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    I miraculi do Bamminu

    di Carla Azzaro

    Grandi apprezzamenti per lo spettacolo scritto e diretto da Cinzia Caminiti andato in scena al POLO TATTILE di Catania

     

    I miraculi do Bamminu” performance  di cunti e canzoni popolari siciliane a firma di Cinzia Caminiti.
    Il Consigliere Nazionale dell’Uici (Unione Italiana ciechi) dott. Salmeri nel presentare  lo spettacolo lo aveva detto  che assistervi sarebbe stato un piacere  e noi ci siamo predisposti ad ascoltare e a vedere.
    E nasciu lu Bammineddu senza un filu di capiddu…  Un canto melodioso e antico e inizia il racconto.  Si perché anche un canto può raccontare. Questo è il teatro di narrazione. Canti e racconti due arti incisive e vere, utili alla conoscenza.
    Esso nasce negli anni ottanta (Dario Fo in Italia ne fu il gigante assoluto) ed è oggi, come allora, per fortuna, un’arte più  viva e piacevole  che mai.
    Esso  è un relativamente nuovo modo di appassionare  chi ascolta mantenendo sempre  desta  l’attenzione, come facevano un tempo “le affabulatrici” che tenevano “la scena” senza essere in scena, recitando come e meglio degli attori, senza indossare costumi e orpelli da attori, per raccontare storie senza rappresentarle.
    Questa tipo di spettacolarizzazione si  può definire un “territorio scenico” che ha in sé alcune   grandi possibilità: quella di creare un  rapporto autentico tra attore e spettatore,  quello di cancellare la distanza tra palcoscenico e platea e per riassumere  quello di avvicinare la gente al Teatro, alla Storia, al Mondo, alla Bellezza e al Sapere.

    Ma ritorniamo ai “miraculi do Bamminu”: Dda notti chi nasciu nostru Signuri…gia dall’inizio si capisce che siamo davanti ad un gruppo dalle riconosciute capacità artistiche.
    Tutto molto rigoroso ma caldo e accattivante. Le storie ti prendono e ti portano lontano nel tempo nella casa avita, nei cortili, nelle stalle dove ci si riuniva la sera, nelle strade davanti gli usci delle case… e tutto con garbo e gusto.
    Il gusto che a volte supera ogni belletto, ogni ricca scenografia, ogni importante apparato tecnico.
    Gusto e qualità la vincono sempre su tutto. E aggiungerei la semplicità (come mi suggerisce l’autrice). Ed è vero!
    Ecco, i punti di forza di questo incantevole lavoro di ricerca: gusto, qualità, semplicità  un trittico vincente per questo genere di messinscena, dove la parola, l’espressione del viso, i movimenti delle mani, i cambi di voce sono importanti e determinati e dove basta questo e delle canzoni di Natale dedicate a Gesù Bambino per restare affascinati.
    Il dialetto siciliano è musica e sa essere pura poesia se ben scritto e diventa canto se ben recitato. Ecco in questo  lavoro, tutto da ascoltare, abbiamo ritrovato la bellezza del “cunto popolare” visto come un’arte da valorizzare.
    Si tratta nello specifico di storie riguardanti i miracoli che Gesù Bambinu compie dalla nascita (subito dopo il suo primo vagito), durante la fuga verso l’Egitto per sfuggire ad Erode e per finire al ritorno a casa a  Nazzareth. “Nazzarettu”  in dialetto.
    Ricerca che questa volta, ci dice orgogliosamente, Cinzia Caminiti è stata condotta tra i suoi personali ricordi. “Sono i Racconti tramandati da nonne, zie, vicine di casa… e poi ripresi e riscritti di sana pianta”.
    E non sono solo i cunti che apprezziamo nella loro complessità ma i modi dire, certe cadenze, le descrizioni dei luoghi e dei personaggi: La Madonna delicata e fiera, San Giuseppe accondiscendente e generoso, l’asino (u sceccu) fedele compagno sempre presente e testimone attento di ogni peripezia, Gesù portentoso da subito, appena nato.
    Un presepio  raccontato nei minimi particolari così come  le campagne attraversate, l’arido deserto, i giorni di sole e quelli piovosi passati a viaggiare per raggiungere l’Egitto e poi l’amore umano e la dedizione di Maria e Giuseppe per questo loro unico figlio da salvare e da crescere.
    Certo veramente duro deve essere stato quel viaggio. “Lu viaggiu dulurusu” descritto con grande proprietà di linguaggio e tanta conoscenza di una lingua antica ormai persa che va in questo modo ritrovata e che chi assiste ritrova magicamente dentro di sé. “Un racconto laico” ci tiene a dire l’autrice in cui “l’umanita” dei personaggi li rende più terreni che divini, più vicini e uguali a noi e mi piace sottolineare certi anacronismi di tempo e di luoghi (il presepio con gli alberi di arance e insieme  le palme, per metà campagna   e per metà deserto, con le galline e i cammelli, pastori, villanelle e minareti arabi, un’accozzaglia di roba meravigliosa tutta insieme lì a consacrare un momento che si ripete miracolosamente ogni anno) anacronismi  che mi danno la certezza che  certi fatti non sono mai stati   guardati attentamente (ad esempio: il bambinello biodo con gli occhi azzurri, appena nato a Dicembre, nudo e sorridente che seduto sulla mangiatoia benedice il mondo circostante)…  Perché? Perché c’è in tutto questo solo il bisogno di credere in qualcosa di grande e misterioso, per questo il popolo da duemila anni  è vicino alla fede, ne ha bisogno per prendere  da essa conforto e consolazione”.
    Ma lassamu la campagna e pigghiamu a Maronna… cioè si cambia discorso e il racconto da  avvincente e avventuroso si fa soave e lieve. Così fa chi bene scrive e poi i canti eseguiti dal vivo che raccontano momenti di vita do Bamminu e di sua Madre: Maria lavava, Sant’Anna stinnìaTi tagghiai na cammisedda ti la vogghiu arriccamariDormi Gesu e fa la vòL’angileddi lu salutaru e cantannu si nni vularu… canti ora struggenti e dolcissimi  come le ninnarelle e le ninne nanne  ora allegri e dal ritmo quasi forsennato come le filastrocche e i giuochi fanciulleschi.
    Un testo nel complesso che si fa seguire senza alcuna difficoltà e ci permette di abbandonarci ai ricordi e al tempo che fu. Per un’ora è stato così e ce lo siamo goduto  tutto questo tempo.

    La compagnia è avvezza al genere: Cinzia Caminiti è  autrice, attrice e  affabulatrice straordinaria, nonché ricercatrice di materiale popolare dal 1986, anno in cui insieme ad alcuni colleghi diede vita a Schizzid’arte per occuparsi della riscoperta e la valorizzazione della Cultura Popolare SicilianaRoberto Fuzio è musicista esperto e competente in campo di musica tradizionale  già componente dei Lautari; a lui in questo lavoro, sono state affidate le musiche e i canti di scena  e la loro esecuzione dal vivo. Un piacere indescrivibile ascoltare.
    Qualche coro del pubblico si è sentito, così come il coinvolgimento ritmico nei canti più veloci.
    Nicoletta Nicotra è una giovane leva del canto, ha al suo attivo la partecipazione ad un gruppo di world music molto in voga in città: Jacarànda piccola orchestra giovanile diretta da Puccio Castrogiovanni, a lei oltre ai canti, eseguiti con voce duttile a volte calda, a volte cristallina, si devono i “rumori di scena”  preziosi accompagnamenti sonori al testo (l’acqua che scorre, gli uccelli che cinguettano, gli zoccoli do sciccareddu, il vento…)
    A Raniela Ragonese, matura attrice del teatro Stabile di Catania, sono ben affidati parte dei racconti.
    Ognuno nel suo ruolo ha dato il proprio autorevole contributo alla realizzazione di questo spettacolo. Uno spettacolo da riproporre e da valorizzare ancora e ancora.

    5 Gennaio 2023 un caldo pomeriggio. A Catania 18°.

    Al Polo Tattile Multimediale uno spettacolo per chiudere le festività natalizie.
    Se non fosse per “i miraculi do Bamminu” ci sembrerebbe di stare in Estate.
    La nostra terra è anche questo.

    5 gennaio 2023 Polo Tattile Multimediale – stamperia regionale Braille UICI – CT
    “Imiraculi do Bamminu” racconti e canti polari con Cinzia Caminiti – Roberto Fuzio – Nicoletta Nicotra – Raniela Ragonese.
    Testo e regia di Cinzia Caminiti.
    Musiche di scena eseguite da Roberto Fuzio.
    Canti di Nicoletta Nicotra.
    Produzione Associazione teatro della città – Schizzid’Arte teatro musica laboratori .

     

     

  • Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Racconti,  Recensioni,  Storia

    Vincenzo Di Nitto (Gaeta, 8.1.1921 – 19.11.1995)

    di Carlo Di Nitto

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    QUESTO ARTICOLO, IN MEMORIA DI MIO PADRE, E’ DEDICATO AGLI ABITANTI DI GAETA E DEI PAESI VICINI CHE DA SEMPRE HANNO SOSTENUTO LA VOCAZIONE DELLA NOSTRA FAMIGLIA MARINARA… 

    carlo-di-nitto-per-www-lavocedelmarinaio-comMio padre Vincenzo Di Nitto, capitano superiore di lungo corso, nacque da Andrea e da Ersilia Di Senno l’8 gennaio 1921 a Gaeta nel rione “Piaja”, abitato prevalentemente da pescatori e marinai.
    I genitori avrebbero desiderato vederlo medico o avvocato e, per questo, aveva iniziato gli studi classici presso il Liceo Ginnasio di Formia dove si recava ogni giorno in bicicletta. A causa però di un curioso (e per noi divertente, quando lo raccontava) incidente, dopo essere precipitato con la bicicletta nella buca piena di olio bruciato e grasso di un’officina, non intendeva più studiare. I nonni allora lo convinsero ad iscriversi all’Istituto Nautico di Gaeta. Gli studi marinari si rivelarono la sua passione e nel 1941 si diplomò nella sezione Capitani.
    Purtroppo era scoppiata la guerra ed i giovani erano chiamati alle armi. Fu ammesso a frequentare la Regia Accademia Navale presso il Centro di Brioni, in qualità di allievo ufficiale di Stato Maggiore di complemento nel 38° Corso per diplomati.

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    Dopo essere stato imbarcato per cinque mesi sulla Regia Nave “Cristoforo Colombo”, nominato Aspirante Guardiamarina, passò a frequentare il 25° Corso per Osservatori Aerei nella Scuola di Orbetello. Non ebbe però modo di effettuare azioni di guerra come Osservatore. Venne infatti subito trasferito sulla Regia Torpediniera “Ardimentoso”, al comando del CF Domenico Ravera. Di questo comandante mio padre conserverà negli anni a venire uno splendido ricordo come uomo, come ufficiale e come Marinaio.

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    Sull’ ”Ardimentoso”, il Guardiamarina Vincenzo Di Nitto fu decorato di Croce di Guerra al Valor Militare“sul campo”con la seguente motivazione:
    “Imbarcato su torpediniera partecipava a numerose, ardite missioni notturne presso costa nemica dando prova di coraggio, abnegazione ed elevato sentimento del dovere” (Coste Greco Albanese Iugoslave, 21.1.44 – 21.6.44).

    il-guardiamarina-vincenzo-di-nitto-su-nave-ardimentosoAl termine delle ostilità passò, come ufficiale in seconda, sui dragamine 314 e 313 (gli ex trawlers meccanici britannici “Ensay” e “Foula”) partecipando a tutte le operazioni di sminamento effettuate per la bonifica del tratto di mare fra l’Elba e La Spezia.
    Nel 1948 lasciò la Marina Militare e cominciò a navigare nella Mercantile, come ufficiale nella rinata flotta AGIP. Girò tutti i mari del mondo e quanto mi appassionavano i racconti delle sue avventure: la traversata dell’Atlantico durante un fortunale sul “Canopo” con la prua rifatta in cemento dopo una collisione, oppure il superamento, sempre durante un fortunale, del “corridoio” tra Maiorca e Minorca con lo “Zanibon” carico di benzina, di notte, senza radar e senza l’aiuto di punti e luci di riferimento!
    Erano tempi in cui gli imbarchi erano lunghissimi; ricordo con profonda nostalgia quando papà tornava a casa in licenza e la curiosità per i regali che mi portava dai paesi che toccava: non vedevo l’ora che aprisse la sua magica valigia. Quanta invidia, tra i miei coetanei, quando videro la piccola radio a transistor che mi aveva comprato a Singapore.
    Nel 1957 ebbe il primo comando, sulla petroliera “Ugo Fiorelli”. Quello stesso anno, al comando del “Pianeta”, partì per l’Indonesia dove rimase ininterrottamente per oltre dodici mesi ad effettuare navigazione “a vista” sul fiume Siak River a Sumatra. Erano i tempi della rivolta contro il presidente Sukarno. Noleggiato dall’AGIP alla società americana Caltex, il “Pianeta” trasportava greggio dalle zone interne di Sumatra fino ai serbatoi sulla costa. Effettuarono ben 422 viaggi attraversando ogni volta le zone sotto il controllo dei guerriglieri. E quando la rivolta fu sul punto di precipitare, gli riuscì di salvare 12 bambini e 18 donne statunitensi, che rischiavano di essere massacrati dai ribelli.
    Negli anni successivi assunse il comando di navi sempre più grandi conservando inalterata, a detta di chi lo ha conosciuto navigando con lui, una carica di umanità inconfondibile unitamente ad alte capacità professionali.

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    Nel 1972 venne decorato di Medaglia d’oro di Lunga Navigazione; nel 1976 decise di ritirarsi in pensione e qualche anno dopo incominciò a fare il nonno.
    Mentre giocava con le nipotine, diceva di non avere rimpianti ad aver lasciato il mare. Ma nei suoi occhi blu come i mari solcati in tanti anni di navigazione si coglieva un pizzico di nostalgia, forse per la gioventù ormai trascorsa o per l’avventura che aveva accompagnato ogni attimo della sua esistenza. E sorrideva con aria serena, quando parlava del suo passato di marinaio.
    Nel 1995 un infarto gli fermò il cuore per sempre, durante la notte. Andò via così come era vissuto: silenziosamente e con dignità. La sua perdita ci lasciò storditi ed attoniti, con un grande vuoto nell’anima che non riusciremo mai a colmare.
    E da allora mi piace pensare che sia partito, ancora una volta, per uno dei suoi lunghi viaggi.
    Oggi pagherei chissà quanto per riparlargli almeno per un minuto. Quante cose avrei da dirgli, e quante cose ancora da chiedergli! Qualunque cosa io faccia, non potrò ringraziarlo mai abbastanza per tutto ciò che ci ha dato in valori ed insegnamenti.
    Ma sono convinto che un giorno lo rincontrerò ed allora sarò fiero di imbarcarmi con lui, agli ordini del Grande ed Eterno Comandante, per navigare insieme nei mari sconfinati e tranquilli dell’Eternità.

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    Aldo Goi (Milano, 15.11.1903 – 8.1.1980)

    di Antonello Goi

    (Milano, 15.11.1903 – 8.1.1980)

    … riceviamo e, con orgoglio e commozione, pubblichiamo questo  ritratto e racconto di amore per la famiglia e per la vita.

    Grazie dell’invito, approfitto del suo blog per inviare una breve biografia di mio padre Aldo (pagina 29 della rivista Ritrovarsi del dicembre 2012) e alcune foto quasi centenarie.
    Inoltre le invio un mio racconto, un poco romanzato di un fatto vero che coinvolse due giovani sommergibilisti la cui amicizia durò tutta la vita, mio padre e un suo commilitone. Intanto ringrazio per il bellissimo interessamento.
    Antonello

    Arsenale Venezia 1921, papà era classe 1903. Ho alcune foto del sommergibile tra cui una del F17 e F14 (poi affondato 6 agosto 1928) con il (credo capitano) Fontanive (indicato dalla freccia) che qui di seguito posto (papa è il marinaio accucciato).

    La penna stilografica –  Storia di sommergibilisti
    di Antonello Goi

    Faceva freddo, un freddo così intenso che intorpidiva l’aria che si respirava e sembrava che stormisse quando si diffondeva nei polmoni, ma, almeno, aveva smesso di piovere e il cielo, appena colorato con un grigio pallido e velato sembrava schiarirsi ed a tratti lasciava scorgere trasparenze sfumate d’azzurro e attraversate da deboli fasce di luce. Le bancarelle del mercatino dell’usato, al riparo di ombrelloni di varie fogge, quadrate, rotonde, erano poche e si separavano con ampi spazi tra loro. L’asfalto era ancora bagnato equa e là qualche pozzanghera costringeva i passanti a brusche deviazioni.
    Edmondo De Fortis non aveva rinunciato ad andarci, lo faceva tutte le domeniche, da quando era stato messo in pensione.
    Aveva insegnato greco e latino per quasi quaranta anni, sempre nello stesso liceo classico dove si era diplomato. Quando aveva lasciato la scuola gli avevano donato una pergamena dove erano riusciti a recuperare molte firme dei suoi ex alunni, e alcuni erano figli di questi. E gli avevano regalato una scatola, un raro elemento di antiquariato art nouveau in palissandro, finemente intarsiata in ottone, decorata sul fronte con due uccelli del paradiso che si intersecano con un albero stilizzato, realizzata in Francia nella prima decade del 1900, e riempita con delle vecchie cartoline ritrovate dai suoi studenti e dai suoi colleghi.
    Fin da ragazzo Edmondo aveva il singolare capriccio di collezionare vecchie cartoline, così quel mercatino dell’usato era una fonte preziosa per arricchire la sua collezione. Tutto sommato il suo giro tra le bancarelle era molto veloce, bastava osservare i banchetti e con una rapida occhiata vedere se c’erano cartoline. Edmondo aveva un insolita sensibilità per riconoscerle anche da lontano.
    – Eccola là, quella è proprio quella che cercavo!
    Un signore giovane, con un paio di occhiali da sole a specchio e con al guinzaglio un barboncino bianco che sembrava una pecorella, lo guardò con aria interrogativa, poi, dopo qualche istante gli chiese
    – Dice a me?
    – No, no, scusi, stavo cercando una bancarella con delle vecchie cartoline, e mi sembrava di averne vista una …
    – Ah si! Quella la laggiù, vicino all’edicola, ci sono appena passato davanti, ne ha due grandi scatole piene!
    – Anche lei colleziona cartoline?
    – No, francobolli, ma mi spiace staccarli dalle cartoline, è come strappare un pezzo di vita!
    – È vero! Io, poi, colleziono solo quelle viaggiate!
    – Viaggiate?
    – Si, quelle spedite …
    – Ah! Come i francobolli timbrati!
    – Appunto! Buona giornata.
    De Fortis si toccò con la punta delle dita la tesa del cappello, accennò un breve inchino e si diresse alla bancarella. Era un piccolo banchetto, forse un tempo un tavolo da trattoria, coperto da una vecchia tovaglia gialla con vistosi rammendi. Sopra tre scatole di scarpe piene di cartoline, fotografie e figurine Liebig. A parte, una grande cartella di cartoncino verde scuro aperta e con sopra delle stampe con scene di caccia di diverse dimensioni.

    – Buon giorno professore!
    Dietro il piccolo banchetto c’era il venditore delle cartoline, seduto su uno sgabello di legno come quello che una volta usavano i lustrascarpe, un uomo piccolo con in testa uno cappello di velluto rosso e un sigaro spento che gli penzolava dalla bocca come un fiore avvizzito.
    – Buon giorno Efisio! hai talcosa di nuovo?
    – Forse, quella scatola proprio davanti a lei, era di un vecchio frate. Sul coperchio della scatola c’era scritto in grande, e lo può vedere anche lei: da regalare. Il nipote del frate è mio cognato, me l’ha portata. Ci sono anche delle vecchie fotografie. Ma io però le cartoline le vendo, non le regalo …
    – Beh! Vediamo cosa trovo …
    Edmondo prese un piccolo mazzetto di cartoline e incominciò a passarle in rassegna velocemente, scartava quelle con qualche piccolo difetto, qualche piega o macchia, si soffermava sulle date, sui messaggi, sugli indirizzi. Poi, ecco un bell’esemplare! Si disse. Una veduta dell’arsenale di Venezia del 1921. Le vecchie torri, una gru a ponte e in primo piano un sommergibile, sulla torretta l’insegna della classe F.

    Mentre la osservava sul suo volto si era disegnato un ampio sorriso di soddisfazione. Poi la girò e lesse l’indirizzo di una via di Milano, era destinata a “Coniugi Lodetti” e il messaggio: Cari genitori per Natale vengo con il mio amico Nello. Dormirà nella mia stanza. Vostro figlio Alberto.
    – Intanto prendo questa, disse rivolgendosi al venditore.
    Mise da parte la cartolina, infilò la mano nella scatola per prendere alcune vecchie fotografie stampate in colore seppia. Erano state tutte scattate al sommergibile illustrato nella cartolina e raffiguravano l’equipaggio. Alcune erano foto di gruppo, altre erano ritratti di marinai, raffiguravano vari momenti della vita a bordo.
    – Le prendo tutte! E il tono della voce era sostenuto da una nota di improvvisa emozione.
    – Vedo che le interessa e anche molto! Facciamo così, prenda tutta la scatola e … e gliela regalo!
    – Come sarebbe a dire: la regalo?
    – Era la volontà del suo proprietario, ora che rifletto … non mi va di contravvenire alle sue ultime volontà.
    Edoardo rimase per un attimo a guardare la scatola e poi Efisio.
    Tutti e due erano in silenzio, e si poteva vedere sul volto di Edmondo un’espressione di malcelato turbamento.
    – Facciamo così Efisio, tu mi regali la scatola e io ti regalo dieci euro per farti un bel cappuccino e una brioche! Con questo freddo hai bisogno di qualcosa per riscaldarti.
    Si strinsero forte la mano e quella sensazione di turbamento parve scorrere dalla mano di Edmondo fin dentro il cuore di Efisio.

    Nello si era arruolato volontario in marina a diciotto anni, nel 1921 nella regia squadra sommergibili. Era rimasto orfano di entrambe i genitori, e quella era una possibilità per avere una, sia pure minima, fonte di sostegno. L’incarico che gli avevano affidato, dopo il corso di istruzione, era quello di sottocapo elettricista. Aveva deciso di continuare a studiare. Era arrivato in Marina con la sola licenza ginnasiale e da autodidatta si preparava per acquisire il diploma.
    L’equipaggio del battello era composto da due ufficiali, ventiquattro tra sottufficiali e marinai, tra questi Alberto Lodetti.
    Alberto si era arruolato perché non aveva voglia di continuare gli studi e la vita da sommergibilista, oltre ad appagare lo spirito di avventura, era una buona scusa per non andare più a scuola. Veniva da Como ed era figlio unico di un ricco commerciante di tessuti.
    Tra Nello e Alberto nacque da subito una amicizia quasi fraterna. E sarebbero stati imbarcati insieme per quattro anni.
    La vita nel sommergibile trascorreva abbastanza tranquilla, Nello cercava di nascondere la difficoltà economica che lo costringeva a rinunciare alle libere uscite a Venezia. Tra libri di scuola e ripetizioni private la paga da marinaio veniva del tutto dissipata.
    Ma Alberto aveva trovato modo di invitare in libera uscita il suo amico senza destare sospetti.
    – Dai Nello! E dai! Vieni a fare quattro passi fuori da questa scatola di sardine. Andiamo a cercare qualche bella ragazza!
    Poi, dopo una lunga passeggiata in piazza San Marco lo portava in una trattoria e gli diceva:
    – Beh? io ho fame, mi fai compagnia? I miei genitori mi hanno mandato qualche liretta, che vuoi che me ne faccia? Non fumo, non bevo, almeno fammi mangiare con il mio solo amico!
    – Ma … paghi sempre tu!
    – Sempre? No, questa volta, poi verrà il giorno che sarai tu a pagare, ma non farti fretta, siamo ancora giovani.
    E avvenne che nel corso di una di quelle passeggiate Alberto conobbe Elvira, una cassiera del teatro La Fenice.


    Quando il sommergibile andava in missione in qualche altro porto, Nello scriveva per conto di Alberto delle delicate lettere ricolme di affetto a Elvira e così il loro amore andava sempre più consolidandosi. Per scrivere quelle lettere Alberto aveva comperato una penna stilografica. L’aveva mostrata a Nello e gli aveva detto:
    – Questa penna ci costa più di cinque pranzi in trattoria! – Ci costa?
    – Nel senso che … e dai! Siamo amici o no?
    Alberto e Nello si abbracciarono.
    – Fammi vedere questo prodigio della scienza e della meccanica.
    Alberto gli porse la penna, era una Sheaffer, dotata di sistema a levetta laterale che provocava la compressione di un gommino al suo interno per consentire la carica dell’inchiostro in un piccolo serbatoio.- Però, quasi quasi mi ricorda il lanciasiluri di prua …
    – Dai Nello! Smetti di fare il sommergibilista … dobbiamo scrivere ad Elvira …
    – Dobbiamo?
    – Nel senso, questa volta, che tu pensi, scrivi e dopo io esco con la mia ragazza!
    – Ah! Io semino e tu raccogli i frutti?
    – Beh, tu sei un sommergibilista io sono un … innamorato, c’è una bella differenza!
    – Di bella c’è solo Elvira e la penna, una bella coppia!
    La stilografica provava piacere a stare nelle mani di Nello, le piacevano quelle parole che scriveva e scorreva volentieri con il pennino sulla carta, cercando di non sbavare e di non far uscire qualche macchiolina del suo inchiostro. Quando Nello le rimetteva il cappuccio e il buio la circondava, si metteva in attesa e cercava di ricordare le parole che aveva appena vergato.

    Gli anni della ferma passarono, Nello si era diplomato con il massimo dei voti, Alberto si era fidanzato con Elvira e aveva deciso di restare a Venezia e sposarsi.
    Quando giunse il momento di salutarsi, Alberto porse la stilografica a Nello e gli disse:
    – Tienila tu, tu sai scrivere, io che ne farei? Poi con Elvira ci siamo fidanzati, e tu non dovrai più a scrivere per me.
    – Ma è una penna … preziosa …
    – Tu sei il mio solo amico, senza di te questi anni non sarebbero passati mai! Tienila, è il pegno della nostra amicizia, anche se dovessimo perderci di vista, la penna sarà come una promessa a ritrovarci.
    Nello era ritornato a Milano, aveva trovato un impiego come progettista di impianti elettrici. Aveva una buona competenza tecnica acquisita durante la ferma in marina e in breve tempo aveva fatto carriera. Aveva acquisto anche una buona indipendenza economica e aveva iniziato a frequentare studi artistici di pittori per imparare a dipingere. Non aveva avuto più notizie di Alberto e di Elvira.
    Era tornato a Venezia per cercarli, ma a casa di Elvira non abitava più nessuno e i vicini non avevano saputo dire dove fossero andati. Anche i genitori di Alberto si erano trasferiti senza lasciare detto dove. Il tempo trascorreva e i ricordi del tempo della marina si erano piano piano sbiaditi e quasi scomparsi, tranne il nastrino del berretto da marinaio che Nello portava sempre con sé nel portafoglio e la penna stilografica.
    La Sheaffer non aveva più scritto frasi d’amore, ma relazioni tecniche, parole fredde, scarne, brulle come un campo arido, che scorrevano veloci, ma prive di emozioni. E la penna scriveva perché era il suo lavoro, ma quel compito non le piaceva. Ogni tanto il pennino grippava sul foglio, quasi a non voler proseguire, oppure sbavava qualche goccia di inchiostro come se fosse una piccola goccia di sangue che proveniva da quel suo cuore di gomma che era il suo serbatoio. E quando Nello richiudeva il tappo avviandolo sullo stelo, la penna si addormentava e sognava di scrivere poesie.

    E arrivò la guerra.
    Nello aveva aderito al movimento clandestino dei partigiani e, nonostante fosse sposato da poco, aveva dovuto allontanarsi da casa e vivere nascosto per non essere catturato. Spesso doveva cambiare, insieme ad altri partigiani, i vari rifugi. E, quando possibile, scriveva delle lettere a sua moglie. E per scriverle utilizzava la stilografica che Alberto gli aveva regalato. E la stilografica era lieta di trascrivere i pensieri di Nello e quasi si compiaceva di condividere con lui quella insolita vita da clandestino. E ancora, Nello scriveva lettere anche per gli altri compagni di lotta e la stilografica si sentiva orgogliosa di partecipare a quella banda di ribelli e di aiutarli a comunicare con i loro cari.
    Nello scriveva anche dispacci con informazioni militari che le staffette si incaricavano poi di recapitare ai vari comandi partigiani e alla Sheaffer pareva che le parole che il suo pennino scriveva fossero come pallottole sparate in battaglia contro il nemico.
    Poi la guerra finì, Nello poté riprendere il suo lavoro, tornare a casa e pensare ad avere dei figli. Ne nacquero due: Edmondo e Laura. Il tempo riprese a trascorrere, i figli crescevano, Edmondo sarebbe diventato un professore di greco e latino, Laura un architetto, mentre i capelli di Nello diventarono grigi e poi bianchi. La stilografica aveva dovuto cambiare abitudini: non più lettere d’amore, messaggi intimi e informazioni segrete, ma solo firme e auguri di buon Natale e buona Pasqua. Poca fatica, ma belle parole per bei momenti.
    Alberto, dopo il congedo dalla marina militare, era rimasto a Venezia, aveva trovato un impiego come commesso usciere al comune. Aveva preso in affitto una stanza in un pensionato per soli uomini. Quando mi sposerò – si diceva – allora avrò una casa vera, una casa mia.
    Poco dopo il fidanzamento era stato lasciato da Elvira senza saperne il motivo. Mentre stava preparando il matrimonio, Elvira e la sua famiglia erano partiti all’improvviso senza lasciare detto dove e senza lasciare nessun messaggio. Preso dallo sconforto, Alberto aveva pensato in un primo momento di suicidarsi. Passava le giornate a bere e a smaltire le sbornie fuori dalle taverne e dalle osterie.
    Una notte, densa come un mantello di velluto scuro, passando davanti ad una cartoleria vide, esposta nella vetrina, una penna stilografica, una Sheaffer, come quella che aveva comprato e regalato al suo amico Nello. E gli tornò alla mente quando era imbarcato, a come era felice in quel periodo. E ancora ripensò alle lettere scritte con quella penna a Elvira, a quell’amore nato all’improvviso e all’improvviso finito.
    Si mise a correre finché il fiato non gli mancò. Si fermò sul bordo del canale. Guardava l’acqua scorrere sotto di lui, scura, densa e invitante. Gli apparve il viso di Elvira, teso, lo sguardo trasparente come una ampolla e cereo come un cadavere. Chiuse gli occhi deciso a buttarsi nel canale, ma una voce lo scosse come se una mano enorme lo avesse afferrato e scrollato con prepotenza.
    – Alberto! Che fai?
    Apri gli occhi e vide il volto di Nello palpitare sul pelo dell’acqua appena increspata da un leggerotremolio, e avverti come una vibrazione sospesa tra i loro sguardi. La voce continuò e questa volta sembrava bloccarlo come inchiodato al pavimento
    – Signore? Sta bene?
    Alberto si girò per vedere chi lo avesse chiamato, poi tornò a guardare in basso, dentro il canale. Il volto di Nello non c’era più.
    – Signore? Sta bene?
    Alberto si era irrigidito, non vedeva, non sentiva, aveva la sensazione di non esistere, di non sapere più chi fosse, di essere immerso in una densa caligine.
    – Signore? Sta bene? Questa volta sentì la stretta di una mano sulla sua spalla che lo scuoteva e all’improvviso si ritrovò sulla sponda del canale. Davanti a lui un frate intabarrato in una saio così grande che lo faceva apparire come un tappeto ondeggiante.
    – Allora?
    – Si, si, sto bene, solo che … forse ho bevuto troppo … poi ho corso, mi manca il fiato.
    – Dai, si segga, qua – e indicò il gradino di accesso ad un portone dietro di loro.
    Alberto ubbidì come se a dirgli di sedersi fosse stato un ufficiale quando era imbarcato sul sommergibile. Accanto a lui si sedette anche il frate che prese dal tascapane che aveva a tracolla un pacchetto di sigarette Macedonia e ne offrì ad Alberto.
    – Su, fuma che ti ritorna il fiato!
    Alberto sorrise spontaneamente, prese una sigaretta e la mise in bocca e la accese con la fiamma dello zolfanello acceso dal frate. Aspirò una larga boccata di fumo e mentre lo rilasciava lentamente con la bocca, dagli occhi scendevano le lacrime come piccole gocce perlacee di rugiada.
    Si sentiva solo il rumore dell’acqua che sciabordava sulla sponda del canale.
    Poi alle lacrime si aggiunse un affannoso singhiozzare. Alberto aveva gettato la sigaretta lontano e aveva nascosto il volto tra le mani.
    – Che succede? Raccontami …
    – Che vuoi che dica? Sono disperato …
    – Io mi chiamo Marcello, ma tutti mi chiamano Fra Lello, tu come ti chiami?
    – Come hai detto che ti chiami?
    – Lello! perché?
    – Avevo capito Nello, avevo un amico che i chiamava Nello e prima mi pareva che mi avesse chiamato. – Qui ci sono solo io, non c’è nessuno, neanche prima.
    – Io sono Alberto.
    – Dai, prendi, ma questa volta fumala tutta!
    Lello porse il pacchetto delle Macedonia ad Alberto.

    Alberto aveva iniziato a raccontare la sua storia, di come si era imbarcato sui sommergibili, di Nello, di Elvira, della stilografica, e della disperazione che gli riempiva il cervello e il cuore per essere stato lasciato.L’alba era come sorta dal fondo del mare della laguna e la luce del sole aveva rischiarato il canale che ora appariva meno scuro, meno tetro. Sul pelo dell’acqua fluttuava, incastrata tra i gradini di una scaletta e la sponda, la pagina di un giornale con una foto di una donna.
    – Ecco quello che ho visto! La pagina di un giornale e … Elvira era quella donna e Nello che mi parlava eri tu! Eri Lello e …
    – Ora basta! Dai! Vieni con me, passeggiamo, devi smaltire tutto quello che hai bevuto.
    Lello e Alberto camminarono fino a San Marco. Entrarono nella basilica. Alberto si inginocchiò e rimase col viso nascosto dalle mani giunte. Ogni tanto un singulto, a stento trattenuto, lo scuoteva, le lacrime cadevano lente, sdrucciolando e insinuandosi tra peli della barba trascurata che spuntava sulle guance, sul mento, sul collo che metteva in risalto, nel volto smunto e scavato, tutta la sua disperazione.
    Passò il tempo, e quanto fosse trascorso non fu possibile percepire né da Lello né da Alberto.
    Quando uscirono dalla basilica il sole splendeva alto, brillante e l’aria intorno appariva tersa,straordinariamente trasparente e un leggero olezzo di viole si poteva odorare, sospeso nell’aria e sembrava seguirli passo dopo passo.
    Si sedettero su una panchina.
    Una colomba prese a volteggiare sopra di loro, poi quasi in picchiata, si posò sulla spalla di Lello. Il frate la prese, le accarezzò il piccolo capo e poi, lentamente, la proiettò verso l’alto. La colomba riprese a volteggiare sopra di loro, sembrava non volesse andarsene, rimase così a mulinare quando improvvisamente discese lentamente, come una piuma sorretta nell’aria ferma, sul grembo di Alberto.
    – La pace sia conte! Questo è un segno del Signore!
    Alberto prese delicatamente nelle mani la colomba che iniziò a tubare con una sonorità delicatamente dolce, un suono soave che pareva un sussurro, un respiro sottile come il vibrare delle ali di una farfalla.
    – Un segno del Signore dici? Proprio per me che volevo farla finita?
    – Non mettere confini alla provvidenza! Non può essere il caso che io passassi proprio in quel … quel momento, era il Signore che ha voluto che fossi io a fermarti!
    – Ed ora? E adesso che faccio?
    – Vieni con me!
    – Dove?
    – Nel Congo, in Africa. Ad aiutare a costruire un lebbrosario. Laggiù vedrai la vera sofferenza.
    La colomba smise di tubare, mentre una nube transitando davanti al sole aveva creato una sorta di crepuscolo che sembrava avere dipinto di grigio chiaro e scuro tutto ciò che li circondava.
    Alberto aveva lo sguardo perso sull’orizzonte della laguna. Sembrava trasognato mentre accarezzava delicatamente la colomba che nel frattempo era risalita sul petto fermandosi all’altezza del cuore.
    – Davvero? Davvero potrei essere utile? Non so fare nulla …
    – Questo lo dici tu! Vedrai quanto sarai capace di fare e ancora non lo sai! Mettiti alla prova e vedrai!
    – Allora … allora dai! Andiamo, partiamo!

    La nuvola che prima velava il sole si era dissolta e la luce aveva ripreso a brillare colorando con contrasti multicolori tutto ciò che li circondava e all’improvviso la colomba si staccò da Alberto e volò via,veloce come una freccia verso il sole fino a che la luce abbagliante la inghiottì facendola sparire.
    – Vedi? La colomba è volata ad est, la direzione che dobbiamo prendere! Vedi? È un segno del Signore! Lello e Alberto si abbracciarono, avevano gli occhi pieni di lacrime.
    Alberto rimase nel Congo per cinquanta anni e ne aveva settantacinque quando per motivi di salute dovette ritornare in Italia. Aveva contratto una polmonite virale che gli aveva lasciato gravi postumi. Dapprima trovò ospitalità in un pensionato gestito da religiosi a Roma, poi venne a Milano per curare, presso un ospedale specializzato, le complicazioni cardiache insorte. Non aveva denaro salvo quel poco che gli veniva mandato, di tanto in tanto, dal Congo, frutto delle elemosine raccolte in chiesa. Non ne sentiva il bisogno, ma si poteva vedere i segni della povertà nel modo di vestire, inoltre la salute cagionevole gli conferiva un aspetto miserando.
    Aveva trovato alloggio presso una comunità di frati che gli avevano messo a disposizione una piccola stanza, quasi una cella se non fosse stato per un letto con il materasso e un tavolino con una lampada. Fu proprio su quel tavolino che sfogliando una rivista vide la pubblicità di una penna stilografica e di colpo le tornò alla mente la Sheaffer, Elvira e Nello.
    – Chissà, forse è ancora vivo, magari ancora qui a Milano! Come mai non mi sono ricordato prima e lui si ricorderà di me?
    Aveva parlato da solo ed alta voce, era la prima volta che gli capitava. Si ricordava che al Bar, dove qualche volta andava a bere un bicchiere di latte, c’era un telefono gettoni e un elenco telefonico. Fu così che scopri l’indirizzo di Nello.
    Quella notte non riuscì a dormire, si domandava se andare o no a trovare il suo vecchio amico, alternava una decisione ad andare ad una netta rinuncia. Si era fatto spiegare quali mezzi prendere: non era difficile, bastava solo un tram che transitava proprio davanti a dove abitava.
    Il mattino acquistò due biglietti, attese il tram e salì.
    – Dove crede di andare?
    La portiera aveva visto un uomo mal vestito e macilento entrare dal portone.
    – Dice a me?
    – E a chi? C’è solo lei!
    Alberto percepì quello sguardo indagatore sostenuto da una nota di indifferenza mista a commiserazione. Non se ne rammaricò, comprese che tutto sommato il suo aspetto non lo favoriva di certo. – Vado da Nello De Fortis , sono un amico.
    – Il signor?
    -De Fortis, abbiamo fatto la marina insieme, ma è passato tanto tempo …
    – La voce di Alberto era dolce, calma quasi suadente.
    – Terzo piano.
    Entrato nell’ascensore, Alberto allungò il dito per premere il pulsante del piano e si accorse che la mano gli tremava.
    Era fermo davanti alla porta e lo sguardo si era fissato sulla targhetta con scritto Nello De Fortis. Ed gli parve di vedere l’immagine sfuocata del volto dell’amico che gli sorrideva. Premette per un istante il campanello e ne sentì il suono. Ritirò la mano spaventato, avrebbe voluto non essere in quel posto, avrebbe voluto andarsene, ma era come se fosse paralizzato.
    La porta si apri. Erano di fronte uno all’altro.
    Lo stupore si era materializzato sui loro volti, avevano la bocca quasi spalancata, poi contemporaneamente un sorriso si spiegò sulle loro bocche. Si trovarono abbracciati senza aver detto una parola.
    – Che succede?
    Anna, la moglie di Nello era davanti a loro.
    – Anna! sai chi è arrivato? Il mio amico Alberto! Eravamo in marina, sui sommergibili, più di cinquanta anni fa!
    Si sedettero nel salotto. Nello raccontò tutto quello che era successo dopo la loro separazione e Alberto fece altrettanto.
    – La penna! La Sheaffer! Ti ricordi? Avevo promesso che te l’avrei restituita! Ora posso mantenere la promessa. Vado a prenderla!
    – Ah! Lo ricordi? E gli occhi si riempirono di lacrime mentre aspettava il ritorno di Nello.
    – Eccola.
    Alberto prese la Sheaffer e svitò il cappuccio. La Penna senti l’aria ritornare sul suo pennino.
    – Oh! – Si disse- vuoi vedere che mi tocca scrivere ancora quelle fredde e ridicole relazioni?
    Poi sentì il calore della mano di Alberto e la riconobbe.
    Alberto la tenne delicatamente tra le dita, poi la ripose nel tasca della giacca.
    – Hai dei … problemi?
    Chiese Nello e nella sua voce si avvertiva un certo disagio e una dissimulata difficoltà nel formulare quella domanda.
    – No, No, sto bene così, si sono un poco malandato di salute, ma non mi lamento.
    – Lo sai, lo ricordi quanto mi hai aiutato quando ero senza un quattrino? Ora mi devi permettere di ricambiare …
    – No, no … noi siamo amici e questo basta. Ci siamo incontrati di nuovo e questa volta non lasceremo passare altri cinquanta anni!
    Alberto era seduto al tavolino della sua stanzetta. Davanti a lui una scatola di scarpe con delle vecchie cartoline e delle fotografie di quando era sui sommergibili. Piano piano le guardava ad una ad una, riconosceva i volti dei vecchi commilitoni. Collocò dentro la scatola la stilografica e ripose sopra il coperchio.
    Si stese sul letto, chiuse gli occhi e ripensò al suo passato: rivide la torretta del sommergibile, il volto diElvira, si rivide mentre voleva suicidarsi e l’incontro con frate Marcello e poi quella sera, quell’abbraccio con Nello.
    – Un bel momento per morire questo – pensava – non ho rimpianti, sono contento.
    Non riaprì più gli occhi. Il mattino un frate lo trovò. Il volto disteso e calmo come l’acqua di un piccolo lago. Prese la scatola dal tavolino e la portò nella sua cella.
    E il tempo continuò a trascorrere stendendo una coperta sul passato e proseguendo implacabile e silenzioso, scivolando come sabbia tra le dita.

    Edmondo aveva deposto la scatola di scarpe con le fotografie sul tavolo rotondo, in salotto. Era da alcuni minuti che la fissava, aveva uno strano timore nell’aprirla. Poi con un gesto deciso la prese, tolse il coperchio e rovesciò il contenuto sul tavolo. Le fotografie e le cartoline caddero sparpagliandosi intorno sovrapponendosi. Una cadde per terra. Edmondo la raccolse, la girò: sul retro una scritta con una calligrafia inconfondibile: al mio amico Alberto. La firma: Nello.
    Edmondo riconobbe, nella foto, suo padre. Poi si accorse della stilografica.
    Svitò il cappuccio e scrisse sul coperchio della scatola: Ita amare oportere, ut si aliquando esset osurus. E subito sotto: Bisogna volere bene come se un giorno si dovesse arrivare a odiare. Cicerone, De amicitia.
    La penna si accorse di avere scritto in latino e si rallegrò della bella citazione che aveva stilato.
    Chissà – si disse- vuoi vedere che il mio nuovo lavoro sarà scrivere per un intellettuale?


    Edmondo sospirò profondamente. guardò le foto e le cartoline sparse sul tavolo e poi mormorò:
    – Alberto Lodetti! Papà me ne aveva parlato, mi ricordo anche della penna, quando la volevo usare mi diceva sempre che era un pegno di amicizia e che non poteva darmela!
    Prese la penna e la osservò accuratamente, quasi stesse valutando una vecchia cartolina.
    – Bene vecchia mia, d’ora in poi starai con me, scriverai in latino e in greco, non sarà difficile, ti guiderò io.
    La Sheaffer ascoltò le parole di Edmondo, quel “vecchia mia” le piacque così tanto che sentì l’inchiostro premere nel suo piccolo serbatoio di gomma quasi a voler risalire per mettersi subito al lavoro.

  • C'era una volta un arsenale che costruiva navi,  Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Pittori di mare,  Recensioni,  Storia

    8.1.1799, affonda il vascello Partenope

    di Antonio Cimmino

    Zatterone con sistema verricello/argano usato nel Real Arsenale, sistemato a sinistra ed a dritta della linea di varo, per movimentare successivamente il bastimento dell’ormeggio alla banchina allestimento. La forza motrice era ottenuta da due ruote cave con gradini interni mosse dai galeotti del bagno penale, chiamati “scoiattoli rossi” oppure compagni. 

    Le due zattere erano elementi necessari nelle operazioni di varo fino all’introduzione del vapore.

    (Particolare del quadro di Philipp Hacket che rappresenta il varo del vascello Partenope avvenuto il 16 agosto 1786 nel Real Arsenale di Castellammare di Stabia).

  • Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Recensioni,  Storia

    8.1.1916, affondamento della regia nave Città di Palermo

    di Claudio Confessore, Antonio Cimmino

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    A seguito di segnalazioni, prontamente arrivate a questo blog tramite mail, si riporta di seguito l’articolo con lo stesso titolo ma modificato nei contenuti. Ringrazio gli autori per l’amore misericordioso che li contraddistingue quando si parla di Marinai deceduti.
    Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

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    La nave, appartenente alle Ferrovie dello Stato, requisita ed armata dalla Regia Marina, fu trasformata in Incrociatore Ausiliario. Il Città di Palermo (3414 tsl), al comando del Capitano di fregata Enrico Cuturi, affondò con la perdita di 93 uomini (fra italiani e britannici) al largo di Brindisi per urto contro una mina posata dal sommergibile posamine germanico UC 14 (Comandante, Sottotenente di Vascello C. Bauer).
    Il mattino dell’8 gennaio 1916, l’unità lasciò Brindisi con a bordo 546 tra membri dell’equipaggio e militari destinati a Durazzo e al fronte di Salonicco. Poco dopo aver lasciato il porto, intorno alle 8.30, a circa 6 miglia a nordest di Brindisi, la nave entrò in un campo minato posato il precedente 10 dicembre dal sommergibile tedesco UC 14 ed urtò una mina, affondando con grande rapidità.
    Numerosi drifters britannici ed italiani (pescherecci adibiti alla ricerca sommergibili con reti a strascico in acciaio) accorsero prontamente sul luogo, riuscendo a salvare la grande maggioranza degli uomini imbarcati.
    Purtroppo, due drifters britannici accorsi per i soccorsi il Morning Star ed il Freuchny affondarono per urto di mine. Su alcuni testi viene riportato che in tale occasione affondò anche il drifter Gavenwood ma non è corretto poiché tale imbarcazione affondò il successivo 20 febbraio (sempre sullo stesso campo minato messo in opera dal U-Boot UC 14).

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    Il contingente britannico che imbarcò sul Città di Palermo (diretto a Valona) era composto da 4 Ufficiali e 139 militari. Sono deceduti:

    • sul Città di Palermo 36 italiani e 57 britannici per un totale di 93 uomini;
    • sul Drifter Morning Star 9 britannici;
    • sul Drifter Freuchny 8 britannici.
    • 453 uomini poterono essere tratti in salvo dalle unità soccorritrici.

    Di seguito si riportano i nominativi dei Marinai deceduti:

    elenco-marinai-deceduti-su-regia-nave-citta-di-palermo-1-www-lavocedelmarinaio-commarinai-uk-deceduti-su-citta-di-palermo-1-www-lavocedelmarinaio-commarinai-uk-deceduti-su-citta-di-palermo-2-www-lavocedelmarinaio-comdrifters-www-lavocedelmarinaio-com

  • Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Recensioni,  Storia

    Alfonso Tommasino (Castellammare di Stabia, 4.7.1895 – 8.1.1986)

    di Antonio Cimmino

    banca-della-memoria-www-lavocedelmarinaio-com(Castellammare di Stabia, 4.7.1895 – 8.1.1986)

    Nasce a Castellammare di Stabia il 4 luglio 1895 fu uno dei superstiti della regia corazzata Regina Margherita. Ferito ad una spalla fu recuperato da una nave ospedale e ricoverato presso l’ospedale militare di Taranto (invalido di guerra).

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    La regia nave da battaglia Regina Margherita fu varata a La Spezia nel 1901 (gemella del Benedetto Brin varato a Castellammare di Stabia) ed entrò in servizio nel 1904. Durante la Grande Guerra l’11 dicembre 1916, uscendo dal porto di Valona in Albania, nei pressi dell’isola di Saseno, urtò due mine rilasciate dal sommergibile austriaco UC 1, affondando in poco tempo. In quell’occasione perirono 671 marinai su 797 uomini dell’equipaggio.
    Alfonso Tommasino è salpato per l’ultima missione l’8 gennaio 1986.