordo sarei dovuto sbarcare per andare a fare il segretario del settimo e ottavo reparto in una nave in partenza per le olimpiadi. Stop il mio Maggiore GN. Telefona al ministero M.M. per dire che non doveva farmi sbarcare, a detta del maggiore ero indispensabile rimanere sul Castore. Da un lato ero dispiaciuto di non poter andare in crociera ma per la grande fiducia che il Maggiore aveva in me sono stato contento di rimanere a bordo. Anche l’ufficiale del mio reparto Gaetano Ferraro mi disse: “dai che quando ritorneranno i croceristi noi ci facciamo una bella licenza”, e così fu .  Amavo molto il mio lavoro mi dava molte soddisfazioni. SI esce spesso in mare per fare delle esercitazioni, come se fossimo in vero combattimento, sia con la nostra Squadra Navale o con le forze dellA N.A.T.O. In un uscita in mare, eseguiamo un esercitazione come se fossimo in guerra, arriva un ordine dalla plancia dal comandante … una bomba danneggia e blocca la motrice di prora (proseguire la navigazione), ma dal boccaporto del locale macchina di prora (rimane vicino al centralino macchina), esce vapore e si sentono una certa confusione dal basso, non sanno come manovrare certe valvole per poter alimentare la turbina di poppa con le due caldaie in parallelo. Al centralino cera il Maggiore GN , a me scappa detto ma è tanto semplice, il Maggiore mi dice: ma tu sapresti cosa fare? Si, ma non scendo giù ci sono marescialli e ufficiali e la squadra di guardia.  Te lo ordino anzi vieni giù con me. Mi è bastato di dire chiudete la valvola che porta vapore alle turbine ed aprite quella che manda alla turbina di poppa, tutto torna regolare . La nave continua a navigare sempre in scorta convoglio. Il giorno successivo alla assemblea a poppa una bella strigliata al personale di guardia in macchina di prora. Io mi son guadagnato 3 giorni di licenza premio. Ma non lo fatto per farmi bello l’ho fatto solo per il reparto. Alcuni mesi dopo in un’altra uscita in mare per un esercitazione con le forze della N.A.T.O., ad un certo punto verso le ore 20 si blocca la motrice di prora era in avaria una valvola oleodinamica. Rottura del pistoncino idraulico che regola il flusso di olio per regolare l’apertura o chiusura dell’olio che va ai cuscinetti dei riduttori. Scendono in macchina il comandante in seconda ed il maggiore GN per capire se dovevamo farci da parte dalla scorta convoglio, o proseguire ma con una sola elica era impossibile seguire le esercitazioni, piccola consultazione fra noi io e Ivo Bazzini  Dutto Mario ed un altro sergente meccanico disposti a lavorare anche se in precarie condizioni sopra il riduttore molto caldo consultammo il fochista Vittorio Celli se sarebbe stato in grado di rifare quel pistoncino rotto al tornio, lui ci a confermato che ci avrebbe provato. Così noi smontato il pistoncino, il Celli subito al tornio, noi lo rimandammo. In meno di 4 ore la motrice riprende a funzionare con la grande soddisfazione di tutti specie del comandante per che non ha avvisato il comando di squadra, il Maggiore per che a dimostrato che il reparto è efficiente e noi operatori ci hanno premiato con 3 giorni di licenza premio.

    Gennaio del 1965 una nuova legge dice che dopo i 3 anni di marina, dovevamo passare al grado di Sergente, ero molto soddisfatto e felice con i galloni d’oro ed una bella divisa da sottufficiale e qualche liretta in più nello stipendio . a Bordo ci assegnano il locale 3 per alloggio sergenti, tutti abbastanza felici nelle ore libere qualche volta ci facevano un partitella a Ramino, non si giocava a soldi ma a birrette le pagavano chi perdevano ovvio.
    Ventidue Febbraio un’altra uscita in mare per elle esercitazioni ancora il Castore come era di sua competenza di scorta convoglio e caccia antisom, si naviga abbastanza tranquilli, fatto cena vado in branda, per poi farmi il mio turno di guardia da mezzanotte alle 4. Ad un certo punto sento un gran botto una spinta sulla fiancata destra ed un gran cattivo odore tipo zolfo, subito l’altoparlante dava emergenza indossare il salvagente in coperta per abbandono nave, molto spavento ma non panico al momento. In coperta capimmo la grande tragedia. Non ci potevamo muovere più di tanto per non intralciare il soccorso, era buio esterno si vedeva la prua di un’altra nave verso si noi era l’Etna. Passati interminabili minuti l’altoparlante chiama il mio reparto assemblea a Poppa, e li capii davvero la tragedia, una parte della poppa era quasi staccata dal resto della nave si reggeva sopra l’asse dell’elica destro piegato, lo squarcio era avvenuto nel locale 6 dove a quell’ora cerano molti ragazzi il branda. Si sentivano grida ma era impossibile soccorrerli dovevamo aprire un varco tagliando dei tubi di una branda per liberare un ragazzo incastrato, il fuochista esperto con la fiamma ossidrica, come si e visto il suo amico lì incastrato che gridava è svenuto così il maggiore a detto chi di voi sa usare la fiamma ossidrica,non ce ne erano nessuno, dissi io la so usare di quel poco che mi ha insegnato alle scuole CEMM. Contemporaneamente altri del mio reparto stavano puntellando la paratia lato interno per resistere alla pressione dell’acqua del mare, quelli di coperta si davano da fare per imbragare bene la parte penzolante con cavi fra le bitte quelle penzolanti a quelle fisse. Scendo munito di salvagente nel pezzo pericolante con il cannello da taglio a fiamma, mentre dietro il capitano Rossi con la manichetta cercava di raffreddare  mentre tagliavo il tubo della brandina vicino il viso di Monsurrò, facevo molta fatica in quella condizione a lavorare con la fiamma,ma non cera molto tempo di pensare ad altri rimedi, nel frattempo l’infermiere tramite il boccaporto per scendere nel locale timone è riuscito a fare una puntura al Monsurrò per tenerlo sveglio, non so quanto tempo sono rimasto li con la fiamma poi mi hanno dato il cambio e non so chi so che cera anche il sottotenente del mio reparto  signor Bolcano; ormai avevo fatto quasi tutto il lavoro con la fiamma. Il capitano mi manda in branda ,dice che ero una bestia per aver resistito tanto ma io non mi curavo del pericolo, volevo liberare il marinaio. In seguito  seppi che ci furono 4 morti e 11 feriti ed il Monurrò viene liberato ,purtroppo con una gamba rotta. Eravamo a largo di Punta Stilo.
    Fummo rimorchiati dalla nave Rizzo, per portarci fin dentro l’arsenale a Messina.
    Tre giorni dopo ci mandarono come rappresentanza del settimo ottavo reparto un ufficiale Signor Rossi, io come sottufficiale ed altri 3 fuochisti. Per scortare le salme di Celli Vittorio e Duse Aristide.
    Prima passammo a Castel del Monte (AQ) per accompagnare la Salma ci Celli Vittorio,poi il giorno successivo partimmo per Chioggia per accompagnare Duse Aristide miei carissimi amici. All’altezza di Porto Recanati scesi per andare 15 giorni di permesso dal momento che ero a 3 km da casa mia.
    Ritornato a Bordo  il Maggiore e con il comandante in seconda di concesse altri 15 giorni di permesso in compenso al mio impegno nella sera della tragedia.
    A Maggio sbarcai dal Castore e mi mandarono sul Canopo, e lì destinazione Motrice di poppa, e dopo un paio di giorni prima uscita in mare, subito mi accorgo che qualcosa non mi tornava; tenevano i due eiettori in funzione per tenere un vuoto nel condensatore neanche a -70 bar quando sul Castore quasi a -75 con metà funzione di un eiettore? Mentre scende in macchina il maggiore ,gli feci notare la cosa? Lui per tutta risposta mi disse ma è così, no gli dissi io penso di andare in seguito con uno solo eiettore e portare il vuoto a meno 75  e Lui se ci riesci sarai premiato, ovviamente più il vuoto è verso il massimo e migliore è il rendimento della turbina.
    Il giorno successivo in porto tutto tranquillo, ispeziono bene il condensatore intorno le flange dei tubi  ma mi accorgo che era il condensatore e l’attacco sotto la TURBINA DI BASSA PRESSIONE, si era creato uno spazio di 2 o 3 mm. tutto intorno alla corona dell’attacco, mi armai di un filo di amianto lungo circa 7 o 8 m ed una chiave abbastanza grande credo un 26 mm mi sporcai mi sbucciai anche un po la mano ma pensai di aver fatto un buon lavoro.
    La prima uscita in mare Il Maggiore si era ricordato della scommessa scende in macchina controlla gli eiettori ed il manovuotometro un solo eiettore in funzione e vuoto a -75 mi premiò con 3 giorni di licenza premio. Ero innamorato del mio lavoro.

    Nell’estate di quell’anno in Liguria credo la Spezia cerano delle visite a bordo degli ex Mariani di Torino, mentre accompagnavo due signori parlando mi fecero alcune domane è gli dissi che a Dicembre mi sarei congedato terminati i miei 6 anni delle prima ferma così mi dissero se cosa facevo a Bordo, dissi in navigazione di guardia in motrice di poppa come capo turno, mentre in porto ero addetto alla manutenzione e controllo aria condizionata e frigoriferi, combinazione loro erano impiegati in una fabbrica di Frigoriferi La Costan così mi fecero diverse domande in materia del freddo, poi alla fine mi dissero se vuoi venire a lavorare da noi facci sapere il posto è assicurato .
    Andai in congedo il 30 Dicembre 1965 dopo 8 giorni ero già a Torino a lavorare alla Costan.