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    Arturo Martini (Napoli, 5.11.1881 – Gaeta, 26.4.1969) e la Beffa di Buccari

    di Carlo Di Nitto (1)

    (Napoli, 5.11.1881 – Gaeta, 26.4.1969)


    …il ricordo di un marinaio mai dimenticato.

    Eravamo ragazzi allora e vivevamo intensamente i favolosi anni Sessanta.
    Al cinema, Clint Eastwood faceva giustizia con la sua “colt” nei film di Sergio Leone ed i nostri miti erano i Beatles ed il mare.
    Eravamo ammalati di mare e per noi la pesca rappresentava il massimo del nostro rapporto con la natura.
    Quando andavamo a Gaeta vecchia, quasi sempre incontravamo a Punta della Sanità un vecchio signore intento a pescare. La sua canna da pesca era rigorosamente di bambù, non come quelle di oggi fatte in fibra o resina, e doveva essere anche abbastanza pesante; portava tutte le sue cose in un cestino di vimini che gli serviva pure da sgabello. Si diceva che i cefali tremavano quando lo sentivano arrivare.
    Nonostante l’età, era ancora un bell’uomo; ispirava una simpatia istintiva ed il suo portamento era caratterizzato da una fierezza che ci affascinava, anche se non sapevamo perché.
    Cercando di dargli il minor fastidio possibile, gli chiedevamo consigli che lui, ben volentieri, ci forniva con dovizia di particolari. Ci parlava del mare come di un grande amico, dei suoi segreti, dei suoi misteri, della sua poesia, del rispetto che gli è dovuto.
    Era conosciuto da tutti come il cavalier Martini, Arturo Martini.
    Negli anni successivi, appresi che il cavalier Martini durante la Grande Guerra era stato decorato più volte per il suo eroico comportamento. Nella sua modestia non aveva mai parlato di sé ed allora, cercando di saperne di più, scoprii molte cose della sua nobile e generosa vita, che oggi me ne rendono ancora più vivo ed entusiasta il ricordo.
    Era nato a Napoli nel 1881 e si arruolò ben presto nella Regia Marina con la categoria di silurista. Trovandosi a Gaeta per servizio, conobbe Laura, una bella ragazza gaetana che sarebbe diventata la sua sposa.

    Durante la Grande Guerra, con il grado di Secondo Capo silurista ed assegnato ai MAS al comando di Luigi Rizzo, prese parte alle più note ed eroiche imprese compiute da questo Comandante, sulle quali tanto è stato scritto.
    Fu Arturo Martini, imbarcato sul MAS 9, che il 9 dicembre 1917 sganciò i siluri che affondarono la corazzata austroungarica “Wien” nel corso di un’ardita azione nel porto di Trieste.
    Successivamente, nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, partecipò alla “Beffa di Buccari(2), impresa di grande risonanza psicologica e propagandistica, alla quale prese parte anche il poeta Gabriele d’Annunzio che, cantandola nei suoi versi, contribuì a risollevare il morale italiano dopo la triste esperienza di Caporetto:

    «… Siamo trenta d’una sorte,
    e trentuno con la morte.

    … Siamo trenta su tre gusci
    su tre tavole di ponte:
    secco fegato, cuor duro,
    cuoia dure, dura fronte …»

    “… Non torneremo indietro‑ «Memento Audere Semper» leggo su la tavoletta che sta dietro la ruota del timone: il motto composto poco fa, le tre parole che sono la disciplina del nostro Corpo. Il timoniere ha trovato subito il modo di scriverle in belle maiuscole, tenendo con una mano la ruota e con l’altra la matita. «Ricordati di osar sempre».”

    Per la sua compartecipazione a queste imprese, Arturo Martini venne decorato di medaglie d’argento e di bronzo al Valor Militare.
    Negli anni successivi il cavalier Martini, si stabilì definitivamente a Gaeta a trascorrere con serenità gli anni della vecchiaia. La vita non gli aveva concesso la gioia di avere figli, ma la sua gentilezza e la sua cordialità lo resero amato ed apprezzato da quanti ebbero la fortuna di conoscerne le qualità umane.
    Nel 1969 la sua amata Laura si addormentò per sempre. Poche ore dopo, anche il nobile e generoso cuore di Arturo Martini, che non aveva  retto al dolore di aver perso la compagna della sua lunga vita, cessò di battere.
    Dormono insieme nel cimitero di Gaeta e, per una circostanza fortuita, vicino a lui riposa un eroico compagno di Buccari: il Marinaio scelto Giuseppe Corti da Ponza.
    Sulla tomba si legge:

    Cavaliere Arturo Martini, “dei trenta di Buccari”.

    Note:
    (1) Carlo Di Nitto 
    Nasce il 5 novembre 1948 a Gaeta (LT)  in anni ancora difficili; ha vissuto una giovinezza stupenda nei favolosi anni ’60. Orgogliosamente ha prestato servizio nella Marina Militare ed ha navigato un po’ nella Marina Mercantile come Allievo ufficiale Macchine. E felicemente coniugato, ha due figlie splendide che lo vorrebbero un po’ più magro (e in questo sono più dure della madre).
    Dopo trentasette anni di servizio nella pubblica Amministrazione (I.N.P.D.A.P.) è approdato alla pensione. Attualmente riveste l’incarico di Presidente dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia Gruppo di Gaeta (Latina) e i suoi passatempo preferiti sono la lettura e la fotografia.
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    Contatti

    http://www.anmigaeta.com
    carandin@iol.it
    carlo.dinitto@libero.it

    (2) La Beffa di Buccari
    L’azione svoltasi nella notte sull’11 febbraio 1918, passò alla storia come la beffa di Buccari, e fu annoverata dagli storici “tra le imprese più audaci” del conflitto con una “influenza morale incalcolabile”, anche se purtroppo “sterile di risultati materiali”. Al comando di Costanzo Ciano, all’azione parteciparono i M.A.S. 96 (al comando di Rizzo con a bordo Gabriele D’Annunzio), 95 e 94, rimorchiati ciascuno da una torpediniera e con la protezione di unità leggere. Dopo quattordici ore di navigazione, alle 22.00 del 10 febbraio, i tre M.A.S. iniziarono il loro pericoloso trasferimento dalla zona compresa tra l’isola di Cherso e la costa istriana sino alla baia di Buccari dove, secondo le informazioni dello spionaggio, sostavano unità nemiche sia mercantili sia militari.
    L’audacia dell’impresa trova ragione di essere nel percorso di 50 miglia tra le maglie della difesa costiera nemica, anche se l’attacco non riuscì, dato che i siluri lanciati dalle 3 motosiluranti si impigliarono nelle reti che erano a protezione dei piroscafi alla fonda. Le unità italiane riuscirono successivamente a riguadagnare il largo tra l’incredulità dei posti di vedetta austriaci che non credettero possibile che unità italiane fossero entrate fino in fondo al porto, e che non reagirono con le armi ritenendo dovesse trattarsi di naviglio austriaco.
    Dal punto di vista propriamente operativo, emerse un elemento importante dalla scorreria dei M.A.S. a Buccari: le facili smagliature ed il mancato coordinamento del sistema di vigilanza costiero austriaco che finiva per prestare il fianco all’intraprendenza dei marinai italiani sempre più audaci.
    L’impresa di Buccari ebbe poi una grande risonanza, in una guerra in cui gli aspetti psicologici cominciavano ad avere un preciso rilievo, anche per la partecipazione diretta di Gabriele D’Annunzio, che abilmente orchestrò i risvolti propagandistici dell’azione e che lascio in mare davanti alla costa nemica, tre bottiglie ornate di nastri tricolori recanti un satirico messaggio così concepito: “In onta alla cautissima

    Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre ad osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto, il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro, è venuto con loro a beffarsi della taglia”.
    (tratto da
    http://www.marina.difesa.it/storiacultura/storia/palazzomarina/Pagine/LabeffadiBuccari.aspx)

    Per saperne di più
    Autore: Giorgio Giorgerini;
    Titolo: Attacco dal mare;
    Casa editrice: Mondadori;
    Anno di pubblicazione: 2007;
    ISBN: 8804512431;
    Cartonato con sovraccoperta, f.to 14,0 x 21,5 cm. pag. 468.
    Dai Primi MAS della Grande Guerra ai barchini esplosivi e ai “maiali” della X Flottiglia, ai mezzi avveniristici di oggi: un secolo di storia dei reparti d’assalto navale italiani.

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    I nonni del Reggimento San Marco

    di Carlo Di Nitto

    I “Nonni” dei Marò del “San Marco”, ovvero i “Marinai dei reparti da sbarco” si imbarcano per rientrare a bordo delle proprie unità sulla spiaggia di Vendicio tra Gaeta e Formia. Fotografia eseguita verosimilmente nel mese di settembre 1909 al termine di una imponente esercitazione terrestre e navale svoltasi alla presenza del re Vittorio Emanuele III con largo impiego di marinai dei reparti da sbarco. Sullo sfondo l’inconfondibile profilo della collina di Monte di Conca sovrastata dal Forte di artiglieria costiera “Emilio Savio” che fu oggetto di un attacco simulato da parte dei reparti da sbarco appoggiati dalle artiglierie delle unità navali partecipanti.

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    Ulisse, il suicidio delle sirene e altro

    a cura Antonio Cimmino

    Questo articolo è dedicato a tutte le donne, in modo speciale a quelle dei marinai, che in ogni istante della loro esistenza si armano di santa pazienza, di buona volontà e di amore per l’unità della famiglia. Esse, come Penelope, amano semplicemente, come sempre e per sempre (Pancrazio “Ezio” Vinciguerra)

    Ulisse il mitico personaggio omerico rappresenta una metafora del viaggio di ogni individuo, quello che conduce alla conoscenza del mondo e di se stessi. Eroe antico e moderno allo stesso tempo, è un navigatore esperto che sa governare una nave ed un regno. Con il suo desiderio di avventura, il suo coraggio, la determinazione nel perseguire l’obiettivo, la capacità di leadership, la capacità di saper offrire sicurezza al proprio equipaggio, rappresenta la massima possibile espressione delle aspirazioni e delle qualità che un uomo di mare si pone e di cui desidererebbe poter disporre per realizzare i propri traguardi. D’altra parte l’uomo di mare è molto concreto per scelta e per necessità, dovendosi confrontare con un elemento che, in alcuni momenti, non lascia molto spazio alla fantasia e che richiede in ogni istante di dover risolvere il problema contingente prima di approntarsi alla soluzione di quello successivo. In questo senso ciascuno di noi marinai deve essere pienamente consapevole delle proprie capacità, frutto dell’esperienza e di un duro lavoro, per applicarle al meglio, avendo a riferimento i valori che la figura di Ulisse emblematicamente rappresenta. In una parola nessun marinaio può presumere di sentirsi come Ulisse. Ma identifica in questo mitico eroe la possibilità di raggiungere anche le mete più impegnative. Le reincarnazioni dell’eroe omerico sono decine e decine, e coloro che inaugurano il modernismo, Erza Pound, T.S. Eliot e James Joyce, lo aprono tutti significativamente, con l’ombra e le tracce di Ulisse. Un meccanismo che si ripete puntualmente dopo l’Ulisse dantesco, in romanzi come “Il vecchio e il mare”, “Il capitano Achab”, racconti coinvolgenti che nascono dallo stupore che l’uomo prova dinanzi a ciò che non conosce. In estrema sintesi, quando ciascuno di noi viene a contatto con le meraviglie del nuovo e dell’ignoto.

    La storia ci narra che oltre ad essere un indomito guerriero, fu un abile ingegnere, ne è testimonianza la prodigiosa invenzione del cavallo di Troia che ancora oggi ci sorprende per la genialità. La guerra tra troiani e greci fu vinta, da quest’ultimi, grazie a questo espediente, frutto della sua intelligenza. Oltre ad essere un abile artigiano, costruttore della zattera e del talamo nuziale, è il simbolo di chi sperimenta, ricerca, stupisce e si stupisce, di chi va alla scoperta del perché delle cose e delle ragioni di ciò che prova o incontra. Quando gli altri ritornano dalla guerra lui continua a navigare con i suoi amici per il Mediterraneo malgrado a Itaca, sua amata patria, abbia lasciato la fedele e innamorata moglie Penelope ed il figlio Telemaco. Penelope non è una donna torbida e intrigante come la malevola Circe che trasforma gli uomini in maiali. Sebbene altre donne innamorate e generose come Calipso e Nausica abbiano tentato di sedurlo, Ulisse non ha che un pensiero fisso: come ogni marinaio pensa alla sua amata, a suo figlio e alla propria terra. Prima di approdare nella sua Itaca, deve però affrontare uragani e divinità avverse; i mostri marini Scilla e Cariddi, resistere ai canti ammalianti delle sirene facendosi legare all’albero della nave. Perde i compagni nei naufragi. Si misura con il ciclope Polifemo: il gigante con un solo occhio che nell’Etna fabbrica i fulmini di Giove. Scende persino nell’Ade. Quando finalmente raggiunge la sua Itaca, malgrado Minerva lo ha trasformato in un mendicante per renderlo non identificabile, viene riconosciuto dal suo fedele cane Argo e dalla nutrice d’infanzia Euriclea. Si vendica dei Proci che tentano invano di rubargli la moglie e il regno e li uccide aiutato dal figlio. Fin qui l’epica storia del più ammirato dei marinai. Nonostante siano passati millenni dalle vicende raccontate nell’Odissea ancora oggi l’angelo del focolare resta la donna. Anzi negli ultimi tempi le donne sono diventate più forti e, pur avendo conquistato importanti posizioni nel lavoro e nella società contemporanea, rimangono, per la loro dedizione e generosità, la vera anima della famiglia, il punto di riferimento per i loro cari, il porto sicuro dopo le battaglie a cui la vita moderna ci sottopone.

    Ognuno di noi marinai sa che in fondo al proprio cuore c’è sempre una “Penelope” ad aspettarlo: la propria amata. La donna del nostro destino; la tessitrice di quel filo che, come Penelope, non finisce mai di raggomitolare, di quel filo, simbolo del legame e della continuità dell’amore eterno, che genera la vita (Pancrazio “Ezio” Vinciguerra).

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    Nicola Chiusano (Montella, 12.12.1921 – 25.4.2013)

    di Antonio Camuso
    tratto da la Domenica de il Quotidiano del Sud (info@quotidianodelsu.it)
    di domenica 19 settembre 2021
    Segnalato da Sebastiano Lavecchia (*)

    (Montella, 12.12.1921 – 25.4.2013)

    Nicola Chiusano, nato a Montella il 12 dicembre 1921 decedeva a 91 anni compiuti il 25 aprile del 2013 mentre si festeggiava in tutta Italia il 68esimo della vittoria della lotta di Liberazione dal nazifascismo, alla quale lui stesso era stato partecipe e testimone. Un’esperienza che lo accomunava con quella di mio padre, Luigi “Gino” Camuso anche lui montellese, marinaio nella Regia Marina, coinvolto nelle vicende dolorose che travolsero le forze arma- te italiane dopo l’8 settembre 1943 e testimone anche lui di episodi tragici e con aspetti al limite del paradossale. Tra i due compaesani, quella comune esperienza aveva fatto sì che si consolidasse una fraterna amicizia e se pur residenti, l’uno a Montella e mio padre a Brindisi, ogni anno, si ritrovavano nelle cerimonie dell’Associazione Reduci e combattenti di Montella, dove si prodigava attivamente Nicola Chiusano. Un impegno che quest’ultimo  si accompagnava con quello a favore del Santuario del SS Salvatore cui era profondamente devoto. Una vitalità, in un novantenne, che mi aveva incuriosito e spinto a farmi concedere da lui un’intervista nell’agosto del 2012, e  in cui mi narrò la sua esperienza di marinaio italiano coinvolto, suo malgrado, nella tragedia dell’8 settembre e di come fosse stato testimone d’eccezione di fatti emblematici del periodo tormentato che va dal 1943 al 1945 in cui l’Italia subì l’occupazione nazista. Mi narrò come avesse partecipato sin dall’inizio alla seconda Guerra Mondiale sulle navi della Regia Marina, dopo aver superato il corso di specializzazione nel 1940 alle scuole CEMM di Pola, le stesse che due anni dopo avrebbero visto tra i banchi, mio padre, appena diciottenne, partito volontario dall’Irpinia. Nicola Chiusano, nel 1941 fu imbarcato sulla torpediniera Procione, partecipando alle numerose missioni di scorta convoglio, in difesa delle navi mercantili che rifornivano gli eserciti italiano e tedesco, sia sul fronte africano sia quello greco. Missioni sempre più rese pericolose dall’insidia dei sommergibili inglesi di stanza a Malta, e dalla flotta inglese di stanza a Gibilterra e Alessandria cui si univa l’offesa aerea.

    La lotta divenne impari per la Regia Marina quando si ritrovò a rifornire le truppe  dell’ASSE in Tunisia dopo lo sbarco degli americani in Nord–Africa. L’ultima missione del Procione fu quella del 1 dicembre 1942, scortando il con- voglio H da Palermo a Tunisi, intercettato dalla forza Q della Marina inglese e che si terminò con l’affonda- mento di tutte le navi mercantili italiane e parte di quelle militari di scorta. In quell’occasione la nave di Chiusano, al comando del capitano di corvetta Torchiana, attuò tattiche da kamikaze lanciandosi da sola contro tre incrociatori inglesi e riportando gravissimi danni e alcuni morti e feriti a bordo. Chiusano rimasto illeso, a suo dire grazie alla devozione per il Santissimo Salvatore, sbarcato dal Procione, fermo per riparazioni, fu in seguito imbarcato nella primavera del 1943, sulla moderna torpediniera Ardito. Questa nave fu in seguito coinvolta in uno dei pochissimi episodi di resistenza vittoriosa ai nazisti da parte delle Forze Armate italiane: la battaglia navale nel porto di Bastia, in Corsica, del 9 settembre 1943.
    Nell’intervista da me fattagli, Nicola, lucidamente ricordava ogni particolare di quell’episodio e senza voler attribuirsi me- riti non suoi. L’8 settembre 1943, l’Ardito e la nave gemella, l’Aliseo, salpavano da La Spezia scortando la motonave armata Humanitas con equipaggio misto di marinai  italiani e tedeschi diretti per Bastia, in Corsica, giungendovi in serata. Dopo l’annuncio dell’armistizio, nonostante gli accordi presi con il comando tedesco di Bastia che permettevano ai tedeschi di lasciare l’isola senza azioni ostili da entrambe le parti, la mattina del 9 settembre i tedeschi, proditoriamente, cercarono di catturare o affondare tutte le navi italiane nel porto Corso.
    La scena più tragica fu quella del massacro dei marinai italiani dell’Umanitas colpiti proditoriamente dai tedeschi impossessatisi delle mitragliatrici di bordo. In seguito ad essere sottoposta a un duplice attacco fu la nave di Nicola Chiusano, attraccata a poca distanza dall’Umanitas, e assaltata anche da terra da truppe tedesche.
    Tra l’equipaggio dell’Ardito, più di un terzo furono i morti, ma Nicola Chiusano, a quanto pare protetto dalla sua fede per lo SS. Salvatore, fu graziato, poiché casualmente sceso a terra, per una corvèe, pochi minuti prima dell’assalto tedesco alla sua nave, cui assistì, riparandosi dietro alcune casse depositate sul molo, ma poi catturato dai tedeschi.
    A capovolgere le sorti di quella giornata fu la fortunata coincidenza che l’altra nave, la moderna torpediniera Aliseo, da poco dotata di un radar tedesco, era al comando di uno degli eroi della Marina Italiana, esaltato dal regime fascista per le sue imprese sommergibilistiche, il comandante Carlo Fecia di Cossato, che diede l’esempio di co- me la nostra Italia, potesse riguadagnare la dignità perduta, combattendo contro Hitler e Mussolini.
    Nel giro di poche ore l’Aliseo sotto la guida di Fecia di Cossato affondò ben sette navi tedesche che avevano cercato di prendere il largo, nonostante che fossero potentemente armate. Di quell’episodio Fecia di Cossato fu insignito della medaglia d’oro al valor militare.
    Dopo questo smacco clamoroso, i tedeschi di Bastia furono costretti a rilasciare i prigionieri, compreso il nostro montellese che, ritornato a bordo dell’Ardito, ripartì a equipaggio ridotto e fortemente danneggiata verso il Sud ma, purtroppo, rallentata dalle avarie, rimase indietro riparandosi a Portoferraio. Lì la guarnigione italiana inizialmente si oppose con le armi ai tedeschi ma dinanzi alle minacce di rappresaglia contro la popolazione civile, capitolò il 16 settembre 1943.
    In quell’occasione i tedeschi erano intenzionati a fucilare l’equipaggio per il solo fatto di essersi opposti con le armi alla cattura, poi decisero di deportarli in Germania, dopo aver ricondotto la nave a La Spezia. Nicola Chiusano, ricoverato in un ospedale militare ligure riuscì con uno stratagemma a fuggire, aiutato da una suora-infermiera, deciso di raggiungere a tutti i costi l’Irpinia. La sua fu una fuga densa di peripezie che lo portò alle spalle della linea Gustav, con i tedeschi arroccati a Montecassino.
    Fu in una piccola frazione di Formia, a Trivio che trovò accoglienza presso una famiglia contadina e lì Nicola potè essere ancora testimone di un altro miracolo: quello della solidarietà popolare, fraterna, che vide coinvolte tantissime famiglie italiane, di povera gente, che affrontarono la morte per rappresaglia, per mano nazista, solo per aver ospitato prigionieri in fuga, partigiani o semplici fuggitivi, come il nostro marinaio montellese.
    In quella piccola frazione, per ben due volte Nicola riuscì a sfuggire ai tedeschi: la prima volta rastrellato per caso e messo a lavorare forzosamente nelle fortificazioni costruite dall’organizzazione della logistica tedesca Todt, eluse la vigilanza e fuggì; la seconda volta riuscì a salvare la vita miracolosamente (…”- il Santissimo Salvatore mi ha aiutato a farmi trovare no pertuso, sotto una roccia, dove mi infilai… “) fuggendo sotto i proiettili di truppe tedesche probabilmente appartenenti alla 94ma Divisione di Fanteria, che in quell’occasione uccisero 7 civili innocenti, appartenenti a famiglie contadine della zona.
    Quella a cui scampò il nostro conterraneo irpino, è conosciuta come la strage di Costarella che vide Ii 26 novembre 1943 un reparto armato tedesco portarsi nell’abitato collinare formiano di Trivio per rastrellare uomini. Alcuni di essi, avvedutisi dell’operazione in corso, cercarono di sottrarvisi fuggendo verso l’alta collina, ma i tedeschi se ne accorsero, li inseguirono e li catturarono. Erano in otto e i loro nomi si ricordano ogni anno: Ersilio Filosa di 18 anni, Giovanni Filosa di 73 anni, Francesco Filosa e Antonio Guglielmo, di 38 anni, Salvatore Marciano di 37 anni, Alfredo Lagni di 35 anni, Angelo Nocella di 34 anni e Luigi Filosa di 30 anni. Furono catturati, radunati su uno spiazzo in montagna e, alla presenza dei parenti e di altri cittadini, vennero massacrati a colpi di mitra come “insegnamento” a chi avesse voluto imitarli.


    Solo dopo il maggio del 1944 i tedeschi, si ritirarono verso il Nord e finalmente il marinaio montellese Nicola Chiusano potè raggiungere con mezzi di fortuna il suo paese natale. L’abbraccio con i suoi fu di breve durata perché nel giro di pochi giorni bussarono alla sua porta i carabinieri intimandogli di presentarsi al più vicino co- mando della Regia Militare, pena l’arresto immediato e l’accusa di diserzione. Fortunatamente per lui, giuntovi gli fu data la possibilità di scegliere se raffermarsi o congedarsi. La risposta fu netta: “-basta con la guerra ed i suoi orrori!“-.
    Di quell’esperienza, raccontata mille volte ai suoi compaesani e ai suoi parenti, rimase l’affetto alla Marina Militare nella quale aveva servito con onore negli anni della sua gioventù e sino all’ultimo ne indossò la divisa nelle cerimonie ufficiali commemorative. 
    Archivio Benedetto Patrone

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