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    9-17.4.1941 il conflitto dimenticato, la Regia nei cieli della Jugoslavia

    di Orazio Ferrara (*)

    Quando, nella notte tra il 26 ed il 27 marzo 1941, un colpo di stato portò il Regno di Jugoslavia a un trasbordo di alleanze, cioè dal campo dell’Asse a quello degli inglesi e loro alleati, si creò una situazione di oggettivo pericolo per le forze italo-tedesche. Hitler capì subito i reali e gravi pericoli di quell’inatteso voltafaccia e pertanto diede ordine alla Wermacht di preparare un immediato attacco alla Jugoslavia, invitando Mussolini a fare altrettanto. E questa volta le forze armate italiane fecero bravamente la loro guerra di movimento e non sfigurarono affatto, travolsero e schiacciarono il nemico nella parte di loro competenza.
    La rapida e travolgente corsa degli italiani sul versante della costa adriatica jugoslava fu veramente un successo di prim’ordine nonché un’operazione militare da manuale. Così come l’aver fermato prima e frantumato poi l’offensiva jugoslava, che tendeva a prendere alle spalle le nostre unità impegnate sul difficile fronte greco. Nella sconfitta del più forte esercito europeo dell’Est in soli undici giorni di guerra l’apporto italiano fu certamente complementare, com’era nei piani, a quello tedesco, ma ad un tempo fu determinante e decisivo per la brevità e la vittoriosa conclusione di quella campagna di guerra, che vedeva alla fine le forze armate jugoslave di terra, di mare e di cielo totalmente distrutte e più di 345.000 prigionieri, oltre ad un immenso bottino di materiale bellico. Repentino e disastroso, al pari delle forze di terra e di mare, fu il destino dell’Aviazione Reale jugoslava, letteralmente spazzata via dalle forze aeree dell’Asse.

    Titolo: “La Regia nei cieli della Jugoslavia / 9-17 aprile 1941 il conflitto dimenticato”
    Autore: Orazio Ferrara 
    IBN Editore, Roma, 2017
    pagine: 144 (17x24cm.) – illustrato.

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    Il Palazzo del Governo di Taranto

    di Marino Miccoli (*)
    OMAGGIO ALLA CITTA’ DI TARANTO

    Buongiorno Ezio,
    sinceri e marinareschi saluti giungono a te e a tutti gli amici lettori del nostro giornale di bordo.
    Scorrendo le pagine dell’album dei ricordi della carriera in Marina di mio padre Antonio, ho trovato la foto di un imponente edificio che si affaccia sul mare, fotografato proprio da mio padre alla fine degli anni ’30 del secolo scorso. Chiedendo a mia madre di cosa si trattasse (perché, al seguito di mio padre, ella ha abitato in quella città per alcuni anni) mi ha detto che trattasi della Prefettura di Taranto.

    Allora questa bella fotografia, che con piacere ti invio, mi ha suggerito questo breve articolo avente per oggetto

    Il Palazzo del Governo di Taranto.
    Il Palazzo del Governo di Taranto è alto 52 metri ed ha sei piani in cui hanno sede diversi uffici della Pubblica Amministrazione. I suoi grandi saloni sono arredati con mobili in stile, elegantemente affrescati e riccamente decorati, tra questi il salone di rappresentanza ed il salone degli stemmi.
    Su progetto dell’architetto Armando Brasini, è stato edificato in quattro anni ed inaugurato il 7 settembre 1934 da Benito Mussolini. Per costruirlo all’epoca furono necessari 21 milioni di lire e il Palazzo si estende su di una superficie di 4.500 metri quadrati. Lo scopo dell’architetto progettista era quello di dotare Taranto di un edificio maestoso, funzionale e al contempo rappresentativo, che fosse durevole nel tempo, capace di sfidare i secoli.

    Per la sua costruzione fu adoperata una pietra locale, il “carparo”, di color marrone, che conferisce un tono caldo e gradevole a tutta la facciata. Quest’ultima è caratterizzata dalla presenza al centro di una grandiosa loggia avente ai lati due aquile romane di bronzo poste su piedistalli cilindrici.
    Ai lati del portone principale vi sono rilievi con figure nude armate, nonché due giganti trofei romani giganti con stemmi sormontati da Vittorie alate. Sempre ai lati del portone principale furono installati due fasci littori alti circa 20 metri, abbattuti nel dopoguerra.
    Sulle due torri laterali furono sistemate due grandi campane, destinate a suonare soltanto in determinate e importanti circostanze. I bastioni gli conferiscono un aspetto imponente e militare, la struttura nel suo complesso richiama l’architettura tipica dei castelli svevi.

    La grande rotonda antistante la facciata del palazzo, capace di ospitare migliaia di persone, consente di godere il panorama del mar Grande.


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    Quando Francesco Caracciolo e Giovanni Bausan umiliarono Horatio Nelson

    di Antonio Cimmino e Carlo Di Nitto

    Un mese prima dell’instaurazione della Repubblica napoletana, all’arrivo dei francesi in città il 21 dicembre 1798, il re Ferdinando IV con tutta la famiglia e i suoi ministri, scappò da Napoli a Palermo imbarcandosi sul Vanguard, vascello al comando di Orazio Nelson. Il monarca del Regno delle Due Sicilie preferì la nave inglese al Sannita, il vascello napoletano comandato dall’ammiraglio Francesco Caracciolo. La consistente flotta borbonica, su subdolo suggerimento inglese, fu fatta incendiare nel porto di Napoli e nell’arsenale di Castellammare di Stabia, per non farla cadere nelle mani dei francesi.

    La traversata fu caratterizzata da una violenta tempesta che si protrasse fino all’imbocco della rada di Palermo. Nelson non riusciva a governare la nave per entrare in porto. Caracciolo, invece, con perfetta padronanza della situazione attraccò con un’ardita manovra a Palermo. Egli mandò Giovanni Bausan di Gaeta, comandante della corvetta Aurora che si trovava in rada, in aiuto della nave inglese in difficoltà. Il Bausan con una piccola imbarcazione sfidando i marosi, si portò sul Vanguard e, assunto il comando, lo pilotò fino al molo. Il re, che aveva preferito il grande ammiraglio inglese, suggeritogli anche dal ministro John Acton, elogiò pubblicamente il suo ammiraglio davanti ad un Nelson furibondo. Caracciolo si congedò dalla Marina e tornò a Napoli ove fu convinto ad aderire alla Repubblica assumendo il comando della sua piccolissima flotta composta di qualche fregata e barche cannoniere. Anche Bausan seguì il suo ammiraglio nella sfortunata avventura repubblicana.


    La perizia marinaresca del Caracciolo che aveva umiliato il baldanzoso Nelson considerato il miglior ammiraglio del Mediterraneo, generò un odio profondo dell’inglese nei confronti del napoletano.
    Quando la Repubblica fu sconfitta nel mese di giugno del 1799, il Caracciolo fu processato per tradimento e condannato a morte. A presiedere la corte marziale fu proprio Nelson che non volle ascoltare la richiesta del Caracciolo di essere fucilato. Egli per oltraggiarlo lo fece impiccare al pennone dell’albero di trinchetto della corvetta Minerva, la nave che era stata comandata proprio dal Caracciolo. Al marinaio che, piangendo indugiava a mettergli il cappio intorno al collo Caracciolo lo esortò dicendogli “Sbrigati: è ben grazioso che, mentre io debbo morire, tu debbi piangere”.

    Dopo l’impiccagione il corpo, per ulteriore sfregio, venne gettato in mare. Solo dopo alcuni giorni il cadavere, gonfio d’acqua, riemerse sotto il vascello Foudroyant, la nave ammiraglia di Nelson ove era ospite Ferdinando IV, da poco arrivata dalla Sicilia. Alla spettrale scena assistette anche Emma Hamilton l’amante di Nelson e l’ambasciatore inglese William Hamilton.


    Dello stesso argomento sul blog
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2016/06/il-processo-allammiraglio-francesco-caracciolo/

    A proposito di Giovanni Bausan
    di Carlo Di Nitto

    Il gaetano Giovanni Bausan avrebbe poi avuto occasione, in altre e diverse circostanze, di umiliare i superbi inglesi con la sua perizia marinaresca. Di seguito il quadro, conservato nella Reggia di Caserta; raffigurante il re Gioacchino Murat che, sul ponte della fregata Cerere, si congratula con il Bausan e i suoi marinai, vittoriosi sui “figli di Albione, dopo la seconda battaglia del “Canale di Procida” del 26 giugno 1809. Il dipinto è opera del pittore Guillame – Desirè Descamps.

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    La nave G.I.S.

    di Francesco Venticinque

    La nave G.I.S. (Gruppo Intervento Subacqueo) era un’imbarcazione utilizzata nel dopoguerra per i recuperi navali bellici presenti nel fondale del porto di Messina. Il suo equipaggio era composto prevalentemente da personale civile con la qualifica di padrone marittimo, conduttore meccanico, marinaio attrezzista, sommozzatore e palombaro.
    All’inizio anni 1950 le operazioni di bonifica furono compiute e fu sciolto il gruppo denominato “Recuperi Navali” .

     


    La G.I.S. venne utilizzata, per trasporto vario, dalla banchina di Marinarsen Messina (antistante il Parco Pompieri) alla banchina civile (denominata Molo Colapesce) e viceversa, in particolare per il trasporto delle maestranze civili operanti a Marinarsen Messina o presso i Comandi di Marisicilia le quali optavano per questa possibilità di movimentazione anziché affrontare a piedi o in bicicletta i 3 km (zona Falcata) che dividevano il loro posto di lavoro con la città.


    Nella foto è visibile l’operazione di attracco al molo Colapesce e lo sbarco delle maestranze.

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    Ulderico Sacchetto (Roma, 13.10.1911 – Mare, 3.4.1941)

    a cura Antonio Pisanelli (*)

    (Roma, 13 ottobre 1911 – Mar Rosso, 3 aprile 1941)

    Nacque a Roma il 13 ottobre 1911. Mentre lavorava come meccanico in una officina, si arruolò volontario nella Regia Marina nel 1929 ed assegnato alla categoria siluristi, ed al termine del corso, sostenuto presso la Scuola C.R.E.M. di San Bartolomeo (La Spezia), si imbarcò su unità siluranti di superficie Nell’ottobre 1938, a sua domanda, venne posto in congedo con il grado di sottocapo. Richiamato in servizio nel settembre 1939, imbarcò sul cacciatorpediniere Daniele Manin , in forza alla 3ª Squadriglia di stanza nel Mar Rosso. Dopo l’entrata in guerra del Regno d’Italia, avvenuta il 10 giugno 1940, partecipò alle operazioni belliche nelle acque dell’A.O.I., in particolare nel bombardamento contro Porto Sudan.
    Il 3 aprile 1941, il Daniele Manin, insieme ad altre unità, partecipò al tentativo diretto su Porto Sudan e durante la navigazione sull’obiettivo, l’unità venne sottoposta ad incessanti attacchi aerei, che la danneggiarono gravemente, immobilizzandola e allora il comandante, Araldo Fadin, ne ordinò l’autoaffondamento per evitarne la cattura. Rimasto al suo posto fino all’ultimo, si offrì volontario per predisporre le cariche esplosive riconducendo a bordo il vicecomandante, tenente di vascello Armando Crisciani e il direttore di macchina Rodolfo Batagelj. Tutti e tre rimasero uccisi quando il cacciatorpediniere si capovolse ed affondò. Una via di Roma porta il suo nome.

    Onorificenze
    Medaglia d’oro al valor militare – nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d’oro al valor militare: «Imbarcato su Cacciatorpediniere dislocato in mari lontani dalla Patria, prendeva parte al tentativo di attacco a Base Navale avversaria, durante il quale l’unità veniva sottoposta ad incessanti attacchi aerei che la danneggiavano gravemente, fino a renderla inerme relitto in preda alle fiamme. Durante le disperate ore di lotta restava serenamente al proprio posto di combattimento ed abbandonava fra gli ultimi la Nave. Essendosi reso necessario provvedere affinché l’ordine di affondare l’unità avesse rapida esecuzione, si offriva volontariamente per ricondurre a bordo con un battellino il proprio Ufficiale in seconda ed il Direttore di Macchina e, salito con essi sul bastimento – malgrado intenso mitragliamento di aerei incrocianti a bassa quota – per affrettarne la fine, scompariva in mare con la Nave, nel generoso tentativo. Esempio di alte virtù militari e di elevatissimo sentimento del dovere. Mar Rosso, 3 aprile 1941». — Decreto del Presidente della Repubblica 11 aprile 1951.

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