Il mare nelle canzoni

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    25.9.2016, in ricordo di Carmelo “Melito” Scionti

    di Ezio “Ricciolino” Vinciguerra

    Nel percorso della nostra vita talvolta si è costretti a dover affrontare momenti che hanno la parvenza di essere tristi quando una persona a noi cara sembra allontanarsi.
    “Amico” è qualcosa di solito riservato a quelle persone a cui piace interagire con il prossimo, e chi ha avuto l’onore ed il piacere di conoscerci sa che per noi musicanti di periferia è stato un cardine di filosofia della vita come del resto per altre persone di buona volontà.
    La Musica, la parola e più in generale l’arte, quindi il dialogo interpersonale, sono la logica conseguenza di una “rispettabilità” da parte del cosiddetto “mondo civile”.

    Chi contribuisce nel Sociale, specie il nostro, sa di fare bene e fare stare bene, senza mai chiedere nulla in cambio.
    La voglia di ben figurare come membro della grande famiglia della società civile, si può e si deve perseguire specialmente durante il contatto diretto, e il buon esempio che si da si deve di riceverlo…con un applauso!
    Amico è questo, e questo sei stato tu per noi carissimo Melito…Batterista ragioniere!
    Anche se la tua vita non è stata lunga l’hai sicuramente vissuta intensamente e fuori dal comune, una vita straordinaria come la tua fine terrena, tra i sogni e i ricordi indelebili di serate concerti in ogni laddove, tracciati nelle piazze, lungo la strada, fra palco e realtà…
    Un abbraccio grande, profondo e trasparente, a te e ai tuoi e miei cari, come quel mare di Ognina che ci portiamo dentro e che nessuno mai potrà inquinarci.
Adesso che sei salpato per l’ultima missione, risposa in pace, nel grande mare di Nostro Signore e perdona i nostri peccati.

    P.s. Tu comincia a riscaldare lo strumento che noi “Calamu che casci!”.
    Messa di suffragio nel Santuario dei Santa Maria di Ognina proprio da dove, tanto tempo fa, iniziò la “Folle Idea”…

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    Padre Pio e Lucio Dalla

    di Piero Laporta (*)
    www.pierolaporta.it

    Estratto per gentile concessione dell’autore a www.lavocedelmarinaio.com.
    Per la stesura completa digitare:
    http://www.pierolaporta.it/lucio-dalla-e-padre-pio/#more-10010

    Lucio Dalla fu legato a padre Pio e al Gargano. Un legame limpido e duro, un diamante, di cui oggi rimane la luce.
    L’artista ha d’altronde peculiari complessità che, unite a quelle altrettanto sfaccettate del frate, ne fanno una gemma, le cui facce si sottraggono a un’osservazione complessiva, persino di quanti hanno condiviso pezzi importanti di vita con Lucio. Uno di questi è certamente Michele Bottalico, marittimo di Manfredonia.
    «Cumpe’, come steji? La famiglia sta bene? E i bambini?»
    Michele vorrebbe udire ancora queste semplici domande dalla voce del suo amico Lucio, pronunciate in perfetto dialetto di Mambredònje, Manfredonia. Lucio vernacolava come fosse nato nei vicoli del porto garganico e in una certa misura era proprio così.

    Lucio Dalla e PadrePio f.p.g.c. Piero Laporta a www.lavocedelmarinaio.com
    «Cumpe’, come steji? La famiglia sta bene? E i bambini?» le prime parole di Lucio ogni volta che telefona a Michele o quando s’incontrano dopo un po’ di tempo.
    Michele parla un po’ in italiano e molto in dialetto di Mambredònje, con accento forte e di tanto intanto italianizzato.
    Che cosa hai perso con Lucio? Ammutolisce mentre scorre la moviola di trent’anni di amicizia, lavoro, avventure, fratellanza.
    «Ho perso più che un fratello» Suo fratello Matteo annuisce, seduto accanto a lui, per niente offeso dalla posposizione, condivisa persino. E Michele racconta.
    Per mare con l’Olimpia, trasportando materiali per la residenza di Lucio alle Tremiti, Lucio cercava di chiamare i fratelli a Manfredonia ma il contatto falliva. Ne era lacerato perché la madre era ricoverata in gravi condizioni nell’ospedale di padre Pio, a san Giovanni Rotondo. Invocò Lucio alle Tremiti, con la radio di bordo: «Per favore fatti dire come sta.»
    Lucio attese Michele nel porticciolo di San Domino, a bordo del velocissimo motoscafo d’altura già in moto: «Dai, salta su, ti porto a Manfredonia in un attimo. Oppure faccio venire l’elicottero da Foggia e quando atterri trovi un’auto che ti porta a casa in venti minuti».
    Michele declinò l’una e l’altra offerta. La tristezza di Lucio gli aveva detto prima ancora che parlasse che la fretta era superflua. S’aggrappò al fatalismo dell’uomo di mare; però il ricordo di Lucio, lì ad aspettarlo, prodigo d’aiuto e consolatorio, lo commuove ancora.
    Siamo nel salotto di casa di Matteo, a poche decine di metri dal mare, lungo la riviera dell’«Acqua di Cristo», la sorgente fra gli scogli, dove Lucio dirigeva sovente la sua passeggiata preferita, dall’incrocio fra viale Miramare e via dell’Arcangelo, pochi passi dal Castello e dal chiosco di Tommasino, gelataio leggendario, accanto all’arena Impero, dove Lucio bambino gustava i film gratis dal balcone di casa.
    Se Michele sognasse Lucio nel chiedergli «Cumpe’, chiamami al telefono», egli non esiterebbe un istante, comporrebbe il numero e non si stupirebbe affatto d’udirne la voce: «Cumpe’, come steji? La famiglia sta bene? E i bambini?».
    «Lucio è speciale» Michele ne parla coniugando il tempo presente.
    «È una persona davvero speciale. Prima d’un concerto alle Tremiti, diluviava e il mare in tempesta impediva l’arrivo delle barche e degli spettatori dalla terraferma. Lucio che facciamo? Chiesi in ansia, dimenticando che altre volte, nella stessa situazione, aveva risolto allo stesso modo».
    In quale modo? Chiedo, ma Michele ha già cominciato a rispondere «Non preoccuparti» rispose Lucio «facciamo una preghiera a padre Pio, vedrai che ci aiuterà.»
    Lo aveva fatto altre volte. Lucio si raccolse in una breve e intensa preghiera. Pochi minuti dopo il cielo tornò azzurro, il sole splendeva di nuovo e il mare era calmo. Almeno tre volte Michele ha assistito a episodi analoghi. Succedeva e poi non ne parlavamo più. «Per Lucio fare così era semplice e naturale».
    Aveva 23 anni quando incontrò Lucio per la prima volta alle isole Tremiti, arrivandovi con la sua nave che trasportava il necessario per la vita nelle isole; era l’estate del 1982.
    Riconobbe Lucio sulla banchina del porticciolo di San Domino. Sapeva che vi dimorava.
    Michele non è timido e l’occasione fu ghiotta. Scambiarono qualche battuta e il cantante, com’era usuale, non si sottrasse.
    «Chiunque lo interpelli per strada per parlargli o per un autografo trova Lucio disponibile» Michele lo ripete più volte «Se gli rappresentano un problema di povertà o di malattia, allora lo fa suo concretamente» conclude.
    «Un giorno eravamo per strada insieme a De Gregori. Questo s’era camuffato sotto un giaccone col cappuccio e gli occhiali; fu ignorato dalla gente. Lucio invece lo riconobbero subito e lo circondarono. Non si sottraeva mai; battute, saluti, fotografie, si immergeva nella folla con la stessa beatitudine che gli dava il mare. L’altro stava in disparte, guardandolo un po’ sorpreso ma forse anche con una punta di invidia: Lucio era felice».
    Lucio, che faccio li allontano? Chiese Michele una delle prime volte. «No, no, devo essere grato a questa gente».

    Duello in dialetto
    Michele, incontrando Lucio la prima volta alle Tremiti, vi fece un’indimenticabile pessima figura; lo ricorda con molto divertimento.
    Colpito dalla bassa statura di Lucio, forse in qualche modo deluso che il suo aspetto fosse di gran lunga più modesto della sua fama, si lasciò andare con la sfrontatezza del giovane uomo di mare, a tentare il colpo basso alla celebrità. Quella sera si sarebbe vantato con gli amici e ne avrebbero riso: lui, Michele Bottalico, il marinaio, aveva preso in giro Lucio Dalla, il celebre cantante.
    Presunse di conoscere il dialetto, un dialetto molto difficile, ben più del cantante e partì all’attacco: «Madò! Quant si’ brutte!» Madonna, quanto sei brutto.
    Lucio, senza esitazione restituì il colpo come fosse pescatore di Mambredònje, nato a via Maddalena, sul porto: «Jü? A verè tu quant se’ brutte!» Io? Dovresti vederti, quanto sei brutto. Accento perfetto e sfoderò un bel sorriso canagliesco, come avesse fatto filotto da dodici al biliardo.

    Volevo nascondermi, ricorda Michele, volevo diventare invisibile mentre Lucio ghignava divertito e lo incalzò: «Guagliò! Vini qua, vì vì vì…» Ragazzo, vieni qui, vieni vieni vieni, col braccio teso e quattro dita, unite su e giù, gestualità tipica da pescatore.
    «Ma tu sì de Mambredònje?»
    «Sì, sì » Michele era oramai catturato «So’ de Mambredònje…»
    «Bravo, allora la prossima volta che vieni devi portarmi gli scavetatjille, due, tre chili di scaldatelli. Però mi raccomando solo quelli da via della Croce, da Nella, solo quelli di Nella. Ogni volta che vieni purteme le scavetatjille. Me’ capìte?».
    Gli scaldatelli, taralli di varie forme e dimensioni a seconda delle varie contrade garganiche, sono composti solo di acqua, farina e un po’ d’olio. Talune varianti lussuose annoverano il vino. Di zucchero e lievito neppure l’ombra. La semplicità della ricetta esige maestria da chi li confeziona e assoluta genuinità delle materie prime affinché il risultato finale sia di gran sapore, friabile ma non fragile, deliziosamente gustoso e fragante.
    Come faceva quell’accidente di polentone bolognese a sapere che gli scaldatelli di Nella sono i migliori del Gargano e quindi del mondo?
    Lucio, incurante del suo sbigottimento, gli dette il numero di telefono, stabilendo un contatto che non si sciolse più, affidando al giovane marinaio incarichi mano a mano più importanti, fino a farne autista, braccio destro e comandante della sua barca; l’amico infine che lo seguiva ovunque.

    Zingarando sul Gargano, con un punto fermo
    Gargano, Santa Maria di Pulsano…
    Un paio di settimane prima dell’ultimo viaggio telefonò da San Severo; nevicava.
    «Michele, mi porti in giro? Dai, prendi la jeep».
    Come sempre, quando lo spettacolo finiva, spenta l’ultima luce, dissoltosi l’ultimo accordo, saliva la smania di cercare nella notte per lenire i tumulti interiori.
    Andarono ad Apricena, cenarono, da lì scesero a Manfredonia, poi a San Giovanni Rotondo, a notte tarda, per il solito giro intorno al convento.
    Padre Pio aveva ancora un rapporto speciale con Lucio – Michele ebbe modo di scoprirlo – un rapporto vivo e attuale, nonostante i lunghi anni trascorsi dalla morte del frate.
    Le zingarate sul Gargano, apparentemente senza meta, sempre comprendevano un passaggio notturno al convento di padre Pio.
    Mentre l’auto andava, l’umore di Lucio mutava. Michele intuiva quando il passeggero aveva bisogno di parlare, quando di silenzio.
    Cercavano il mare e il cielo, la terra e la velocità: «Come la volta da Termoli a San Severo, in venti minuti, duecentoquaranta all’ora, che neanche Nuvolari» Michele ha lo sguardo lontano.
    In una sera così, Lucio lo soprese: «Io ho un unico punto fermo, Gesù Cristo».
    I concerti li portavano in ogni dove e ovunque Michele aveva una missione prioritaria: cercare la chiesa dove Lucio potesse confessarsi, ascoltare la Santa Messa e ricevere l’Eucarestia.
    «Io sono cattolico» Lucio lo ripeteva ogni volta che poteva e ne dava prova, come nel 1994, quando nato Paolo, il primogenito di Michele, Lucio si candidò padrino.
    Michele avrebbe scoperto negli anni successivi che Lucio fu padrino d’innumerevoli bambini, anche fra gli zingari dei campi bolognesi. Un bambino portato al battistero per Lucio fu gioia cercata e ripetuta.
    «Io sono cattolico, te lo battezzo io, te lo battezzo io» Lucio lo ripeté a Michele da quando seppe che Chiara era incinta. Lucio era così: negli appuntamenti cruciali della vita si metteva in prima, seconda o ultima fila, come la sua sensibilità gli suggeriva.
    «Quando morì mio padre, presumevo che non lo sapesse» ricorda Michele, mentre Matteo annuisce commosso «Senz’aspettarcelo vedemmo la sua auto unirsi al corteo funebre» che a Manfredonia usa far transitare davanti alla casa del defunto, per un ultimo saluto «Mentre andavamo dalla chiesa della Croce verso casa, forse a causa del traffico, alcuni amici di Manfredonia si persero, distaccandosi dal corteo, Lucio invece lo seguì con disinvoltura, come fosse nelle strade del suo paese».
    I cortei delle auto, funebri o festosi, sono tuttora ricorrenti nel traffico di Manfredonia, la cui intensità spesso non ha nulla da invidiare a quello d’una metropoli. Un corteo di gran lunga più festoso si formò quando battezzarono, Paolo, il sospirato primogenito di Michele e Chiara, atteso ostinatamente per sedici anni. Era tutto pronto per la cerimonia nella chiesa di Santa Maria Regina, a Siponto, il quartiere balneare a sud di Manfredonia, fra pinete ed eucalipti.

    Lucio fa piangere il parroco
    Gargano, Vignanotica.
    Monsignor Valentino Vailati, arcivescovo di Manfredonia, s’era detto volentieri disponibile per il rito. Il prelato però ebbe un serio problema all’ultimo momento e dovette rinunciare.
    «Nooo, assolutamente non è possibile» rispose don Mario Carmone parroco della chiesa della Croce e zio di Chiara, quando Michele propose allo zio di celebrare in luogo del vescovo «Impossibile, il battesimo è sacro! Il padrino non può farlo un teatrante».
    Ma com’era possibile? Il vescovo non obiettava e invece don Mario, per giunta zio della madre del battezzando, non voleva Lucio come padrino. Don Mario d’altronde era davvero un buon prete, bisognava comprenderlo e, proprio per questo, rifiutava che il padrino di Paolo fosse un cantante, addirittura Lucio Dalla: «Impossibile, il padrino deve essere un cattolico convinto e praticante!»
    Michele, dal carattere un sanguigno, avrebbe volentieri mandato don Mario a quel paese. Questo avrebbe però amareggiato Chiara, l’avrebbe costretto ad annullare la cerimonia e rimandare delusi i numerosi invitati, mutando la festa in funerale. Si fece dunque animo per convincere il parroco: «Secondo voi, il vescovo non aveva accertato le qualità del padrino prima di accettare di battezzare Paolo?» chiese a don Mario e, mentre lo zio esitava, aggiunse «Che cosa direbbe monsignore della presa di posizione del parroco, dal momento che lui, l’arcivescovo, non obiettò nulla?»
    Don Mario, anche grazie all’intervento di Chiara, dopo molte insistenze si rassegnò obtorto collo, un po’ perché spinto dai legami familiari, soprattutto perché l’assenso iniziale dell’arcivescovo non gli lasciava vie di fuga.
    Iniziato il rito, don Mario dovette ricredersi ben presto, osservando quanto fossero puntuali e pieni della sua Fede i gesti di Lucio e le sue parole in risposta al celebrante; si sarebbe detto, non conoscendolo, che Lucio fosse un sacrista di professione. Tutti i presenti ne erano stupiti, tranne Michele. Don Mario, a sua volta, era più sorpreso di tutti, notando di sottecchi la solenne compostezza e la profonda partecipazione al rito del suo celebre chierichetto, con quanta mistica gioia s’accostò all’Eucarestia.
    Dopo l’Ite missa est, gli invitati si strinsero festosi al neocatecumeno e al celebre padrino, non si sa quale dei due più bersagliato dai flash, mentre Michele, al settimo cielo, si recò in sacrestia per ringraziare don Mario.
    Grande la sorpresa quando scoprì il coriaceo parroco, ancora coi paramenti sacri, singhiozzante a calde lacrime: «In tanti anni di sacerdozio mai ho visto servire e seguire la Santa Messa con la partecipazione e la fede di Lucio Dalla».
    S’abbracciarono e fu uno dei giorni più felici per don Mario e per Michele, altrettanto commosso ma non sorpreso, ben sapendo che l’uomo che serviva la Santa Messa era tutt’altro, del tutto differente e staccato dall’uomo di spettacolo, dal Lucio conosciuto dal pubblico. Il suo gesto rimaneva semplice ed essenziale, eppure ergeva una solennità che non lasciava dubbi circa la profonda e umile partecipazione nel servire per fare memoria del sacrificio di Cristo.
    Nel ricordo, con le parole semplici di Michele, s’avverte che nel servire la Santa Messa, Lucio frapponeva fra sé e il mondo rimanente una sorta di iconostasi, laddove un attimo prima era stato felicemente e sinceramente immerso fra la gente, rivolgendosi a Dio, tutto il resto era in second’ordine.

    Lucio e padre Pio
    La radice della fede vissuta da Lucio fu chiara a Michele fin da quando il cantante gli raccontò d’aver servito numerose volte la Santa Messa a padre Pio, iniziando in tenera età e proseguendo sino a quando aveva potuto.
    Il buon frate era certamente santo, ma la pazienza gli sfuggiva e non mancò di rampognare e persino far volare qualche scappellotto, più leggero di quanto avrebbe voluto a causa delle stimmate, quando quel chierichetto birbante dava le prime avvisaglie del suo estro musicale, proprio nel sacro istante dell’Elevazione, suonando il campanello in maniera inappropriata.
    La voce del frate, mentre Lucio cresceva, si fece più severa e da un certo momento in avanti, sebbene il giovane non mancasse di presentarsi al confessionale, padre Pio tuttavia smise di concedergli l’assoluzione. I peccati s’erano fatti pesanti.
    Di solito, quando padre Pio reputava un penitente indegno di assoluzione, aggiungeva per buona misura parole brusche, cacciando il reprobo in malo modo, talvolta non consentendogli neppure d’accostarsi all’inginocchiatoio tarlato, usando a piene mani una severità che a taluni spiacque e a tantissimi giovò.
    Non fu così per Lucio. Egli andava a confessarsi da padre Pio, il quale lo ascoltava, gli dava consigli e ammonimenti con la consueta severità, infine lo congedava negandogli l’assoluzione, tuttavia quietamente, senz’asprezze. Quel comportamento di padre Pio era inconsueto; Lucio lo sapeva e ne era disorientato, ricavandone un’inquietudine che lo interrogò a lungo, sino a pochi mesi prima della scomparsa di padre Pio.
    Era l’inizio dell’estate del 1968. La madre telefonò a Lucio chiedendogli di raggiungerla per andare insieme da padre Pio che, a detta della donna, stava molto male.
    Lucio suppose che accampasse il pretesto della salute pericolante del frate, per convincerlo a interrompere la lunga assenza dalle sua braccia, causata anche dagli impegni del giovane cantautore, non ancora pienamente affermato .
    In piena notte partì da Bologna alla volta di Manfredonia, dove dimorava mamma Jole; da lì salirono a San Giovanni Rotondo, quando essa confermò i timori per la salute del frate che egli non vedeva da molto tempo.
    Il suo legame col frate, dalla prima volta che lo aveva incontrato nel giardino del convento, quando aveva sette anni, s’era fatto mano a mano più forte, mentre Lucio intuiva che egli era una scintilla di Dio, la cui forza tuttavia gli rimase paradossalmente ignota finché fu assiduo presso di lui. Non di meno lo ascoltava. Quando il frate lo redarguì per le sue ambizioni di attore, ingiungendogli: «Tu devi cantare. Hai capito? Tu devi cantare!» Lucio non ubbidì subito ma infine accantonò i sogni hollywoodiani, germogliati sullo schermo del cinema arena Impero.
    Aveva partecipato ad alcuni film a Cinecittà; dopo qualche tempo dall’intimazione di padre Pio finì per concentrarsi solo sulla musica. Ora stavano arrivando i primi contratti importanti. Non poteva ancora dire d’avere sfondato. Era pieno di dubbi; riguardavano la sua carriera di cantante e, ancora più profondamente, le sue intime convinzioni, la sua fede, la sua combattuta fede e il suo stesso io, com’è naturale in un giovane di 26 anni.
    Quel mattino andò ancora una volta a confessarsi da padre Pio, paventando che anche questa volta il tribunale della Penitenza avrebbe negato la sentenza assolutoria e non di meno per lui era un grande sollievo accostarsi al frate per confidarglisi.
    Non immaginava che sarebbe stata l’ultima volta, sebbene il frate fosse visibilmente provato e sofferente; gli occhi chiusi, la voce molto debole mentre risparmiava ogni briciola delle residue energie.
    Lucio s’inginocchiò e il confessore non fece mostra di riconoscere il suo discolo chierichetto. Era passato tanto tempo dall’ultima volta e il frate non dette neppure i medesimi segni di paterna contrarietà, gli ammonimenti e i dolci rimproveri come nelle confessioni precedenti. Lo si sarebbe detto indifferente all’identità del penitente.
    «Non m’ha riconosciuto» pensò Lucio e decise d’approfittarne per pulire a fondo la coscienza.
    «Me’ fatte na’ scarécota» scaricai tutto, confidò anni dopo a Michele. Visto che padre Pio pareva quieto e seguitava a ignorare l’identità del penitente, Lucio ne volle profittare per confessare tutti i peccati, questa volta senza troppe angosce, proprio tutti, insomma «na’ scarécota».
    Si compiacque per la sua trovata quando, senza alcun rimprovero di sorta per le sue innumerevoli colpe, inaspettata giunse l’assoluzione, come non accadeva da moltissimi anni, almeno dall’adolescenza.
    Nonostante il sollievo della remissione dei peccati, Lucio avvertì tuttavia una certa delusione, come avesse perduto qualcosa, come se padre Pio non fosse più quello che egli aveva conosciuto, come accadrebbe davanti a un vecchio genitore che non ci riconosce più a causa della memoria svanita. Non osava pensare che il frate fosse divenuto l’ombra di quello conosciuto da bambino. Si levò dall’inginocchiatoio col pensiero echeggiante: «Non m’ha riconosciuto, non m’ha riconosciuto» allontanandosi angosciato.
    Non aveva completato tre passi e il frate lo inchiodò:«T’aggije canusciute… t’aggije canusciute…» la voce tornò per un momento quella antica, la montagna che parla scuotendoti.
    Lucio non ebbe forza di girarsi; avvertì una scossa; guadagnò in fretta il sagrato mentre i dubbi d’un momento prima si scioglievano. Fu catturato e commosso dallo spettacolo del golfo, di qua la montagna e sopra il cielo azzurro, lo stesso cielo che un attimo prima aveva parlato con la voce che perforò il suo cuore. La sua fede non vacillò più.

    Piero Laporta per www.lavocedelmarinaio.com(*) Piero Laporta, osservatore delle ambiguità del giornalismo italiano, dal 1994 s’è immerso nella pubblicistica senza confinarsi nei temi militari, come del resto sarebbe stato naturale considerando il lavoro svolto a quel tempo. Ha collaborato con numerosi giornali e riviste, non solo italiani (Libero, Il Giornale, Limes, World Security Network, ItaliaOggi).
    Ha scritto oltre 4mila articoli. Cura le rubriche “Tripwire” per il Corriere delle Comunicazioni (dal 2004) e “Il Deserto dei Barbari” per il mensile Monsieur (dal 2003); collabora col settimanale Il Mondo del Corriere della Sera e con Il Tempo.
    Oggi il suo più spiccato interesse è la comunicazione sul web, fondando il  sito  http://www.pierolaporta.it  per il blog OltreLaNotizia.
    È cattolico, sposatissimo, ha due figli.

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    Renzo Galimberti (Lissone 3.4.1923 – Mare, 22.9.1943)

    di Marino Miccoli

    (Lissone 3.4.1923 – Mare, 22.9.1943)

    Ricordando il Marinaio fuochista morto a 20 anni sul piroscafo Sgarallino.

    Era un Marinaio giovanissimo Renzo Galimberti quando perì nell’affondamento del piroscafo Andrea Sgarallino su cui prestava servizio.
    Originario di Lissone, una bella e produttiva cittadina confinante con la città di Monza, capoluogo della Brianza verde ed operosa, prima di indossare la divisa della Regia Marina era stato un operaio del mollificio Cagnola.
    Della classe 1923, la morte lo ghermì improvvisamente a soli 20 anni, mentre prestava servizio sulla sua Unità con la qualifica di Marinaio Fuochista.
    Il piroscafo, (di circa 730 tonnellate di stazza, lungo 56 metri e largo 8, che portava il nome di un patriota: il colonnello Andrea Sgarallino, livornese, il quale con Garibaldi partecipò all’impresa dei Mille) era stato varato nel 1930, nel nuovissimo Cantiere Navale Odero-Terni di Livorno, con materiali e tecniche ritenuti all’avanguardia per quei tempi. La cronaca dell’epoca al riguardo scrisse: “oltre ad avere qualità nautiche indiscutibili, comodità immense per i passeggeri e l’equipaggio, è stato curato così minuziosamente nei suoi particolari e con un tal buon gusto da farlo sembrare un pacchetto in miniatura”.
    Navigava per i servizi di linea nell’Arcipelago Toscano quando allo scoppio della guerra, nel 1940, viene requisito dalla Regia Marina.
    Armato con due cannoncini e mimetizzato con apposita livrea, fu ribattezzato nave ausiliaria posamine F.123 e destinato a servizi militari.

    Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 riprese il servizio di trasporto passeggeri (civili e militari da e per l’isola d’Elba), recapito della posta e di approvvigionamento derrate e merci varie con la terraferma. Quando i tedeschi occuparono l’isola d’Elba la nave fu confiscata e le venne imposto di inalberare la bandiera del III Reich; questo fatto unitamente al suo aspetto di nave da guerra contribuirà al verificarsi del suo tragico affondamento, avvenuto la mattina del 22 settembre 1943. Il piroscafo, comandato dal STV Carmelo Ghersi, stava effettuando la traversata tra Piombino e Portoferraio carico di militari e civili italiani; quando giunge nelle acque di Nisporto, a circa un miglio di distanza dall’isola d’Elba, venne silurato dal sommergibile britannico Uproar. Vedendo la nave mimetizzata militarmente e battente bandiera tedesca, il comandante del sommergibile non esitò ad attaccare ordinando il siluramento. Sono le 9.49 quando due siluri esplodono spezzando il piroscafo in due tronconi; purtroppo l’affondamento è immediato e avviene una strage. Nella tragedia periscono circa trecentotrenta persone innocenti, proprio quando il piroscafo era giunto a poche centinaia di metri dall’attracco. Soltanto quattro furono i sopravvissuti.

    Oggi il relitto si trova, adagiato sul fondale, spezzato in due, a circa 66 metri, nel punto Lat. 42° 50’ N – Long. 010° 21’ E .

    Dalle amare parole di una testimone che all’epoca era dodicenne, la signora Marisa Burroni, si può comprendere quale fu l’entità della tragedia:

    […] Ricordo che la nave era avvolta dalle fiamme e da un denso fumo, dopo pochi minuti le fiamme si spensero e lo Sgarallino era scomparso sotto al mare. Quel giorno infame un vento leggero faceva giungere a tratti le urla di quei disperati. Ricordo che tutti correvano verso il porto e io feci lo stesso. So che i soccorsi partirono molte ore dopo il siluramento perché c’era la paura che quel maledetto sommergibile fosse ancora lì per colpire ancora. Non dimenticherò mai le decine di corpi esanimi distesi dal molo del Gallo fino a quasi la porta di ingresso di Portoferraio. La gente voltava i cadaveri per vedere se riconoscevano amici o parenti mentre alcune donne portavano le lenzuola per coprire quei poveri corpi, ma più di tutto ho chiaro nella mente il corpicino di un bimbo vestito di celeste; che Dio maledica la guerra, tutte le guerre.”

    Di seguito riporto alcuni toccanti e significativi versi di una ballata popolare composta sui tragici fatti accaduti quel giorno.

    LA BALLATA DELLO SGARALLINO
    Il ventidue settembre
    partiva da Piombino
    ben carico di gente
    l’ “Andrea Sgarallino”
    […]

    Erano tutt’a bordo, erano ben stipati
    e in più di trecento non sono più tornati

    Si sentono le grida
    si sentono le urla
    si chiama il capitano
    e non è certo burla

    Si sentono le grida
    nessuno è più al sicuro:
    “Buttarsi tutt’a mare,
    che sta a arrivà un siluro!”

    Erano tutt’a bordo, erano ben stipati
    e in più di trecento non sono più tornati

    Ma non féciono in tempo,
    nessun s’era buttato;
    che ci fu l’esplosione
    dell’ordigno scoppiato

    Ma non féciono in tempo,
    nessun s’era salvato;
    e per trecentotrenta
    il tempo s’è fermato

    Erano tutt’a bordo, erano ben stipati
    E in più di trecento non sono più tornati

    Aspetta aspetta al molo
    la gente ‘un vé arrivare
    la nave di ritorno
    e inizia a lagrimare

    Aspetta aspetta al molo
    la gente ode vociare
    che l’Andrea Sgarallino
    or giace in fondo al mare!

    Questi tristi versi, dettati dal grande e profondo sentimento di cordoglio popolare, ci aiutano a comprendere quale immane tragedia avvenne quel giorno e ci spronano a riflettere e a tenere sempre presente quanto grande, importante e inestimabile sia il valore rappresentato dalla pace tra le nazioni.

    Il 29 maggio 2013 la sezione A.N.M.I. di LISSONE – gruppo Brianza- è stata intitolata al Marinaio Fuochista Renzo Galimberti e sul monumento dei Caduti del mare di Lissone è stata deposta una targa commemorativa.
    Desidero inoltre evidenziare che considero bello e assai significativo il fatto che una sezione dell’ANMI come quella di Lissone (alla quale sono iscritto) sia stata intitolata a un MARINAIO, ossia non a un blasonato Ammiraglio o un famoso Comandante, ma mi piace ribadirlo, a un Marinaio fuochista che a soli 20 anni è perito nell’espletamento del suo prezioso servizio in sala macchine.
    Oggi 22 settembre 2022, nel 79° anniversario dell’affondamento del piroscafo Andrea Sgarallino, desidero ricordare il sacrificio di Renzo Galimberti e dei Marinai componenti l’Equipaggio nonché la scomparsa dei numerosi Civili che vi erano trasportati. Attraverso il lodevole sito de LA VOCE DEL MARINAIO ne onoriamo la memoria rivolgendo loro il nostro deferente pensiero.