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    Il Segnalatore

    di Alberto Mattei

    Una carrellata di vita nel mondo delle radiocomunicazioni nella Marina Militare

    La categoria dei Segnalatori nella Marina MilitareIl servizio di collegamento tra i posti di segnalazione a bordo e a terra è affidato ai Segnalatori. Essi imparano ad impiegare tutti i sistemi di trasmissione, da quelli telegrafici e per telescrivente a quelli ottici, e diventano maestri nell’arte di trasmettere segnali con il pittoresco linguaggio delle bandiere. Si addestrano anche all’uso di apparecchi R.T. di piccola potenza. Ai segnalatori è affidato anche il compito di tenere aggiornati i documenti nautici necessari alla navigazione. Imparano a leggere le carte nautiche ed a tracciare le rotte. Inoltre hanno il compito di effettuare osservazioni metereologiche sia a bordo che negli osservatori costieri.

    Chi meglio di me poteva scrivere  quest’articolo. Dopo il testo scritto dal collega Passarino sui (cugini) Radiotelegrafisti sul numero 182 del Bollettino dei Marinai, adesso parleremo della categoria del “Segnalatore”.

    Alberto-Mattei-per-www.lavocedelmarinaio.com_La vecchia categoria è rappresentata da due banderuole (in alto sopra riportate) ed è stata messa in disuso dalla Marina con l’utilizzo della nuova categoria “specialisti in telecomunicazioni”, già utilizzata dai Radaristi. Questa ha accorpato, dunque, le categorie dei Radaristi, Radiotelegrafisti, Segnalatori e Telecomunicatori. E’ in vigore ancora tutt’ora.
    Ma come dico sempre “chi nasce segnalatore, muore segnalatore” e io sono uno che le bandierine non se l’è mai scucite dalla divisa.
    La categoria del Segnalatore, è nata nel 1931 dall’accorpamento delle più vecchie categorie dei Semaforisti e dei Timonieri. Queste due categorie erano a quel tempo addette alle comunicazioni radio semaforiche, sia a bordo delle navi che dalle stazioni costiere a terra.
    I corsi per Segnalatore iniziarono presso la Scuola C.R.E.M. di Pola (Istria italiana) ed erano suddivisi in:
    – corso O (ordinario), dalla durata di 12 mesi;
    – corso I.G.P. (Istruzione Generale e Professionale) riservato ai sottocapi che dovevano divenire sottufficiali della durata di 12 mesi;
    – corso P (perfezionamento) riservato ai Secondi Capi che dovevano avanzare nel ruolo dei Marescialli di III classe, della durata di 7 mesi.

    Dopo il Secondo Conflitto Mondiale, e con l’avvento della Repubblica, la vecchia dizione monarchica C.R.E.M. fu cambiata in C.E.M.M. (Corpi Equipaggi Militari Marittimi) e dislocata presso la sede di Taranto.
    I corsi di Segnalatore nel 1949 furono spostati nella neo Scuola CEMM di La Maddalena e successivamente ritornarono a Taranto definitivamente nel  1952.
    Iniziarono così a formarsi corsi di Segnalatori, pronti ad essere imbarcati sulle unità navali della Marina Militare Italiana.
    Il corso ordinario da Segnalatore prevedeva: la ricetrasmissione morse con sistemi a lampi di luce, le comunicazioni a banderuole e con segnali a bandiere, procedure di trasmissioni, la radio telefonia, l’uso delle telescriventi, lo studio della nautica e meteorologia, lo studio ed applicazione dei libri di segnali tattici oltre ai vari studi di ordinamento militare.
    I corsisti erano in tanti e ciò rendeva sino ai primi anni  ‘70 i corsi da Segnalatore particolarmente numerosi.
    Con l’abolizione del Gruppo Scuole C.E.M.M. agli inizi degli anni ‘80 e con la nuova denominazione in Scuole Sottufficiali della M.M., i corsi Segnalatori si sono ridotti, sino a scomparire del tutto nel 1988 quando la categoria Segnalatore, insieme ai Radiotelegrafisti, fu dismessa e passata nell’elenco delle categorie ad esaurimento. Nacque così il “Telecomunicatore”.
    Dopo più di due decenni, nel 2014 è stata ripristinata la categoria del Segnalatore e del Radiotelegrafista, mentre la categoria del Telecomunicatore è passata nell’elenco delle categorie ad esaurimento.
    Quando il 9 settembre del 1980 varcai per la prima volta la porta principale delle scuole C.E.M.M. (di lì a poco sarebbero cambiati in Scuole Sottufficiali della M.M.), sapevo già cosa volevo fare! Appena diciassettenne, con alle spalle saltuari lavori estivi e l’abbandono del secondo anno della Scuola Statale d’Arte (mi diplomerò Maestro d’Arte negli anni successivi) e con l’hobby della radio, il mio obiettivo era diventare un esperto radiotelegrafista. La mia famiglia, sia da parte di mio padre che di mia madre, erano tutti marittimi; inoltre il nonno materno era stato un Marinaio sommergibilista in tempo di guerra, mio nonno paterno lo era stato ma nelle chiatte in Grecia, il fratello sulla torpediniera Danaide. Mio padre era stato imbarcato sulla torpediniera Aretusa come nocchiere. Insomma, la Marina scorreva nel sangue. Inoltre da piccolo frequentavo un mio compagno di scuola elementare il cui padre era un ex Maresciallo Radiotelegrafista della Regia Marina e poi Marina Militare. Quando ci ritrovavamo a casa sua mi insegnava il codice morse e l’uso del tasto telegrafico, e ci raccontava storie di guerre e battaglie navali! Un mondo che mi ha sempre affascinato.
    Tutto ciò mi ha portato a credere in quello che poi ho fatto e cioè arruolarmi in Marina.

    Allievi Segnalatori in aula di insegnamento
    I primi tre giorni di accasermamento sono stati esclusivamente dedicati ai test ed infine al colloquio con lo psicologo che avrebbe designato la mia permanenza in quella categoria. Mi ricordo che quando ebbi il colloquio con lo specialista insistevo nel sottolineare che mi piaceva e conoscevo bene il mondo delle radio e delle radiocomunicazioni e preferibilmente chiedevo di poter fare il radiotelegrafista. Quando invece mi disse che ad un orecchio avevo dei problemi di udito e che non potevo fare l’RT, ma che mi avrebbe accontentato lo stesso facendomi fare il “SEGNALATORE”, una categoria che con il mondo delle telecomunicazioni era a parità dell’RT, mi crollò il mondo addosso, ma malgrado ciò mi accontentai lo stesso! Adesso dopo tantissimi anni, ringrazio quell’uomo nell’avermi assegnato a questa fantastica categoria.
    Così iniziai il corso (V6) denominato “80/A corso Segnalatori”. La sezione era formata da 16 allievi provenienti da tutta Italia: siciliani, campani, pugliesi e laziali, prettamente dal centro-sud. Il corso è durato 9 mesi dove alle materie culturali si alternavano materie professionali come ricezione e trasmissione morse a lampi di luce, trasmissione con telescrivente, procedure ottiche e radiotelefoniche, libro dei segnali, uso delle bandiere segnaletiche, conoscenza di tutti i sistemi di comunicazione, e poi nautica e meteorologia. Dopo nove mesi di intensi studi (si studiava ogni giorno, sia di mattina che di pomeriggio, con lo studio obbligatorio e si usciva in franchigia solo il sabato e la domenica e, se si andava bene a scuola, anche il mercoledì pomeriggio), arrivò il fatidico giorno degli esami e la prima destinazione. Tutti noi speravamo in qualche nave che girasse per il mondo! Mi ricordo l’ammasso delle persone di fronte la Direzione studi, in bacheca dove era esposto l’elenco di tutti noi con a fianco la destinazione.

    “… Allievo segnalatore Mattei, matricola 80VA0456T Nave ARDITO …” questa fu la mia prima destinazione a La Spezia.

    Il cacciatorpediniere ARDITO, una bellissima nave dove le “signorine di bordo” (nomignolo affibbiato ai Segnalatori) regnavano nel loro mondo, la Plancia Comando. Lì iniziò la mia avventura come “Segnalatore”, lì iniziai a mettere in pratica tutto ciò che avevo imparato alle scuole.

    Segnalatori comunicano con le bandiere
    E’ stato un susseguirsi di emozioni, soddisfazioni professionali, nuove conoscenze di apparati, approfondimenti, imparai l’uso delle banderuole (anche se non erano più in vigore). Conobbi nuovi amici, Ufficiali, Sottufficiali, Marinai e soprattutto i Capi segnalatori che si sono avvicendati. Era difficile vedere il “Capo Segnali” in porto, in genere lo si incontrava la mattina in plancia per visionare il lavoro che si stava facendo, poche direttive al sottordine e poi scompariva. Invece in navigazione era sempre presente, al fianco del Comandante, era sempre lì con il suo binocolo, a dare consigli sulle manovre tattiche, insieme ad un’altra figura importante, il Nostromo.
    Il nostro mondo era variegato, a turno si lavorava in ASC (Accettazione, Smistamento e Controllo dei messaggi), in sala nautica come segretario di rotta, al tavolo della tattica come operatore radio oppure in stazione segnali ad operare con le bandiere o a trasmettere e ricevere con il Panerai Q300, l’unica nostra arma a disposizione! Tutti dovevano saper fare un po’ di tutto.
    Altre destinazioni sopraggiunsero, Nave Vespucci, Nave Grosso, Nave Visintini.
    Il corso I.G.P. (Istruzione Generale Professionale) con il grado di 2° Capo, con i nostri frà, ci riunì nuovamente alle Scuole Sottufficiali, questa volta assieme al corso B. La sezione “Segnali” si era riformata nuovamente in un unico gruppo A e B (circa 25 persone). Il corso durò 9 mesi dove abbiamo approfondito un po’ tutte le materie studiate al corso VO e specialmente nozioni di procedure tattiche. Inoltre abbiamo studiato tutto ciò che interessava il mondo degli archivi e cifra, oltre a quello della gestione del carico. Insomma, da quel corso si usciva “Capi Segnalatori” pronti per svolgere il compito che tutti noi c’eravamo prefissati. Nave Danaide è stata la mia prima nave da Capo Segnali.
    Un breve periodo di riposo a terra presso il Centro Telecomunicazioni di Augusta e poi nuovamente imbarcato, Nave Driade e a seguire al Comsquacorv Uno (Comando della Prima Squadriglia Corvette) con doppio incarico, sottufficiale addetto all’addestramento TLC di Comflotcorv. Esperienza veramente indimenticabile, soprattutto quando i giovani TLC venivano a ricevere a lampi di luce, in sala didattica, o quando si venivano ad esplicitare le manovre tattiche dopo una “navcomex (Naval Communication Exercise)” a bandiere o in fonia.
    Ultima tappa di carriera professionale, questa volta con il grado di Capo di 1^ classe, è stato il corso P.
    Altra esperienza formativa è stata quella presso il Marisicilia (prima a Messina e poi ad Augusta) e,  con il grado apicale, quella presso il Comando in Capo della Squadra Navale a Roma. Ultimo incarico operativo è stato quello presso il Comando delle Forze di Pattugliamento Costiero ufficio Addestramento.
    Adesso, presso l’Arsenale della Marina Militare di Augusta, termino il mio lungo exscursus di carriera, soddisfacente e appagante.

    Segnalatori a bordo di Nave Etna
    Adesso che sono pensionato, riguardando indietro negli anni, non cambierei nemmeno una virgola. Farei tutto quello che ho fatto senza rimpianti. Ho avuto tanto e devo ringraziare tantissime persone, ma in primis quell’uomo che quel giorno di 37 anni fa, scriveva in quel pezzo di carta “SEGNALATORE”.

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    E ti accorgi che tutti sanno

    di Enrico De Vivo

    E ti accorgi che tutti sanno tutto.
    Tu sai, ma loro sanno di più.
    Tu segui un tuo ideale, ma gli altri sono pronti a dimostrarti che il loro è migliore del tuo.
    Tu vedi la sincerità e gli altri dicono che è falsa.
    Tu vedi la falsità e loro dicono che quella è la verità.
    Allora ti metti in discussione, ti poni davanti ad uno specchio e ti guardi.
    Tu sei tu, gli altri hanno una maschera che indossano a seconda della situazione
    … e ti accorgi che tutti sanno.

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    Vincenzo Pincin (Campolattaro, 16.4.1923 – Mare, 1.4.1942)

    di Sergio Covolan

    (Campolattaro, 16.4.1923 – Mare, 1.4.1942)

    Vincenzo Pincin, nato a Campolattaro il 16 aprile 1923, era un motorista navale imbarcato sulla regia nave  Giovanni Delle Bande Nere affondato nel Mediterraneo Centrale il 1° aprile 1942 alle ore 09:00. Lui fu uno dei tanti dispersi in mare.

    Vincenzo Pincin era mio cugino di secondo grado.

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    16.4.1941, le ultime ore di agonia della regia nave Tarigo

    di Antonio Cimmino, Carlo Di Nitto e Alberto Fiaschi

    A LUCA BALSOFIORE E A QUELLI CHE NON FECERO RIENTRO ALLA BASE

    Giovane direttore di macchina nato ad Ischia, ferito durante il combattimento, invece di mettersi in salvo, si fece portare in plancia per morire insieme al suo comandante Pietro De Cristofaro, nell’affondamento dell’unità.
    Era il 16 aprile 1941.
    Luca Balsofiore e il regio cacciatorpediniere Luca Tarigo
    Capitano del Genio Navale (D.M.), nato a Forio d’Ischia l’11 gennaio 1906.
    Dopo il diploma di Capitano Marittimo conseguito presso l’Istituto Nautico di Napoli, Luca Balsofiore fu ammesso al Corso Ufficiali di complemento all’Accademia Navale di Livorno, nel giugno 1928 fu nominato Sottotenente Direzione Macchine.
    Trattenuto in servizio a domanda, nel 1930 fu promosso Tenente e nel 1937 venne nominato Capitano, prestando successivamente servizio su unità della Squadra Navale presso la Scuola Specialisti di Venezia, all’Accademia Navale di Livorno, presso il Comando Militare Marittimo Autonomo dell’Alto Adriatico, ed infine a Navalgenio di Genova.
    Partecipò alle operazioni militari in Spagna stando imbarcato sull’avviso scorta Pegaso e nel luglio 1939 imbarco quale Direttore di macchina sul regio cacciatorpediniere Luca Tarigo con il quale, il 16 aprile 1941, partecipò alla missione di scorta convogli che vide l’unità aspramente impegnata contro 4 unità similari inglesi.
    Nell’aspro combattimento che ne seguì e che culminò con l’affondamento del Luca Tarigo e del cacciatorpediniere inglese Mohawk silurato dallo stesso Tarigo, Luca Balsofiore benché gravemente ferito ed accecato da un colpo al viso volle essere accompagnato in plancia comando accanto al suo Comandante il C.F. Pietro De Cristofaro, e con lui scomparì tra i flutti nell’affondamento dell’unità.

    “alla memoria”
    Direttore d Macchina di silurante in servizio di scorta ad importante convoglio, durante improvviso durissimo combattimento notturno contro forze nemiche soverchianti, disimpegnava i propri incarichi con perizia, serena noncuranza del pericolo e fredda determinazione.
    Colpita irrimediabilmente l’unità, ferito a morte egli stesso, non pago di dare alla Patria anche la vita, volle compiere ancora un atto di sublime attaccamento al dovere, quello che doveva suggellare la sua eroica esistenza di prode Ufficiale.
    Incapace di muoversi per le gravi ferite, accecato da un colpo al viso, con forza d’animo sovraumana, vincendo atroci sofferenze, si faceva accompagnare sulla plancia per riferire di persona al Comandante sulle condizioni dell’apparato motore ormai sconvolto dall’offesa avversaria e per morire al fianco del suo superiore.
    Scompariva quindi in mare con la Nave, lasciando mirabile esempio di stoico coraggio, di sublime abnegazione, di spirito combattivo e di assoluta dedizione al dovere, spinta oltre ogni limite” (Mediterraneo Centrale, 16 aprile 1941) R.CT. TARIGO

    Altre decorazioni:
    Croce di Guerra al Valor Militare sul campo (Mediterraneo Centrale, 10 giugno 1940).

    Regio cacciatorpediniere Luca Tarigo
    Storia
    Unità classificata come “Esploratore leggero”appartenente alla classe Alvise Da Mosto, fu varata nei cantieri Ansaldo di Genova il 9 dicembre 1928 e consegnata alla Regia Marina il 16.11.1929. La sigla era TA, la bandiera di combattimento fu donata dal Comune di Genova.
    Dal 1938 fu classificato come cacciatorpediniere.
    La sua attività, dopo aver partecipato ad una crociera atlantica nel 1930 in appoggio alla prima trasvolata Italia-Brasile, si svolse tutta nel Mediterraneo. La sua ultima missione prese il via dal porto di Napoli il 13 aprile del 1941 come capo scorta di un convoglio denominato, appunto. “Tarigo” al comando del Capitano di Fregata Pietro De Cristofaro e formato da 4 mercantili tedeschi (Adana, Arta, Aegina, Iserlhon) e 1 motonave italiana (Sabaudia) scortate dai cacciatorpediniere Lampo e Baleno.
    Nel golfo di Gabes il convoglio fu avvistato, a mezzo del radar, dai cacciatorpediniere inglesi Jervis, Nubian, Mohawk e Janus che lo sottoposero ad un inteso fuoco di cannoni.
    Il convoglio fu distrutto ma l’eroismo del Sottotenente Ettore Bisagno che, aiutato dal Sottocapo silurista Adriano Marchetti, riuscì a portare in fondo al mare anche il Ct. Mohawk.
    Gli ufficiali morti sul Tarigo, così come ricorda una lapide posta nella cappella dell’Accademia Navale di Livorno, furono:

    – De Cristofaro Pietro;
    – Miliotti Mauro;
    – Radaelli Dante;
    – Minguzzi Luigi;
    – Arioli Arnaldo;
    – Giustini Virgilio;
    – Balsofiore Luca;
    – Fantasia Espedito.

    Dati tecnici
    – dislocamento: 2.658 tonnellate a pieno carico;
    – dimensioni, in metri, le seguenti: . lunghezza 107,7 fuori tutta, 10,2 di larghezza e 4,2 di immersione;
    – apparato motore: 4 caldaie tipo Odero a tubi d’acqua e 2 turbine Parson che, sviluppavano una potenza di 50.000 HP;
    – velocità di 38 nodi;
    – armamento: 6 cannoni da 120/50 mm. in tre impianti binati; 2 mitraglie da 40/39mm a.a.; 4 mitraglie da 13,2 mm. a.a. in due impianti binati; 6 tubi lancia siluri da 533 mm. in due impianti trinati; sistemazione per la posa di campi minati;
    – equipaggio: 173 uomini di cui 9 ufficiali;
    – motto: “A voga arrancata, a spada tratta”.

    Espedito Giuseppe Fantasia, tenente del genio navale

    a cura Carlo Di Nitto (Presidente A.N.M.I. Gaeta)


    Disperso nell’affondamento del regio cacciatorpediniere Tarigo.
    
Mare Mediterraneo (Secche di Kerkenah – Tunisia), 16 aprile 1941.
    
(foto p.g.c. della Famiglia)


    Caro Ezio, per integrare eventualmente le tue pagine dedicate al “Tarigo” ti allego una fotografia inviatami qualche anno fa dalla famiglia Fantasia – Fronzuto. Raffigura alcuni degli Ufficiali del Tarigo ripresi con la loro “mascotte”. La fotografia, scattata durante una sosta a Palermo dell’Unità. In piedi da sinistra: il Cap. Luca BALSOFIORE, Direttore di Macchina, il T.V. CECCHI (sbarcato dal Tarigo poco prima dell’ultimo viaggio) e il Ten. Espedito FANTASIA, Vice Direttore di Macchina. In ginocchio da sinistra, con il cagnolino-mascotte: il S.T.V. Luigi MINGUZZI, il G.M. Domenico BALLA ed il S.T. Spartaco AMODIO.
    Tuo Carlo Di Nitto

    Capitano di fregata Pietro De Cristofaro
    Comandante napoletano, benché avesse una gamba amputata, riuscì ad affondare con i siluri il cacciatorpediniere inglese Mohawk, affondando con la sua nave (Regio cacciatorpediniere Tarigo) e il nemico sconfitto.
    Era il 16 aprile 1941 nel Canale di Sicilia.

    16.4.1941 – Le ultime ore Tarigo 
    di Alberto Fiaschi (per gentile concessione a www.lavocedelmarinaio.com) tratto dal libro “La straordinaria avventura del regio cacciatorpediniere Turbine” – DIRITTI RISERVATI DELL’AUTORE

    A seguito della caduta di Tobruk, il Turbine iniziò nuovamente a fare la spola tra i porti di Napoli, Palermo e Tripoli. Intanto, per disorientare la ricerca del nemico, si era cominciato a far percorrere ai convogli due rotte diverse. Una passava dallo Stretto di Messina ed a levante di Malta, l’altra dal canale di Sicilia e le secche di Kerkennah.
    La Pasqua del 1941 la trascorremmo in mare. Eravamo partiti da Tripoli il giorno 10 insieme al Saetta ed al Pegaso con destinazione Napoli e, quando giungemmo in vista dell’isola di Capri, il Comandante ordinò l’assemblea sul castello. Eravamo intorno a mezzogiorno; il mare calmissimo e la stupenda giornata rendevano la scena suggestiva e toccante, mentre tutti, tranne le vedette ed il personale di guardia, in assetto di guerra, ascoltavano le parole del Comandante che culminarono con la consueta recita della preghiera del marinaio. Poi ognuno tornò ordinatamente al proprio posto, mentre il pensiero di poter godere di alcuni giorni di relativa calma alleviava l’interminabile trascorrere di quelle poche ore che ci separavano dall’arrivo.
    Riuscimmo ad ormeggiare nel porto di Napoli nel tardo pomeriggio, mentre intanto si preparava a partire un altro convoglio.
    Verso le 21:30, infatti, cinque mercantili salparono alla volta di Tripoli per trasportare un contingente dell’Afrika Corps. Il convoglio, denominato “Tarigo” dall’unità capo scorta, era composto da quattro piccoli piroscafi tedeschi (Adana, Arta, Aegina, Iserlhon) e da una motonave italiana, il Sabaudia; le navi tedesche erano cariche di truppe, mentre il Sabaudia trasportava munizioni di fabbricazione tedesca; la scorta era composta dai Cacciatorpedinieri Lampo, Baleno e Tarigo.
    Quei pochi giorni di sosta a Napoli trascorsero assai velocemente, mentre intanto, dalle scarse informazioni trapelate, nessuno poteva immaginare quale tragedia si fosse effettivamente consumata proprio su quella stessa rotta che avremmo dovuto percorrere di lì a poco.
    Partimmo da Napoli nella tarda serata del 21 per scortare a Tripoli un convoglio formato dai piroscafi Giulia e Arcturus e dalle motonavi Leverkusen e Castellon. Come scorta, insieme a noi, c’erano i Cacciatorpedinieri Folgore, Strale e Saetta.
    Nessuno ci avvisò che, lo stesso 21 aprile, l’incrociatore Giovanni dalle Bande Nere era uscito in mare, insieme al Cadorna, allo Scirocco ed al Maestrale, per scortare a distanza il nostro convoglio, forse proprio per scongiurare un’altra tragedia come quella del Tarigo e della quale eravamo quasi completamente ignari.
    Nella notte ci fu ordinato di rifugiarci a Palermo dove giungemmo alle 08:30 del mattino dopo. Ripartimmo da Palermo alle 13:35 e la navigazione proseguì tranquilla fino a quando non giungemmo nei pressi di Marettimo, poco prima della mezzanotte, dove il convoglio venne attaccato da un sommergibile.
    Il Turbine si fermò nella zona per dare la caccia e riversò un gran numero di bombe nel punto dove presumibilmente doveva trovarsi l’unità nemica. Poi, visto che non si era ottenuto alcun risultato, dirigemmo a tutta velocità verso il convoglio che nel frattempo aveva proseguito lungo la rotta stabilita. Lo raggiungemmo dopo circa un’ora.
    Il 23 aprile 1941 avevamo ormai lasciato Pantelleria e la navigazione era proseguita abbastanza tranquilla. Ormai ci eravamo abituati ad avvistare le mine vaganti che, specialmente dopo il mare in tempesta, potevano incrociare la nostra rotta e tutto l’equipaggio scrutava con costante apprensione la superficie dell’acqua: evidentemente la sola vedetta a prora estrema non bastava a tranquillizzarci. Quel giorno, infatti, ne avevamo avvistate un gran numero, forse più del solito, e nel primo pomeriggio incontrammo anche un grande veliero. Per sicurezza fu deciso di abbordarlo, ma l’ispezione effettuata da una pattuglia improvvisata non riscontrò irregolarità e lo lasciammo andare. Poco dopo fu nuovamente segnalata la presenza di un sommergibile nemico, così la nave accostò bruscamente dirigendo a tutta forza verso il luogo di avvistamento: la caccia era iniziata! Le tramogge di poppa cominciarono a rilasciare le prime bombe, ma dovemmo subito prendere atto che non potevano esplodere a causa del basso fondale ed il sommergibile riuscì a fuggire; ci accorgemmo così che stavamo avvicinandoci alle secche di Kerkennah, situate a circa 200 chilometri da Tripoli.
    Verso le 16:30, furono avvistate le sagome di due navi arenate, una delle quali venne immediatamente identificata come il Cacciatorpediniere Lampo, l’altra era un piroscafo.
    Con grande angoscia dovemmo constatare che quelli erano i resti del convoglio che ci aveva appena preceduti, partito da Napoli proprio la sera del nostro arrivo. Poco più avanti, gli alberi di altri due piroscafi sporgevano dall’acqua. Mentre la nave, quasi fosse un segno di rispetto, aveva rallentato la sua corsa per disporsi in linea di fila, chi poteva farlo scrutava silenziosamente il mare con un nodo alla gola e le braccia puntate sulla battagliola; gli altri ancor più vigili, se mai fosse possibile, scrutavano ogni dove in attesa di un altro attacco.
    Ed ecco, ancora più in là, grazie al basso fondale ed alla straordinaria trasparenza del mare calmissimo, si vedeva chiaramente il Cacciatorpediniere Tarigo affondato. Circa 500 metri più avanti individuammo il relitto del Cacciatorpediniere inglese Mohawk, un grosso caccia della classe Tribal, di oltre 2000 tonnellate di dislocamento lungo 115 mt.
    Il destino ci aveva fatto passare in quelle acque qualche giorno più tardi e mai avremmo potuto immaginare di essere in leggero anticipo con un altro terribile appuntamento, perché se il nostro convoglio fosse passato di lì solo tre o quattro giorni dopo, avrebbe potuto incappare nell’agguato del micidiale sommergibile Upholder, che tanti danni provocò alle nostre navi.
    Il 21 aprile, infatti, l’Upholder era nuovamente salpato alla volta delle secche di Kerkennah e durante la navigazione il comandante Wanklyn aveva ricevuto l’ordine d’impedire il recupero di un mercantile tedesco ed un cacciatorpediniere italiano, “probabilmente arenatisi sulle secche nella notte tra il 15 ed il 16 aprile”. Si trattava ovviamente dell’Arta e del Lampo.
    Non ebbe la nostra stessa fortuna il piroscafo Antonietta Lauro, di 5428 tonnellate, che il 25 aprile fu attaccato dall’Upholder con un siluro lanciato da soli 500 metri di distanza. L’Antonietta Lauro era proprio la nave che aveva recuperato i superstiti del Tarigo: affondò 6 ore dopo.
    Proseguendo nella sua missione, l’Upholder arrivò in vista della motonave Arta all’alba del giorno 27, ma preferì effettuare una ricognizione della zona ed attendere l’oscurità prima di abbordare lo spettrale mercantile. Il Turbine era passato di lì appena tre giorni prima. Il mercantile tedesco, quasi completamente allagato, era carico di veicoli destinati all’Afrika Korps e l’equipaggio dell’Upholder ebbe la possibilità di far man bassa di mappe, documenti, armi leggere ecc. Dopo aver incendiato la nave si diresse subito verso il Lampo per silurarlo, ma nel manovrare s’incagliò nei bassi fondali. Quando riuscì a liberare lo scafo, forse spaventato dallo scampato pericolo, ma più verosimilmente in segno di rispetto per quella nave divenuta ormai un sacrario per tanti disgraziati marinai, il comandante Wanklyn decise di allontanarsi subito verso il mare aperto ed abbandonare il relitto del Lampo.
    Il Convoglio Tarigo fu forse il primo ad essere distrutto dalle forze navali inglesi, probabilmente a causa di un cambio di strategia del Comando Navale cui dovette adeguarsi anche il Turbine. Questo cambio di strategia avvenne a ridosso della famigerata “notte di Taranto”, l’11 novembre 1940, e fu quasi certamente originato dall’impatto psicologico di aver subito una così terribile disfatta con la massima facilità da parte del nemico; quando “tutti i fagiani erano nel nido”, come disse l’ammiraglio Cunningham. In quell’attacco ci furono 85 morti, di cui 55 civili, e 581 feriti; sette navi da guerra furono gravemente danneggiate, tra le quali le navi da battaglia Conte di Cavour, Littorio e Caio Duilio, e diverse navi mercantili.
    Il bollettino di guerra n. 158 aveva detto:
    “Il Quartier generale delle Forze Armate comunica in data 12 novembre:
    (…) Nelle prime ore della notte sul 12, aerei nemici hanno attaccato la base navale di Taranto. La difesa contraerea della piazza e delle navi alla fonda ha reagito vigorosamente. Solo un’unità è stata in modo grave colpita. Nessuna vittima (…)

    La responsabilità di quel convoglio partito da Napoli il 13, giorno di Pasqua, e di migliaia di uomini era stata affidata al Capitano di Fregata De Cristofaro, comandante del Tarigo; un signore napoletano dal carattere gentile, quasi timido, e dall’incedere imperfetto a seguito di un grave incidente aereo che gli aveva compromesso il senso dell’equilibrio. L’incidente era avvenuto il 27 agosto 1927 nelle acque di Fiume, mentre era a bordo come osservatore di un Savoia-Marchetti S.59 bis, idrovolante biplano della 188a Squadriglia R.M.. Il Comandante del cacciatorpediniere Lampo era il Capitano di Vascello Marano ed il Comandante Baleno era il Capitano di Vascello Arnaud. I due caccia avevano sostituito lo Strale e l’Euro originariamente assegnati alla missione.
    Quando il convoglio partì, l’Asse era già al corrente dell’arrivo di quattro nuovi cacciatorpedinieri a Malta e la sera dello stesso giorno, fu richiesto l’intervento del CAT (denominazione italiana per la Luftwaffe in Sicilia).
    Fino all’altezza dell’isola di Marettimo la navigazione era proseguita regolarmente ad una velocità media di circa 10 nodi, poi il tempo aveva cominciato a peggiorare mentre si alzava un forte vento di scirocco. Alcuni piroscafi e le unità leggere della scorta avevano cominciato a perdere contatto con i caccia a causa del mare agitato e della ridotta visibilità dovuta alla pioggia insistente. Il convoglio ormai sbandato fu ricomposto solo nella tarda mattinata del 15, quando ormai si erano perdute ore preziose che non avrebbero più consentito di rispettare il piano operativo, e proprio in quel giorno fu avvistato dalla ricognizione aerea inglese. Intorno alle 13, infatti, la scorta avvistò un ricognitore britannico e l’allarme fu immediatamente dato a Supermarina. L’aereo britannico seguì il convoglio per circa un’ora e, intorno alle 14, inviò una nuova comunicazione alla base che fu intercettata da Supermarina. Allora l’alto comando navale chiese immediata assistenza a Superaereo (l’alto comando dell’aeronautica) che ordinò l’immediato decollo di due SM 79; ma solamente uno riuscì ad alzarsi in volo e, alle 18:45, il comando navale fu informato che, a causa del maltempo, l’aereo era stato costretto a tornare alla base. Poiché la velocità del vento era stata stimata in oltre 80 km/h, il comando navale ritenne necessario un cambiamento di rotta ed ordinò al Tarigo di passare la boa n° 4 delle secche di Kerkennah per poi proseguire lungo la costa. Dopo due giorni di navigazione, alle 2 di notte del 16 aprile, la formazione transitava tra la boa n° 2 e la boa n° 3 delle secche di Kerkennah, mentre avrebbe dovuto transitare in quel tratto nelle ore diurne del giorno precedente per poter fruire della scorta e della ricognizione aerea. Quel ritardo aveva notevolmente favorito gli inglesi che preferivano scontri navali notturni a causa della loro preponderante superiorità tecnica, visto che tre dei quattro cacciatorpedinieri britannici che parteciparono all’azione erano dotati dei più recenti modelli di radar.
    I Cacciatorpedinieri britannici Jervis, Nubian, Mohawk e Janus erano usciti da Malta all’imbrunire del 15, calcolando che avrebbero potuto intercettare il convoglio nelle prime ore del 16. Mancando la ricognizione, infatti, nessuno avrebbe potuto sapere della presenza delle navi britanniche in quella zona. I cacciatorpedinieri inglesi giunsero nel punto stabilito con un certo anticipo e cominciarono ad incrociare spazzolando la zona con il radar, uno strumento che non solo non avevamo, ma nemmeno supponevamo che lo avessero gli inglesi (eppure lo scontro di Matapan, avvenuto pochi giorni prima non poteva lasciare dubbi). Poco prima delle due il convoglio apparve sullo schermo radar del Nubian e pochi minuti dopo anche il Jervis ne rilevò la presenza ad una distanza di circa 6 miglia. Le forze britanniche avevano ombreggiato il convoglio per più di 20 minuti e la posizione di tutte le navi era stata identificata accuratamente dal radar il cui uso sarebbe stato successivamente confermato anche dal resoconto del Nubian. Tutte la navi britanniche avevano acquisito i propri bersagli, ma non attaccarono; cominciarono solo a disporsi in coda al convoglio.
    Forse sapendo che la zona era minata, attesero invisibili che il convoglio si disponesse in linea di fila, manovrando in modo che le sagome dei loro bersagli si stagliassero all’orizzonte con la luna alle spalle. Per disporsi in linea di fila, il Tarigo e gli altri due caccia di scorta avrebbero dovuto necessariamente modificare la propria posizione e ridurre la velocità, aumentando così la vulnerabilità del convoglio proprio mentre si stava allungando. Grazie al radar i caccia britannici non correvano alcun rischio di perdere i loro bersagli e si dispiegarono per l’attacco in tutta tranquillità.
    Alle ore 02:20 dal Tarigo avvistarono una serie di vampe in coda alla formazione. Il convoglio era stato attaccato e non avrebbe più raggiunto la boa n° 4. Fu subito dato il segnale di posto di combattimento e, solo mentre l’equipaggio si preparava alla battaglia, si poté stabilire che si trattava di un attacco navale. Il primo obiettivo degli inglesi furono sicuramente i caccia di scorta. Il Lampo ed il Baleno, attaccati più da vicino e per primi, furono sommersi da una valanga di fuoco ancor prima di sapere dove si trovasse il nemico, mentre dal Trigo potevano solo scorgere le scie dei proiettili traccianti ed udire i primi rombi delle cannonate. Anche i mercantili vennero immediatamente colpiti. Il Sabaudia, carico di munizioni, esplose con un enorme boato pochi minuti dopo il primo colpo; due piroscafi tedeschi, l’Aegina ed l’Iserlhon, si incendiarono e cominciarono ad affondare; l’Arta e l’Adana, gravemente danneggiati, si diressero verso i bassi fondali.
    Ignorando che gli inglesi lo avrebbero comunque visto col radar, il comandante del Baleno, Capitano di Corvetta Giuseppe Arnaud, aveva già deciso il sacrificio della sua nave, cercando di interporsi fra gli inglesi ed il convoglio per poter occultare le cinque navi con una cortina fumogena. Aveva appena gridato l’ordine di fare fumo, quando una salva devastò la nave uccidendo tutti gli ufficiali di vascello tranne uno. Il Baleno s’incendiò subito e cominciò ad andare alla deriva; i cannoni avevano smesso di sparare.
    Nella motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare fu scritto che il Capitano di Corvetta Giuseppe Arnaud “colpito a morte al posto di comando, lacerato e torturato nella carne, ma non piegato nell’anima dritta e forte, impartiva ancora ordini per il combattimento, mentre intorno a lui tutto era in fiamme e in rovina. L’ufficiale che gli stava vicino, insieme al suo ultimo respiro raccoglieva le sue ultime parole: viva l’Italia! Così in morte come in vita egli era magnifico esempio delle più alte virtù militari e delle più belle tradizioni della gente di mare”.
    Il Lampo tentò di attaccare zigzagando, ma fu subito centrato da colpi tremendi che lo trasformarono in un rogo. Le esplosioni sbalzarono ovunque i corpi dei poveri marinai, alcuni furono orribilmente mutilati; le vampe, l’enorme calore e lo spostamento d’aria li avevano denudati, privandoli di qualsiasi peluria… poi le fiamme fecero il resto.
    Annientate due navi su tre a difesa del convoglio, la sorte delle navi mercantili era segnata: di certo con le mitragliere di bordo non avrebbero potuto opporsi ai micidiali cannoni inglesi. L’Arta, sebbene continuasse a galleggiare, era ormai un relitto carico di morti e tentò la via della secca.
    Mentre l’Adana e l’Aegina stavano affondando e la benzina del loro carico si riversava ovunque incendiata, trasformando la superficie della secca in un mare di fiamme, un caccia britannico scaricava un’ultima bordata da distanza ravvicinata contro l’Iserlohn che stentava ad andare a picco, provocando un’ecatombe tra i soldati tedeschi imbarcati.
    Intanto sul Tarigo il Comandante De Cristofaro, resosi subito conto della tragedia in atto, non aveva avuto esitazioni, dimostrando un ardimento che certo non si sarebbe potuto ipotizzare osservando i suoi modi garbati. Il caccia eseguì una violenta accostata per invertire la rotta e precipitarsi in coda al convoglio.
    Timone a sinistra, macchine avanti tutta.
    Nel buio della notte per De Cristofaro gli unici riferimenti erano le vampe dei cannoni e le scie dei traccianti, mentre gli inglesi con il radar potevano vedere tutto; ed infatti l’accostata non era ancora finita che i primi tremendi colpi investirono il Tarigo provocando subito gravi avarie. Il Comandante De Cristofaro ebbe la gamba destra asportata; il timone non rispondeva più, la centrale di tiro era inutilizzabile, lo scafo presentava ampi squarci e molte armi erano già fuori uso. Le salve successive distrussero il complesso lanciasiluri di centro ed il complesso d’artiglieria prodiero, già ridotto ad una sola canna; incendiarono la plancia, fecero scoppiare le riservette, distrussero la caldaia n. 3. La nave si fermò.
    Il Direttore di macchina, Cap. G.N. Luca Balsofiore, come si leggerà nella motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferitagli alla memoria, gravemente ferito ed accecato da un colpo al viso, si fece condurre dal Comandante, forse per dirgli che sulle macchine non si poteva più contare, forse per morirgli accanto.
    Intanto il Sottotenente di Vascello Bisagno si era subito accorto che la nave che si stava avvicinando era un incrociatore nemico. Nel profilo che si stagliava nel buio della notte, infatti, ebbe la possibilità di scorgere una delle torri, quindi non poteva essere una delle nostre navi. Bisagno era un ufficiale torpediniere, cioè addetto ai siluri, così, senza esitare, ordinò subito di preparare i tubi di lancio dell’unico complesso trinato rimasto integro. Introdusse velocemente i dati stimati nel teleinclinometro, poi dette l’ordine:
    – Fuori uno! Fuori due! Fuori tre!
    Ma l’angolo di brandeggio non arrivò al complesso lanciasiluri: non poteva sapere che le cannonate avevano ormai interrotto i collegamenti impedendo anche il lancio dei siluri. Non erano passati che pochi secondi e l’incrociatore era già fuori tiro, accompagnato dalla delusione e dal dolore dei marinai che l’osservavano.
    Il Tarigo insisteva comunque nella manovra d’attacco continuando il fuoco con il complesso di poppa. L’interno della plancia era completamente in rovina. Seduto per terra, appoggiato a una paratia, il Comandante si era fasciato il moncherino della gamba destra con un camisaccio, facendosi stringere un laccio per bloccare la copiosa emorragia, e continuava ad impartire ordini, ma i telegrafi di macchina erano distrutti e la ruota del timone girava a vuoto, perché le trasmissioni erano troncate. Allora alcuni marinai, sebbene feriti e tumefatti, si precipitarono ad azionare la ruota di governo di poppa, ma la nave colpita dappertutto, imbarcava acqua e cominciò a sbandare. I complessi d’artiglieria erano ormai tutti fuori uso. Il Sottocapo silurista Marchetti, ferito e coperto di sangue, aveva faticosamente raggiunto la poppa risparmiata dagli incendi dove si era radunato anche un piccolo gruppo di superstiti e non aveva mai smesso di osservare la sagoma di una nave che si profilava minacciosa poco distante.
    – Quello ci vuole colare a picco! Esclamò, indicando il cacciatorpediniere britannico a tratti illuminato dalle vampe dei propri cannoni.
    Si trattava dell’HMS Mohawk che, in realtà, sfilando a mezzo chilometro dal nostro caccia, stava attaccando una nave trasporto tedesca.
    Intanto Ettore Bisagno, ferito gravemente, non si era ancora arreso. Nonostante due grosse schegge gli stessero dilaniando una coscia, salì sul complesso dei tubi di lancio rimasto ancora integro per effettuare il puntamento e togliere le sicurezze. Il silurista Marchetti lo vide e corse ad aiutarlo insieme agli altri. Sapeva che non c’era corrente e che avrebbero dovuto brandeggiare a mano il complesso; impartì le opportune disposizioni ai compagni; alcuni si appoggiarono con forza ai tubi di lancio per agevolarne il brandeggio, mentre Bisagno, seduto sul sedile di puntamento, cercava d’indovinare la mira, perché il sistema di puntamento era inservibile. Bisagno sperava, tutti speravano, e sussurrò ancora un volta quell’ordine:
    – Fuori uno! Fuori due! Fuori tre!
    La deflagrazione delle cariche di lancio appena si udì nel tumulto della battaglia; i siluri si tuffarono in mare senza incertezze in direzione della nave nemica e forse sul Mohawk li avevano già dati per spacciati, perché non accennarono a manovrare per evitarli e continuarono a sparare sul mercantile tedesco provocando enormi danni ed incendi.
    Il primo siluro sfiorò l’unità nemica senza colpirla, ma il secondo colpì la poppa del cacciatorpediniere britannico con un’esplosione devastante impedendogli di manovrare; gli addetti al lanciabombe di profondità ed il reparto di munizionamento furono tutti uccisi; la nave si fermò. Il terzo siluro la colpì a babordo, tra i locali caldaia n. 2 e n.3; la caldaia n. 3 esplose e lo scoppio provocò gravissime ustioni anche al personale sul ponte, perché si era aperta una crepa nella mezzeria del ponte superiore che fece precipitare i tubi lanciasiluri nella sala macchine facendola esplodere. L’HMS Mohawk cominciò subito ad affondare, ma, quando la poppa toccò il fondo, la prua continuava ancora a galleggiare.
    Mentre il Nubian raccoglieva i sopravvissuti, incredibilmente fu ordinato all’HMS Janus di affondare il cacciatorpediniere agonizzante e dal Janus eseguirono l’ordine sparando sulla prua del Mohawk con i cannoni da 4,7 pollici. Il Mohawk affondò in posizione 34 ° 56’N, 11 ° 42’E.
    Forse dalla poppa del Tarigo non si vide dove fossero finiti i siluri, ma dalla plancia il Comandante De Cristofaro, ormai allo stremo delle forze, con il moncherino legato alla meglio, spossato e dilaniato dalle ferite, poté assistere alla fine dell’unità nemica. Poi una nuova scarica di colpi investì il cacciatorpediniere già prossimo alla fine. S’incendiò la nafta nei depositi, cominciarono ad esplodere le munizioni. Nonostante l’incontenibile desiderio di salvarsi, prima di mettere in mare la zattera i superstiti si misero sull’attenti per un estremo saluto, mentre il Comandante ordinava l’abbandono nave. Il Tarigo sbandava sempre più. Stava per affondare, ma restava ancora qualcosa da fare. Sfidando il fuoco che aveva invaso la parte centrale della coperta, il più giovane degli ufficiali di bordo riuscì a raggiungere il cofanetto in cui era custodita la Bandiera di Combattimento: era il guardiamarina Arnaldo Arioli. Come si leggerà nella motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferitagli alla memoria, “quando la nave, resa un groviglio informe e in fiamme, stava per inabissarsi, egli con atto di epica bellezza, in un impeto di passione e ardore, con rischio grandissimo scendeva nel quadrato Ufficiali per mettere in salvo la bandiera di combattimento, che si avvolgeva intorno al petto nel supremo intento di riportarla in patria o di morire con essa. E come eroe delle antiche leggende, egli, il più giovane e il più puro fra gli ufficiali di bordo scompariva in mare, stringendosi sul cuore il pegno altissimo del suo entusiasmo e della sua fede”.
    I feriti vennero aiutati ad abbandonare la nave, qualcuno si gettò nell’acqua gelida. Così come vuole la tradizione, gli ultimi a lasciare il caccia furono i più anziani fra gli Ufficiali rimasti, il S.T.V. Ettore Bisagno, il S.T. Spartaco Amodio ed il G.M. Domenico Balla. Il Sottocapo silurista Marchetti non c’era, andò a fondo con la nave; Balla fu l’unico che sopravvisse alla guerra. Mentre il cacciatorpediniere di De Cristofaro s’inabissava col suo Comandante, a breve distanza un proiettore inglese frugava nelle onde; era l’HMS Nubian che stava soccorrendo i superstiti del Mohawk: 43 uomini dell’equipaggio morirono o furono dati per dispersi. Poi la formazione britannica s’allontanò. Non osò finire né il Baleno né il Lampo e nemmeno l’Arta incendiati. Alle ore 03.00 il R. CT. Luca Tarigo compì il suo destino affondando 500 metri a sud della boa n° 3 delle secche di Kerkennah. Erano morti più di 1000 uomini, qualcuno disse 1800; 1248 soldati tedeschi furono salvati dalle navi italiane.
    L’affondamento del Mohawk da parte del Janus potrebbe essere stato giustificato anche dalla presenza a bordo di numerosi documenti e dei cifrari inglesi, di sicuro interesse per la nostra marina. Risulta infatti che, tra il 27 aprile ed il 7 Maggio, forze italiane comandate dal Capitano di Corvetta Eliseo Porta abbiano recuperato documenti di una certa importanza dal Mohawk e che questi tentativi di recupero siano stati ripetuti anche il 22 e 23 giugno. Secondo alcuni autori, le mappe dei campi minati rinvenute a bordo del Mohawk, furono essenziali al successo dell’azione della X.ma MAS contro Alessandria.
    I superstiti del Tarigo rimasero sulla zattera fino a tarda sera. Tra loro c’era anche il Sottotenente di Vascello Bisagno che, per quell’azione, fu decorato con Medaglia d’Argento al Valore Militare. (Eccezionale uomo di grande coraggio, gli sarebbe stata conferita anche la Medaglia d’Oro al Valor Militare quando, per le tremende ferite riportate nel corso di un’ardita azione al comando del suo MAS, morì il 21 giugno 1942). Molti erano scomparsi dopo l’affondamento ed altri morivano per le ferite o per il freddo. Poi quello che restava del gruppo dei sopravvissuti venne raccolto da una nostra nave mercantile, l’Antonietta Lauro, che più tardi li trasbordò sulla nave ospedale Arno e, solo sull’Arno, gli uomini del Tarigo seppero che il Mohawk era affondato. La scarsità dei fondali e la trasparenza dell’acqua avevano consentito alla ricognizione aerea di scorgere in fondo al mare, a mezzo chilometro dal relitto del Tarigo, il relitto del cacciatorpediniere inglese.
    Il mattino del 17, il Guardiamarina osservatore Alfonso Di Nitto, a bordo del suo ricognitore aveva annotato sul diario:
    “17 aprile – Giovedì (1941)
    Sciacca – Tripoli – Sciacca – Tripoli
    Sveglia ore 5.30 –
    In volo dalle 6h.30m. alle 10h.35m. da Sciacca a Tripoli –
    App. n° 195 1° pilota Cap. Paris –
    Avvistamenti:
    – Alle 8.20 2 cc.tt. (Lampo e Baleno) sulle secche di Kerkenah, un piroscafo affiancato da nave ospedale ed un piroscafo affondato con sola poppa emersa –
    – Alle 8.45 2 battelli di salvataggio con marinai a 10 mg. per 145 da Kerkenah –
    – Alle 8h.50m. 3 cc.tt. e 3 torp. con rotta N.
    – Alle 9h.20 una lancia di salv. con marinai

    – Alle 10.10 idro tedesco con rotta N
    In volo dalle 13 alle 16.25 da Tripoli a Sciacca –
    App. n° 195 Cap. Paris –
    Avvistamenti:
    – Alle ore 14h. nei pressi di Kerkenah 3 cc.tt. e 3 torp. (quelle della mattina), due piroscafi francesi e due navi nazionali ospedale -”

    I superstiti del Tarigo erano scampati alla morte ancora una volta, perché l’Antonietta Lauro fu affondata in quelle stesse acque dal sommergibile Upholder il 25 aprile.
    Questa la motivazione della medaglia d’Oro al Valor Militare conferita al Comandante De Cristofaro:
    “Ufficiale superiore di altissimo valore. Comandante di silurante in servizio di scorta ad un importante convoglio in acque insidiate dal nemico, prendeva tutte le disposizioni atte a garantire la sicurezza del convoglio affidatogli, assaliti la scorta e il convoglio improvvisamente da soverchianti forze navali nemiche la notte del 16 Aprile 1941, con serena e consapevole audacia conduceva immediatamente all’attacco la nave di suo comando. Crivellata la sua nave da colpi nemici, colpito egli stesso da una granata che gli asportava una gamba, rifiutava di essere trasportato in luogo più ridossato e solo concedeva che gli venisse legato il troncone dell’arto, non per vivere ma per continuare a combattere. Così egli rimaneva fino all’ultimo, fermo al suo posto di dovere e di onore e nella notte buia, illuminata a tratti dalle vampe delle granate e degli incendi, i suoi occhi che si spegnevano avevano ancora la visione di un’unità nemica che sprofondava nel mare, colpita dall’offesa della sua nave. E con questa egli volle inabissarsi, mentre i superstiti, riuniti a poppa lanciavano al nemico il loro grido purissimo di fede. Esempio sublime di indomito spirito guerriero, di coraggio eroico, di virtù di capo, di dedizione alla Patria oltre ogni ostacolo e oltre la vita”. (Mediterraneo Centrale, 16 Aprile 1941).

    Il Bollettino di Guerra nr. 316 del 18 aprile 1941 – XIX diceva:
    “Nella notte del 17, un nostro convoglio che trasportava materiali in Africa settentrionale, è stato attaccato da un forte reparto di incrociatori e cacciatorpediniere nemici. Nello scontro che ne è derivato, il cacciatorpediniere inglese Mohawk è stato affondato ed altri probabilmente danneggiati. Delle nostre tre siluranti di scorta, che hanno strenuamente difeso il convoglio, una è affondata e le altre due sono state danneggiate. Due piroscafi sono stati affondati e gli altri danneggiati. Gran parte degli equipaggi è stata salvata.(…)”

    Non ci eravamo ancora ripresi dalla tremenda visione dei poveri resti del convoglio che ci aveva preceduto, quando verso le 18 potemmo tirare un sospiro di sollievo nello scorgere gli incrociatori Giovanni dalle Bande Nere e Cadorna ed i Cacciatorpedinieri Scirocco e Maestrale che, evidentemente, ci stavano proteggendo da lontano. Le unità a protezione del convoglio furono nuovamente avvistate a metà mattina del giorno dopo, poi scomparvero alla nostra vista.

    Dello stesso autore sul blog:
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2015/06/la-straordinaria-vita-di-rodolfo-fiaschi-e-lavventura-sul-regio-cacciatorpediniere-turbine/

    La straordinaria avventura del regio cacciatorpediniere Turbine (Alberto Fiaschi)

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    Giovanni “Siro” Buzzetti (Chiavenna, 16.4.1891 – 8.9.1947)

    di Giorgio Gianoncelli

    (Chiavenna, 16.4.1891 – 8.9.1947)

    “’L Garibaldìn del mare”

    Giovanni Siro Buzzetti nasce a Chiavenna il 16 aprile 1891, da Guglielmo e Giovanna Buzzetti.
    Il 20 giugno 1911 il giovane chiavennasco si arruola nella Regia Marina per la ferma di 4 anni, in seguito è trattenuto alle armi per ragioni di guerra con decorrenza 20 giugno 1915 e lascia il servizio definitivo il 1° aprile 1919, otto anni dopo l’arruolamento.
    L’impatto del chiavennasco con la Marina da guerra non è dei più… morbidi; nel giro di soli tre mesi si trova a combattere sulla spiaggia di Tripoli come un “Marines” senza nemmeno il necessario allenamento al combattimento terrestre. Arruolato il mese di giugno e imbarcato sulla nave scuola “Sicilia” per il corso ordinario di cannoniere scelto, il mese di ottobre l’Allievo Cannoniere di bordo si trova nella mischia dei combattimenti a terra con un vecchio fucile modello ’91.
    L’anno 1911 è il periodo in cui scoppia la crisi d’interesse politico tra l’Italia e la Turchia per il possesso della Libia, possesso legittimato dal Governo italiano in virtù di una penetrazione pacifica iniziata fin dai primi anni del 1900 con impieghi di capitali nell’agricoltura, nelle attività di servizio, nelle missioni con le scuole e tutto quello che poteva rendere il territorio libico per i bisogni nazionali, mentre la Turchia è presente in quel territorio solamente per sfruttare lo sfruttabile, senza iniziative economiche e sociali.
    Ma già allora, come adesso, l’opposizione politica con la stampa nazionale sono sempre ostili quando si prendono decisioni importanti, intralciano e ritardano le operazioni e quando c’è il nulla osta l’iniziativa è già compromessa dall’intervento di altre potenze militari, che gridano allo scandalo per essere poi loro le scandalose.

    Sono questi anche gli anni della Triplice Alleanza (Italia, Austria, Germania 1882 – 1915), ma ognuno fa per sé e le potenze militari d’Europa: Austria, Francia, Germania, Inghilterra e Russia in particolare, con altri Stati minori, sono pronte ad invadere il territorio libico senza crearsi tanti problemi… morali come sempre capita agli italiani. Quando la decisione politica è presa, l’Italia si trova sistematicamente con il Regio Esercito impreparato per affrontare concrete campagne militari in terra straniera, allora è la Regia Marina con i suoi uomini che, almeno inizialmente, deve sopperire alle carenze di quell’Arma che dovrebbe sempre essere pronta per ogni evenienza.
    Il giorno 29 settembre 1911 il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti e il Ministro degli Esteri Antonio Di Sangiuliano, con l’approvazione del Re, trasmettono al Governo turco “l’ultimatum” per lasciare libero il territorio libico.
    La Flotta navale italiana è pronta a muovere verso la sponda tripolina e la sera del 3 ottobre 1911, composta da oltre 100 unità al comando dell’Ammiraglio Augusto Aubry, divisa in tre squadre, assegnate all’Ammiraglio di squadra Luigi Faravelli, al Vice Ammiraglio Paolo Tahon di Revel con la squadra siluranti assegnata al Duca degli Abruzzi, è dispiegata davanti alla costa libica pronta per un’azione di forza contro le fortezze organizzate dai turchi e la flotta della Mezzaluna disseminata tra l’Egeo e il Mar Rosso.
    Sul gruppo navi Scuola che comprende la corazzata “Sicilia”, gli Allievi in tenuta di lavoro, armati con un semplice fucile ’91 a baionetta innestata, con a tracolla un tascapane pieno di munizioni sono pronti a scendere a terra per conquistare le oasi della Libia.

    Il mattino del giorno 4 un reparto di 400 uomini protetto dai bombardamenti delle navi sbarca per una prima testa di ponte sulla spiaggia, il mattino seguente due battaglioni composti di 1.800 uomini e tra questi gli Allievi della Scuola Navale, al comando del Capitano di Vascello Umberto Cagni, invadono la spiaggia e marciano sulla città di Tripoli, dove arrivano alle ore 16,00 senza incontrare molta resistenza e si attestano alla periferia della città.
    Tra i 1.800 uomini in marcia verso la Tripolitania c’è il giovane chiavennasco Siro Buzzetti che, dal tono dei suoi scritti ai genitori, pare che non sia troppo entusiasta della sua esperienza da marinaio. Non ha torto, perché, forse, si aspettava qualche cosa di diverso e meno traumatizzante che trovarsi con un fucile in braccio senza avere la coscienza preparata alla …mattanza, pur consapevole di essere un soldato. In quella circostanza i Marinai italiani, come sempre, svolgono con decisione il compito assegnato tanto da guadagnarsi il titolo di “Garibaldini del mare” e questi marinai, sono in massima parte i giovani allievi delle navi Scuola.


    Al termine delle prime operazioni militari, la divisione navi Scuola rientra in Italia, sostituita dal primo corpo di spedizione dell’Esercito composto di 35.000 uomini, saliti in seguito a 100.000 e il buon Siro scrive una lettera ai genitori con la quale esprime le sue impressioni e lo stato d’animo dal momento della partenza fino ad operazione conclusa.

    Siro e Anna, sposi il 22 ottobre 1922

    Priolo Siracusa, ottobre 1911

    Carissimi tutti,
    ormai privo d’ogni speranza di potermela scapolare dal piombo turco pure il buon Dio mi volle dare la grazia di poter rimpatriare dai mari tripolini dopo il bombardamento dei forti, della città, ecc. ecc.
    Vi dirò brevemente quanto mi accadde: D’Augusta si partì di nottetempo, tutto in segreto: all’alba già fummo attaccati da varie torpediniere turche le quali però grazie a Dio, ed ai nostri poderosi cannoni, le seppimo mettere in fuga, con vari danni alle torpediniere stesse, ed ai loro equipaggi: a bordo non abbiamo avuto disgrazie alcune: giunti a Tripoli eravamo già pronti all’attacco; e pure a morire rassegnati se ciò ci toccava. Ordinato il fuoco subito si cominciò: i turchi pure risposero. A bordo più nessuno ardiva parlare, solo il comandante degli ufficiali si s’udiva: io ve lo potete immaginare in quale stato d’animo mi trovavo; eppure fiducioso nel buon Dio, ed ai nostri cari defunti, non tremavo, e collo sguardo sempre rivolto sul nemico: quale fu poi la nostra gioia allorquando si vedevano i proiettili lanciati dai nemici alzare colonne d’acqua nel mare e rimbalzare sull’onda come tanti pesciolini allegri: i loro cannoni non raggiungevano le nostre navi. Da parte nostra invece non un colpo andava fallito, tutto mandava per aria n quando i turchi furono costretti ad alzare bandiera bianca.
    Avanti sbarcare, ed allineati in coperta, il comandante Cagni Ci rivolse le seguenti parole: “marinai: ora sbarchiamo, l’impresa è ardua, noi facciamo un colpo disperato, e difficilmente torneremo a bordo: votate la vostra vita alla Patria: raccomando rispetto agli inermi, alle donne, ed alla Proprietà, e quelli che dovessero venir meno, fucilazione immediata”. Un formidabile grido, viva l’Italia! Eruppe dai nostri petti, subito si sbarcò, senza gravi difficoltà… e si presero i forti; ciò che vi era per terra non ve lo racconto; vi potete immaginare qual macello di carne umana.
    Per ora non ho altro a dirvi, e questa volta debbo ringraziare Colui che tutto può d’essere stato salvato per miracolo.
    Aff.mo v. Siro

    Regia nave “Sicilia”
    Nave da guerra di I classe a cintura e ridotto corazzato
    Costruita nell’Arsenale di Venezia e varata nel 1891.
    Lunghezza 122 m Larghezza 23,44 m – Dislocamento 13.298 t Armamento:
    4 cannoni da 343 mm disposti a barbetta a coppie su piattaforma girevole. 8 cannoni da 152 mm a caricamento rapido – 16 da 120 mm
    27 cannoni a tiro rapido di piccolo calibro
    4 lanciasiluri laterali 1 a poppa.

    Terminata la guerra, pochi mesi prima delle festività natalizie e di ne anno, le navi rientrano ai loro porti d’assegnazione e, come di norma, segue la prevista licenza ordinaria di fine missione; questo è previsto anche per gli Allievi delle Scuole e Siro per le festività è sulle sponde della Mera a tonificarsi con la gelida temperatura della Valle di Chiavenna.
    Il giovane marinaio deve affrontare un lungo viaggio che dura almeno 24 ore, ma con il cuore che pulsa d’emozione per il piacere di rivedere genitori, parenti e amici dopo il pericolo corso oltremare, non pensa alla sorpresa che lo accoglie all’uscita dalla stazione ferroviaria di Chiavenna.
    Ultimo strido di freni, ultimo sbuffo di vapore, s’aprono le porte delle vetture e dal marciapiede della stazione, echeggia l’Inno di Garibaldi, in onore al “Garibaldìn del mare” Giovanni Buzzetti chiamato Siro, chiavennasco di… lungo corso.
    “Ricevuto al suo arrivo con la Banda musicale della città di Chiavenna, con tanto di onori dal Sindaco con il Consiglio comunale e una moltitudine di gente d’ogni ceto e condizione, il giovane marinaio dopo il primo momento di naturale sorpresa, rinfrancato dalla presenza del padre e altri conoscenti, s’immerge nel primo bagno di folla nel vivo patriottismo garibaldino della popolazione di Chiavenna.”1

    La città di Chiavenna, nei giorni che precedono le feste natalizie e di ne anno, continua a tributare al giovane marinaio stima e onori.
    Il Consiglio Comunale riunito il 21 dicembre esprime a Guglielmo Buzzetti, padre dell’ “Eroe Garibaldìn del mare” le sue congratulazioni e la sera del 27 dicembre 1912 il marinaio chiavennasco è ospite d’onore all’Hotel Helvethia Nazionale ad un convivio promosso dalle massime autorità cittadine cui partecipano oltre 200 persone tra amici comuni, esponenti delle arti, del lavoro e della cultura locale.
    Fra tanti ospiti il massimo Poeta Cantore delle Alpi Giovanni Bertacchi, che nel suo discorso, dice: “Il cuore di Chiavenna, aperto all’amore della grande Patria Comune, nel nome di questo suo prode figlio Siro Buzzetti, marinaio d’Italia sulle acque di Libia, saluta tutti i fratelli che dietro lo squillo del dovere, dai monti, dai piani, dai lidi, trassero ai nuovi cimenti, sulla terra lautante.”

    Parlano un po’ tutti e tutti con discorsi a sfondo patriottico, tra tanti il sig. Orsi del Circolo di Ritrovo Serale che termina; “… e poiché era necessario, ti sei quadruplicato, centuplicato, col correre da un punto all’altro delle posizioni conquistate, e il nemico non potè mai capire quanti fossero i 1500 marinai sbarcati dal Sicilia.”

    Il grande banchetto si conclude con il brindisi guidato dal dr. Aldo Mazzoleni, medico e Poeta che declama:

    “Ed or brindiamo amici / alle sembianze care / brindiamo al nostro Siro / Garibaldìn del mare!”.

    Sono tempi in cui i sentimenti di Patria sono forti, il Risorgimento, non ancora compiutamente concluso, è molto presente nel pensiero degli uomini, e la comunità di Chiavenna è la prima e maggiormente sensibile fra tutta la comunità della provincia ad esprimere sentimenti di alto attaccamento alle gesta mazziniane e di Giuseppe Garibaldi, pertanto chi dà un minimo di altruismo in vari modi per la Patria è stimato e ammirato, se poi aggiungiamo il fatto che il “Garibaldìn del mare” è il primo soldato della valle del Mera ad indossare l’uniforme della giovane Regia Marina unitaria, fatto inconsueto nelle valli alpine, il rilievo popolare sale di tono e la sola presenza di Giovanni Bertacchi ai festeggiamenti, notoriamente contrario a quella guerra e alle guerre, dimostra che il sentimento di riconoscenza verso l’uomo supera quello dei sistemi; a Giovanni Siro Buzzetti detto “‘L Garibaldìn del mare” è capitata così!
    Siro Buzzetti al termine della ferma, che scade il 20 giugno 1915, per ragioni di guerra, iniziata da appena un mese, è trattenuto alle armi. Essere trattenuto alle armi d’autorità significa che il Buzzetti aveva rinunciato al proseguimento della carriera militare, altrimenti avrebbe partecipato ai corsi di avanzamento nel grado militare per entrare poi in Servizio Permanente Effettivo.
    Il cannoniere scelto partecipa alla Grande Guerra imbarcato su Nave “Porto di Suez” che durante il conflitto è colpita da un siluro austriaco ed affonda con il conseguente naufragio del personale; Siro è tra questi e si salva. Alla ne della guerra è congedato in data 18 agosto 1920.
    A suo onore ci sono 2 anni 2 mesi e 18 giorni di navigazione in pace e 4 anni e 6 mesi di navigazione in guerra, per un totale di 6 anni, 8 mesi e 18 giorni d’imbarco, alcuni giorni di battaglia da… Marines e il rimanente in vari servizi a terra, con una semplice medaglia per la campagna Italo – Turca, una croce al merito per la Grande Guerra, un naufragio ma… con il titolo di “Garibaldìn del Mare” che vale tutte le medaglie del mondo.
    Rientrato in famiglia Giovanni Siro si trasferisce nella città di Sondrio per aiutare il padre Guglielmo a gestire una primaria drogheria nella più importante via commerciale della città (via Dante Alighieri). Per tutto il resto della sua vita non lascerà il negozio.
    I successivi anni ruggenti del nascente regime fascista non scomodano i sentimenti pacati e antiguerreschi di Siro, lavora con serenità a fianco del padre e pensa al matrimonio che si realizza il giorno in cui la pletora di fanatici guerrafondai finge di marciare su Roma (22 ottobre 1922) con la signorina Anna Sperlocchi che porta in viaggio di nozze a Genova in visita alla Madonna della Guardia, alla quale aveva fatto voto di portare la moglie in cambio del salvataggio dal naufragio.
    Sciolto il voto Siro ritorna serenamente al negozio del padre, continua l’attività dopo la morte del genitore con l’aiuto di un proprio figlio fino al giorno 8 settembre 1947 in cui lascia la vita terrena a soli 56 anni per navigare sulle rotte del cielo nella serenità dei suoi miti sentimenti.
    Il comportamento del primo marinaio della Valle di Chiavenna, terzo della provincia, onorato dal titolo di “Garibaldino del Mare”, dopo aver lasciato la carriera militare la dice lunga sul carattere d’uomo: mite, contemplativo, riflessivo e religioso.

    1 L’eco della Val Chiavenna

    Particolare della corazzata “Italia” costruita nel Regio cantiere di Castellammare di Stabia dal luglio 1876 ed entrata in servizio il 16 ottobre 1885. Armata con quattro cannoni da 481mm disposti a “barbetta”. Nel 1896 divenne nave scuola cannonieri, poi nave scuola Torpedinieri. Radiata dal naviglio militare nell’anno1914.

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    15.4.1941, impostazione del DR 313

    di Carlo Di Nitto

    Qualche anno fa fui contattato dal signor Alvaro Bordoni che da giovane aveva navigato come marinaio “Radiotelegrafista segnalatore” sul Dragamine 313 (ex RD 313), nel periodo in cui mio padre Vincenzo (1) ne fu  l’ufficiale in seconda.  Desiderava averne notizie e dovetti dargli quella peggiore: che non era più con noi.
    Me ne parlò con affetto e nostalgia, come di un fratello maggiore, presentandomi di lui un nuovo, inedito “ritratto” che mi confermava ancora una volta le sue doti umane e marinare.
    Il buon Alvaro aveva inoltre qualcosa da farmi vedere. Poco in verità perché dopo più di sessant’anni molto era andato smarrito ma ben volentieri me ne inviò copia:

      • Una sua foto da giovane marinaio;
      • Una foto a poppa  (Alvaro è fotografato a sinistra)
      • Fotocopia del tesserino di accesso a bordo firmato da mio padre;
      • Il Dragamine 313 (*) vedi note tecniche;
      • Fotocopie di alcune pagine del suo diario, che trascrivo, riferite ad una forte tempesta incontrata dall’unità.

    Dal Diario di Alvaro Bordoni
    24 novembre 1948
    13.05 – Trav. C. Vieste
    13.50 – Trav. Torre Guainai
    15.00 – Trav. Rodi Gargano
    16.00 – Trav. Colorissa
    17.30 – Trav. P. del Diavolo (Isole Tremiti)
    19.00 – Trav. Termoli (approssimativo)
    23.00 – Trav. Ortona a Mare. Si mettono le macchine a ½ forza causa mare grosso da N – NE

    25 novembre 1948
    Dalle 23 alle 7.30 alla cappa davanti Ortona.
    Questa qui è stata la notte più brutta che ho passato in dieci mesi che navigo a bordo di questa unità.
    Delle montagne d’acqua ci sbattevano di fianco buttandoci in aria e facendoci fortemente sbandare come fuscelli. Io ho confessato al Comandante che avevo paura; lui mi ha rassicurato, ma io ad ogni sbandata tremavo e certo sono sicuro che non ero il solo.
    Si è rotta parecchia roba, bicchieri, lampadina della radio, ventilatore, ecc. L’acqua è entrata perfino nel locale macchine. Molta gente ha raccato, ed io mi meraviglio come mai non abbia fatto lo stesso, ma forse la paura è stata più forte del mal di mare. Quasi tutte le sette ore e buona parte della navigazione sono stato nella cabina radio con la testa abbassata.
    Non avevamo nessun porto vicino ove potevamo andare; Ortona e Pescara sono bassi fondali, tornare indietro era troppo lontano, proseguire non si poteva; il porto più vicino era Ancona a parecchie ore di navigazione; la radio era scassata ed in caso di bisogno non si poteva chiamare nessuno; l’unica era di aspettare il giorno e tentare di dar fondo ad Ortona.
    7.30 – Fattosi giorno si smette di stare alla cappa e si tenta di entrare nel porto di Ortona a Mare; dopo pochi minuti nell’interno di essa la nave si mette in rotta per Ancona mentre il mare comincia a migliorare.
    9.20 – Il mare si è abbastanza calmato e si è al traverso della Terra di Silvi.
    13.05 – Trav. S. Benedetto del Tronto
    14.00 – Trav. Faro di Pedaso
    16.20 – Trav. S. Loreto
    19.00 – Si arriva ad Ancona  e si dà fondo. Vado a terra…
    Da allora non ho più ricevuto comunicazioni dal caro sig. Alvaro. Oggi è un giovanotto quasi novantaduenne. Gli dedico questa paginetta ringraziandolo per la sua testimonianza  e, sperando di riaverne presto notizie, mi auguro di poterlo conoscere personalmente per abbracciarlo e parlare con lui di mio Padre e del “313”.

    (*) note tecniche
    IL DRAGAMINE DR 313
    Ex trawler inglese T 203 “Foula”  (classe “Isles”), fu un dragamine meccanico. Dislocava 791 tonnellate a pieno carico. L’impianto di propulsione era costituito da una motrice alternativa a vapore a triplice espansione costruita dalla Amos & Smith di Hull in grado di sviluppare una potenza di  950 hp  indicati e una velocità di 12 nodi.
    Ordinato dalla Royal Navy il 16 Nov 1940, venne impostato il 15 aprile 1941 nei cantieri  Cochrane & Sons Shipbuilders Ltd. (Selby, U.K.) e, varato il 28 luglio successivo, entrò in servizio il 16 febbraio 1942.
    Intensamente utilizzato durante la guerra, il 26 gennaio 1946 venne trasferito alla Marina Italiana dove, iscritto nei quadri del Naviglio Ausiliario dello Stato, entrò in servizio il 4 febbraio seguente. Entrò ufficialmente nei quadri del Naviglio Militare soltanto il 18 dicembre 1957. Nella Marina Italiana gli vennero attribuite le sigle RDR 313, poi  DR 313 e  5313. In data 01 febbraio 1965 venne declassato a Nave Ausiliaria Costiera e utilizzato come nave bersaglio. Fu infine radiato il 01 gennaio 1965.

    (1) https://www.lavocedelmarinaio.com/2019/01/8-1-1921-nasceva-mio-padre-vincenzo-di-nitto-un-marinaio-di-lungo-corso/ 

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    Titanic, per molti la nave dei sogni

    di Manuel Muttarini (*)
    www.titaniclegend.it

    Oggi questa frase potrebbe risultare banale, ma per il 1912 era l’equivalente dell’attuale Queen Mary 2. Il Titanic come la sua gemella Olympic, e la Britannic erano state costruite dalla White Star Line per competere con la rivale, Cunard Line (altra compagnia navale). Era senza dubbio il miglior modo per fare una traversata oceanica a bordo del transatlantico più lussuoso del mondo.
    Costruito presso i cantieri di Harland and Wolff di Belfast. Il progetto era stato realizzato da Thomas Andrews e da William Pirrie. Lo sviluppò richiese dal 1909 al 1912, tantè che i passeggeri al giorno dell’imbarco sentirono persino, il “profumo” di vernice fresca.
    Il motore era composto da 29 caldaie con una propulsione a vapore, (a differenza delle altre imbarcazioni che andavano a diesel) consumavano più di 700 tonnellate di carbone al giorno e con i suoi 51.000 cavalli, era il transatlantico più veloce al mondo, capace di raggiungere i 23 nodi, all’incirca 43 km/h. Pesava 46.000 tonnellate, per un’altezza di 52 m e una larghezza di 28 m e una lunghezza di 269m.
    Il Titanic era definito “inaffondabile”, grazie alla sua chiglia dotata di un doppio fondo cellulare, inoltre lo scafo era suddiviso in 16 porte stage che potevano essere chiuse anche dalla cabina di comando, con l’utilizzo della corrente elettrica.
    Ospitava ben 2.223 persone oltre alle 900 dell’equipaggio suddivisi tra camerieri, marinai ecc.

    (*) Manuel Muttarini è da sempre un appassionato del Titanic. Fin dalla tenera età ad oggi, ha letto diversi libri sia Italiani che Inglesi. Con l’avvento di Internet è riuscito a colmare il suo interesse, scoprendo numerosi documenti inerenti al naufragio. Oltre al Titanic, Manuel Muttarini è un grande appassionato di videogiochi. Ha condotto un’intera stagione del programma televisivo “Futur@”;, assieme a Massimo Carboni e Noemi Giunta nel 2000. Dal 2000 al 2002 si è occupato della sezione “Games” di oltreilgol.it
    Ha collaborato con altri siti, tra cui Internet-television.it di Giorgio Cajati. Scrive sul sito www.ayrion.it nella sezione “Games”, collaborando con il suo amico Massimo Carboni e, da oggi, anche su lavocedelmarinaio.com

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