Curiosità

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    31.12.2014, Salvatore Bartucci e Telemaco il pio ammiraglio che aveva ascoltato per tutta la vita

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

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    Quando pubblicai a suo tempo questo articolo, sia su questo blog che sul Giornale dei Marinai, compresi che dovevo perseverare, senza ogni dubbio, a dare voce ai marinai di buona volontà. 
    Il peccato più ricorrente, in questo periodo del nostro tempo, è quello di “non sapere ascoltare col cuore”.
    Salvatore Bartucci, è salpato via per l’ultima missione lo scorso anno, ma con la soddisfazione di imbarcare sulla sua nave terrena, nave Duilio, prima di imbarcarsi per raggiungere l’attracco del porto della Gerusalemme Divina. Quel giorno, seppi che ci furono vari vicissitudini prima di farlo imbarcare e farlo sedere sul palco delle cosiddette autorità (…sic!) nonostante tutti i permessi.
    Dopo l’esperienza di Salvatore Bartocci, stessa sorte accadde a Trieste per i marinai reduci di Nave Fasan che, dalla Sicilia, volevano imbarcare per il varo di una nuova nave, la loro nave…
    Anche in quest’occasione qualcuno non “ha saputo ascoltare”.
    Ci sono voluti due anni, e l’intercessione di un “Pio Ammiraglio che non fecero Capo di Stato Maggiore della Marina proprio perché aveva ascoltato per tutta la sua carriera”, per far si che i cosiddetti reduci venissero “ascoltati e quindi ancora accolti nell’ormai piccolissima famiglia dei marinai italiani” (è successo per il varo della nuova nave Luigi Rizzo dove sono stati “accolti”, “ascoltati” e “coccolati” ma non a Milazzo nel 2018 in occasione della consegna della Bandiera di Combattimento).
    Ora che il “Pio Ammiraglio” Telemaco, figlio di nome in codice Ulisse, è andato in pensione, ci sarà ancora qualcuno a sapere ascoltare con la voce del cuore, anche dei Proci?
    Intelligenti pauca (a buon intenditor…).

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    Gli scogli magici di San Nicola

    di Orazio Ferrara (*)

    In Sicilia, fino alla metà dell’Ottocento, si sentiva raccontare spesso da vecchie popolane dell’esistenza di scogli magici, che avevano il potere di dare buone o cattive notizie a chi, con parole antiche, sapesse bene interrogarli. Uno di questi scogli si trovava sulla costa della cittadina di Trapani, appena fuori l’antica porta Eusebia, esattamente prospiciente alla spiaggia dove sorgeva e sorge tutt’ora (sebbene un po’abbandonata) l’arcaica chiesetta di San Liberato o Liberale Abate (l’amato Santu Libiranti del buon tempo antico dei Trapanesi), che s’incontra sul percorso che dal Largo delle Ninfee giunge fino alla Torre di Ligny.
    A quei tempi, parliamo dell’Ottocento, Santu Libiranti era un santo popolarissimo e assai festeggiato dal popolino trapanese per via della sua protezione accordata alla pesca e alla lavorazione del corallo. E ciò non doveva meravigliare affatto in una città che fondava la sua ricchezza sul corallo e in cui i corallari erano una delle più potenti e ascoltate corporazioni cittadine.
    La festa di San Liberato cadeva il lunedì successivo alla domenica di Pentecoste. Quel giorno, presso la chiesetta, era un continuo via vai di persone, di famiglie, di gruppi di marenari, di corallari.
    Dopo aver ascoltate le funzioni religiose, la massa dei partecipanti si disperdeva poi sulla vasta e morbida spiaggia antistante e qui, stese delle larghe tovaglie, vi apparecchiava i cibi più squisiti e prelibati, accompagnandoli con l’ottimo e forte vino della zona. Nessuno, proprio nessuno, quel giorno voleva mancare a quella che era definita la scialata dell’anno.
    Dopo il pasto abbondante, mentre gli uomini fumavano con le loro lunghe pipe di terracotta e parlavano degli accadimenti nei loro viaggi per mare, le donne andavano a bagnarsi le gambe in mare. Infatti si riteneva che quello specchio di mare avesse delle virtù soprannaturali in quanto rendeva le loro gambe più tornite e sode, al pari del rosso corallo, e quindi più desiderabili dai loro uomini.
    Virtù soprannaturali avevano anche gli scogli che sorgevano lì di fronte a quella spiaggia. Chi volesse sapere notizie di un suo caro, che navigava lontano sul mare, non doveva far altro che andare in quel posto, verso la mezzanotte, lanciare un sasso nell’acqua, in modo da svegliare la divinità dormiente, recitare delle parole segrete e oscure e quindi gridare tre volte, ad alta voce, il nome della persona cara lontana di cui si voleva sapere se fosse scampato ai pericoli di mare. Se il rito era ben eseguito e con le parole giuste arrivava immancabile la risposta degli scogli.


    Un racconto siciliano ottocentesco, riportato peraltro anche dal grande Giuseppe Pitrè il più importante ricercatore e studioso di tradizioni popolari della Sicilia di un tempo, ci narra del rito avvenuto una notte appunto sulla spiaggia di San Liberato e in cui viene menzionata Pantelleria. Questo implicitamente significa che anche nella nostra isola dovevano esserci degli scogli ritenuti magici e quindi la necessaria corrispondenza per dare risposta al nome invocato. Ma andiamo con ordine.
    Un giovane marinaro di nome Nino era andato, insieme ad altre barche trapanesi, alla pesca delle spugne nei pressi delle coste tunisine di Sfax. Erano passati ormai due mesi e nel frattempo la maggior parte delle barche avevano lasciato le acque tunisine ed erano rientrate nel porto di Trapani. Di Nino però non si aveva alcuna notizie. I marinai sbarcati raccontavano di una tremenda tempesta che li aveva colti nel viaggio di ritorno e forse Nino era stato inghiottito dagli abissi marini. Quale era l’angustia per la vecchia madre, il fratello e le sorelle dello sventurato marinaio, a sentire quelle voci, è facile immaginarlo.
    Così, una notte di luna piena, l’intera famiglia decise di ricorrere, per sciogliere il doloroso dilemma, agli scogli magici di Santu Libiranti. Dopo aver pregato e supplicato nella chiesetta del santo, essi si diressero alla spiaggia. Allo scoccare della mezzanotte il fratello, lanciato un sasso e recitate le giuste parole, gridò “Nino, Nino, Nino!”. Poi tutti restarono in trepidante attesa. D’un tratto si udì una voce, che ai presenti sembrò sepolcrale e ghiacciò loro il sangue. Ma la notizia era buona: “Non angustiatevi, sono salvo alla Pantiddraria”. Alcuni giorni dopo Nino, a bordo di un veliero pantesco, ritornò a Trapani e poté così riabbracciare finalmente i suoi cari.
    Dei corrispondenti scogli magici in Pantelleria nessun cenno. Eppure dovevano esserci, affinché il rito avesse effetto secondo la credenza popolare. Nessun cenno di questi, nulla di nulla, nella tradizione folklorica pantesca. Avanziamo un’ipotesi. In tutti i racconti siciliani sugli scogli magici, quest’ultimi sono sempre al limitare di una spiaggia antistante, una chiesa cara ai marinai e da essi frequentata.

    Nella Pantelleria del buon tempo antico c’era un solo e unico luogo ad avere queste precise e peculiari caratteristiche ed era la chiesa, oggi scomparsa a seguito degli eventi dell’ultima guerra, di San Nicola, peraltro da sempre un luogo deputato dalle caratteristiche magico-sacrali. Non a caso essa sorgeva su un preesistente e antico cimitero e quindi luogo frequentato, secondo le credenze, dalle Anime del Purgatorio, a loro volta potente tramite tra il mondo terreno e quello celeste.
    La chiesa di San Nicola (era grosso modo dove si trova oggi il Tikirriki) si apriva sul mare e aveva davanti una spiaggia di sassi e scogli (la banchina era ancora di là da venire). In San Nicola i marini panteschi veneravano il loro santo e benefico patrono, la chiesa stessa era in uso ad una confraternita di essi. Particolarmente fascinoso era poi il rito della benedizione dei panuzzi di San Nicola, rimedio infallibile per salvarsi da un grave pericolo imminente in mare.
    Oggi chi passeggia sulla banchina ignora che al disotto si trovano gli scogli magici dei racconti di un tempo fiabesco ormai definitivamente perduto.

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    Inclinometro o clinometro

    a cura Carlo Di Nitto

    … riceviamo e pubblichiamo.

    Buongiorno marinai,
    sapete dirmi che cosa può essere e a che serviva questo oggetto?
    Mastro Cencio Vincenzo Dobboloni.

    Riteniamo che possa trattarsi di un interessante vecchio inclinometro (o clinometro) elettrico. Si tratta di uno strumento per misurare gli angoli di inclinazione, trasversale e longitudinale, di un aeromobile o di una nave.
    La ditta produttrice Hartmann & Braun, fu una ditta di Francoforte, attiva dal 1901 al 1933, rinomata per la qualità dei suoi strumenti.

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    Il berretto dei marinai

    di Guglielmo Evangelista (*)
    foto internet

    Sia fatto di plastica che di panno, con o senza foderina, blu o bianco, il caratteristico berretto piatto del marinaio  l’hanno portato proprio tutti, compresi gli ufficiali quando erano allievi.
    Una volta non era fatto così: anzi, non c’era nessun punto di contatto con quelli attuali.
    Dobbiamo fare un salto indietro in un lontanissimo passato.
    Nel XVIII secolo nacque lo “sciakot” o “sciaccò”, un copricapo molto alto e rigido ideato per fornire un minimo di protezione alla testa del fante dai colpi di sciabola che venivano dall’alto, specialmente quelli della cavalleria nemica, e fu adottato anche per i marinai considerato che, durante un abbordaggio, potevano trovarsi in situazioni analoghe. D’altra parte fino ad allora, compreso il periodo napoleonico, non c’era grossa differenza fra il vestire da marinaio o da soldato,né come foggia né come colori.
    Nell’800 questo berretto rimase in auge per diversi anni, ma le uniformi della marina si stavano differenziando nettamente da quelle dell’esercito, così che al posto dello sciakot fu adottato un cappello che, pur avendo ancora funzioni simili, era di foggia molto diversa.
    Il cilindro
    Questo copricapo era un cilindro, a volte riccamente decorato, a volte senza fregi e coccarde; Il regolamento della marina piemontese del 1826 lo definiva cappello rotondo con gansa d’oro.
    Non sembra che incontrasse molto favore perché la foggia non era molto militare essendo all’epoca adottato anche dall’abbigliamento civile (fu infatti definito un tubino come i signori). Se si aggiunge il fatto che la giacca portava le code ne derivava un’uniforme che, come si ironizzava, si addiceva più  a un cocchiere che un marinaio.
    Esso era portato dal personale fino al grado guardiamarina compreso, mentre per gli ufficiali c’era il “cappello a due punte”, cioè la feluca che sopravvisse fino al 1945 anche se col tempo rimase di uso limitato solo alle cerimonie.
    Il modificarsi del modo di combattere, fra artiglierie e grande gittata e  navi a vapore, rese sempre più rari gli abbordaggi così che il cilindro perse la sua funzione originaria di protezione.
    Tra l’altro non era molto pratico a bordo perché la sua altezza obbligava la gente a camminare curva quanto si trovava all’interno della nave, dove i soffitti erano bassi.

    Il cappello
    Seguendo l’esempio della marina inglese, dopo il 1830 comparve il cappello a larghe falde che divenne  regolamentare e che distinse tutti i marinai dell’800.
    Anche questo era chiamato “cappello rotondo” ed era fatto di trecce di paglia verniciate di nero a più strati fino a far scomparire le disuguaglianze dandogli un aspetto lucido e uniforme.
    Come ogni cosa aveva un lato positivo e uno negativo. Era impermeabilizzato e riparava abbastanza bene chi lo portava dal sole e dalla pioggia. L’aspetto negativo erano le sue dimensioni: il generoso diametro offriva troppa presa al vento che poteva farlo volar via facilmente.
    In estate veniva sostituito dal “cappello di palma” fatto di paglia grezza che era sottile, leggero e fresco che sopravvisse a lungo, molto di più della versione invernale. Oltre che di uso generale nei paesi dal clima caldo, specialmente quelli mediterranei, era indispensabile quando le navi si trovavano sotto il sole tropicale.
    Si dimostrò tanto utile che, in Eritrea, fu distribuito anche ai soldati e fu ammesso anche per gli ufficiali che non fossero di servizio. Come capo di abbigliamento scomparve solo nel 1913, ma ne rimase permesso l’uso e fu data facoltà ai Comandi di acquistarne di uguali sul posto.
    Un pallido ricordo sopravvive nel cappello dei gondolieri veneziani.

    La berretta di fatica
    Sostanzialmente fu l’antenato del berretto attuale. E’ ovvio, come già abbiamo rilevato, che i cappelli regolamentari di qualunque foggia sulle navi non erano molto pratici.
    Al Ministero questo si sapeva benissimo tanto che nel 1863 furono ammessi a bordo abbigliamenti informali “d’uso tradizionale”, cioè quelli che indossavano i marinai mercantili e derivati da una secolare esperienza: fra questi, non mancava un berretto floscio di lana, , facile da tenere in tasca e che quando era ben calcato teneva la testa asciutta e al caldo.

    Questo era talvolta sostituito da un semplice casco senza forma e senza fregi che poteva essere ben calcato sulla testa. L’uso di rivoltare all’insù la falda e con qualche modifica dette la forma al berrettino praticamente identico a quello che portano ordinariamente anche oggi i marinai statunitensi, senza peraltro alcuna derivazione da quello americano, tanto che era usato fin da prima della seconda guerra mondiale.

    Il berretto moderno
    Fu introdotto come componente dell’uniforme ordinaria nel 1873 e, in un secolo e mezzo, praticamente non è più cambiato anche se ne tempo ha subito una grande quantità di modifiche che riguardano le dimensioni del piatto, il tipo dei materiali usati per confezionarli, dei rinforzi interni e dei nastri.

    Una curiosità
    E’ noto che i berretti dei marinai francesi portano un caratteristico pon pon rosso, trofeo molto ambito dagli avversari durante le risse di taverna, chiamato in gergo “bachi”. Ebbe la sua origine nei tempi di Napoleone dove era presente sugli shakot di esercito e marina; le sue dimensioni e i suoi colori indicavano i reggimenti e i gradi, un po’ come avviene da noi ancora oggi per le nappine sul cappello dei reparti alpini.
    C’è anche chi sostiene che servisse per non battere la testa sui soffitti bassi delle navi ma…è soprattutto la fronte a prendersi gli urti e non la sommità del capo.

    Pochi sanno che in un caso il pon pon fu usato anche da noi fra ‘800 e ‘900: era di colore azzurro e lo portavano i marinai delle Capitanerie di porto che allora erano un corpo civile benché militarizzato, distinguendosi così a prima vista dai commilitoni della Regia Marina.

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    Il primo telegrafo magnetico a Castellammare di Stabia

    di Antonio Cimmino

    Il telegrafo ad aghi di William Thomas Henley si basava sugli esperimenti di Ampère: in presenza di corrente elettrica un ago magnetico devia la sua posizione. La deviazione dell’ago magnetico, influenzato dalla corrente prodotta nella stazione trasmittente, indicava nel ricevitore le lettere del messaggio trasmesso.
    A Castellammare di Stabia la prima linea telegrafica fu inaugurata nel 1851 e furono sistemate 86 stazioni nel Regno delle Due Sicilie.
    Nella metà degli anni ’50, Castellammare di Stabia utilizzava ancora il telegrafo ottico di Chappe e contestualmente due stazioni telegrafiche ubicate nella Regia di Quisisana e nel Real Arsenale.
    Il sistema usato, come in tutta la dorsale tirrenica era quello di Henlley, mentre lungi le coste adriatiche era operante il sistema Morse.