Pittori di mare

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    Gli scogli magici di San Nicola

    di Orazio Ferrara (*)

    In Sicilia, fino alla metà dell’Ottocento, si sentiva raccontare spesso da vecchie popolane dell’esistenza di scogli magici, che avevano il potere di dare buone o cattive notizie a chi, con parole antiche, sapesse bene interrogarli. Uno di questi scogli si trovava sulla costa della cittadina di Trapani, appena fuori l’antica porta Eusebia, esattamente prospiciente alla spiaggia dove sorgeva e sorge tutt’ora (sebbene un po’abbandonata) l’arcaica chiesetta di San Liberato o Liberale Abate (l’amato Santu Libiranti del buon tempo antico dei Trapanesi), che s’incontra sul percorso che dal Largo delle Ninfee giunge fino alla Torre di Ligny.
    A quei tempi, parliamo dell’Ottocento, Santu Libiranti era un santo popolarissimo e assai festeggiato dal popolino trapanese per via della sua protezione accordata alla pesca e alla lavorazione del corallo. E ciò non doveva meravigliare affatto in una città che fondava la sua ricchezza sul corallo e in cui i corallari erano una delle più potenti e ascoltate corporazioni cittadine.
    La festa di San Liberato cadeva il lunedì successivo alla domenica di Pentecoste. Quel giorno, presso la chiesetta, era un continuo via vai di persone, di famiglie, di gruppi di marenari, di corallari.
    Dopo aver ascoltate le funzioni religiose, la massa dei partecipanti si disperdeva poi sulla vasta e morbida spiaggia antistante e qui, stese delle larghe tovaglie, vi apparecchiava i cibi più squisiti e prelibati, accompagnandoli con l’ottimo e forte vino della zona. Nessuno, proprio nessuno, quel giorno voleva mancare a quella che era definita la scialata dell’anno.
    Dopo il pasto abbondante, mentre gli uomini fumavano con le loro lunghe pipe di terracotta e parlavano degli accadimenti nei loro viaggi per mare, le donne andavano a bagnarsi le gambe in mare. Infatti si riteneva che quello specchio di mare avesse delle virtù soprannaturali in quanto rendeva le loro gambe più tornite e sode, al pari del rosso corallo, e quindi più desiderabili dai loro uomini.
    Virtù soprannaturali avevano anche gli scogli che sorgevano lì di fronte a quella spiaggia. Chi volesse sapere notizie di un suo caro, che navigava lontano sul mare, non doveva far altro che andare in quel posto, verso la mezzanotte, lanciare un sasso nell’acqua, in modo da svegliare la divinità dormiente, recitare delle parole segrete e oscure e quindi gridare tre volte, ad alta voce, il nome della persona cara lontana di cui si voleva sapere se fosse scampato ai pericoli di mare. Se il rito era ben eseguito e con le parole giuste arrivava immancabile la risposta degli scogli.


    Un racconto siciliano ottocentesco, riportato peraltro anche dal grande Giuseppe Pitrè il più importante ricercatore e studioso di tradizioni popolari della Sicilia di un tempo, ci narra del rito avvenuto una notte appunto sulla spiaggia di San Liberato e in cui viene menzionata Pantelleria. Questo implicitamente significa che anche nella nostra isola dovevano esserci degli scogli ritenuti magici e quindi la necessaria corrispondenza per dare risposta al nome invocato. Ma andiamo con ordine.
    Un giovane marinaro di nome Nino era andato, insieme ad altre barche trapanesi, alla pesca delle spugne nei pressi delle coste tunisine di Sfax. Erano passati ormai due mesi e nel frattempo la maggior parte delle barche avevano lasciato le acque tunisine ed erano rientrate nel porto di Trapani. Di Nino però non si aveva alcuna notizie. I marinai sbarcati raccontavano di una tremenda tempesta che li aveva colti nel viaggio di ritorno e forse Nino era stato inghiottito dagli abissi marini. Quale era l’angustia per la vecchia madre, il fratello e le sorelle dello sventurato marinaio, a sentire quelle voci, è facile immaginarlo.
    Così, una notte di luna piena, l’intera famiglia decise di ricorrere, per sciogliere il doloroso dilemma, agli scogli magici di Santu Libiranti. Dopo aver pregato e supplicato nella chiesetta del santo, essi si diressero alla spiaggia. Allo scoccare della mezzanotte il fratello, lanciato un sasso e recitate le giuste parole, gridò “Nino, Nino, Nino!”. Poi tutti restarono in trepidante attesa. D’un tratto si udì una voce, che ai presenti sembrò sepolcrale e ghiacciò loro il sangue. Ma la notizia era buona: “Non angustiatevi, sono salvo alla Pantiddraria”. Alcuni giorni dopo Nino, a bordo di un veliero pantesco, ritornò a Trapani e poté così riabbracciare finalmente i suoi cari.
    Dei corrispondenti scogli magici in Pantelleria nessun cenno. Eppure dovevano esserci, affinché il rito avesse effetto secondo la credenza popolare. Nessun cenno di questi, nulla di nulla, nella tradizione folklorica pantesca. Avanziamo un’ipotesi. In tutti i racconti siciliani sugli scogli magici, quest’ultimi sono sempre al limitare di una spiaggia antistante, una chiesa cara ai marinai e da essi frequentata.

    Nella Pantelleria del buon tempo antico c’era un solo e unico luogo ad avere queste precise e peculiari caratteristiche ed era la chiesa, oggi scomparsa a seguito degli eventi dell’ultima guerra, di San Nicola, peraltro da sempre un luogo deputato dalle caratteristiche magico-sacrali. Non a caso essa sorgeva su un preesistente e antico cimitero e quindi luogo frequentato, secondo le credenze, dalle Anime del Purgatorio, a loro volta potente tramite tra il mondo terreno e quello celeste.
    La chiesa di San Nicola (era grosso modo dove si trova oggi il Tikirriki) si apriva sul mare e aveva davanti una spiaggia di sassi e scogli (la banchina era ancora di là da venire). In San Nicola i marini panteschi veneravano il loro santo e benefico patrono, la chiesa stessa era in uso ad una confraternita di essi. Particolarmente fascinoso era poi il rito della benedizione dei panuzzi di San Nicola, rimedio infallibile per salvarsi da un grave pericolo imminente in mare.
    Oggi chi passeggia sulla banchina ignora che al disotto si trovano gli scogli magici dei racconti di un tempo fiabesco ormai definitivamente perduto.

    (*) per conoscere gli altri suoi articoli digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome.

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    Cesare Romano (Catania, 23.8.1839 – Napoli, 1.3.1911)

    di Antonio Cimmino

    (Catania, 23.8.1839 – Napoli, 1.3.1911)

    Cesare Romano nacque a Catania il 23 agosto 1839.
    Il 23 agosto 1850 fu ammesso alla Scuola di Marina di Napoli all’epoca capitale del Regno Delle Due Sicilie. Promosso guardiamarina nel 1855 al termine del corso, fu imbarcato su navi a vela e nel 1859 fu nominato alfiere di vascello e imbarcato sul vascello Monarca, la più grande nave da guerra costruita in Italia fino ad allora.

    Il vascello, varato nel 1850 si trovava a Castellammare di Stabia per essere sottoposto a consistenti lavori di ammodernamento per la sistemazione di un apparto motore di supporto all’armamento velico.
    La nave era al comando del capitano di vascello Giovanni Vacca, suo secondo era il capitano di fregata Guglielmo Acton.
    La notte del 23 agosto 1860, in assenza del comandante che si era venduto ai piemontesi in occasione della “spedizione dei Mille”, il vascello fu attaccato dalla pirocorvetta Tukery della Marina dittatoriale siciliana per essere catturato e trainato a Palermo. L’abbordaggio fallì a causa della violenta reazione dei marinai guidati dal capitano di fregata Acton e dallo stesso Cesare Romano. Per questa azione fu decorato dal re napoletano Francesco I con la Croce di cavaliere di grazia del Real ordine militare di san Giorgio della Reunione.

    Dissoltosi il Regno Delle Due Sicilie, anche il Romano il 17 marzo 1861, passò nei ruoli della Regia Marina con il grado di tenente di vascello e nel 1862, quale componente dello stato maggiore della corvetta Iride, partecipò ad una crociera nel Sud America.


    Nel 1880-1882 come capitano di fregata ebbe il comando del trasporto ad elica Europa per rappresentare l’Italia e la Regia Marina nella Esposizione universale di Melbourne in Australia, la prima esposizione universale ufficiale che vide la presenza di 1 milione e 300 mila visitatori. La R.M. espose nel suo padiglione, tra l’altro, il nuovo affusto a freni idraulici per cannoni approntato dall’ammiraglio Augusto Albini. L’affusto girevole, subito adottato dalla fabbrica Hotchkiss, era in grado di assorbire il rinculo causato dai colpi. Il Romano redasse, per conto della R.M. anche relazioni dettagliate sui luoghi toccati dall’Europa durante la lunga crociera, molti dei quali mai visitati da navi italiane.


    Nel 1881 fu promosso capitano di vascello.
    Nel 1885 ebbe il comando della nave Principe Amedeo che trasportò un contingente di soldati in Egitto per la successiva occupazione di Massaua.

    Nel 1887 ebbe il comando dell’ariete corazzato Affondatore.
    Dopo essere stato collocato in riserva nel 1894, fu promosso contrammiraglio nel 1897.


    Cesare Romano morì a Napoli il 1° marzo 1911.

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    28.2.1850, il brigantino Prudente

    a cura Sergio Pagni

    PER GRAZIA RICEVUTA

    Ex voto custodito nel Civico museo marinaro Gio Bono Ferrari di Camogli (*).
    Sul quadro si legge:
    Brigantino Il Prudente comandato dal capitano Francesco Chiega. Trovandosi il giorno 28 febbraio 1850 nelle vicinanze di Capo d’Orso, con un temporale di vento alla bora, alla distanza di un quarto di miglio, fu dalla Beata Vergine miracolosamente salvato”.

    (*) se ne consiglia la visita.

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    Breve storia di navi “Usciere” per trasporto cavalli

    di Antonio Cimmino

    Sin dal periodo greco e successivamente ed in maniera massiccia nell’antica di Roma, animali sia domestici sia selvatici sono stati trasportati via mare, per varie ragioni quali ripopolamento di allevamenti di bestiame, il consumo alimentare, l’interesse scientifico, l’intrattenimento pubblico, la guerra e diverse altre motivazioni. Questi spostamenti su grandi distanze erano inizialmente limitati all’area Mediterranea
    per poi estendersi anche al resto d’Europa nel corso del Medioevo. La conquista del Nuovo Mondo creò la prima grande occasione di importanti trasferimenti di un gran numero di cavalli e altro bestiame da una parte all’altra dell’oceano. Gli animali domestici erano essenziali per i coloni e per i loro eserciti. Tuttavia, nel caso dei pregiati cavalli da corsa delle quadrighe esportati dalla Spagna a Roma, per l’attraversamento del Mediterraneo si aspettava la primavera per evitare il rischio di bufere e conseguente perdita della nave e del loro prezioso carico.
    Ma il trasporto dei cavalli via mare avveniva anche e soprattutto per motivi bellici. Cesare invase una seconda volta la Britannia nel 54 a.C. utilizzando ben 800 navi, comprese quelle ausiliarie di supporto, che sbarcarono 5 legioni con 2.000 cavalieri. Questa enorme forza da sbarco vide la presenza di numerose navi adattate per il trasporto dei cavalli.

    Nei secoli precedenti anche i greci utilizzavano particolari triremi per il trasporto dei cavalli specialmente verso la Magna Grecia. Queste navi erano denominate hippagon e si differenziavano dalle normali trireme troppo piccole per imbarcare anche quadrupedi. Non bisogna dimenticare che un cavallo della Tessaglia pesava dai 380 ai 450 chili d era alto circa 1,40 metri: tra i fattori determinanti per adattare o costruire una hippagon, i costruttori navali greci consideravano le seguenti variabili:

    • Distanza minima di sicurezza tra i cavalli;
    • Distanza minima di sicurezza tra i cavalli ed i rematori;
    • Aumento dello sforzo di voga per il maggior dislocamento;

    Stabilità della nave durante il rollio ovvero da ombrosità dei cavalli.

    Per queste ragioni le hippagon era l’adattamento delle navi predisposte ad imbarcare macchine belliche e, quindi con baglio più grande. Le rotte dovevano essere brevi in quanto, oltre al foraggio, la scorta d’acqua necessaria era notevole. Ipotizzando un carico di 12 cavalli che consumavano 432 litri d’acqua al giorno, un viaggio di 4 giorni presupponeva 1,73 tonnellate d’acqua, impossibile ad imbarcare su una normale trireme. Bisognava costruire anche un paiolo sui madieri su cui sistemare i cavalli con i sistemi di frenaggio e mangiatoie. Laborioso doveva essere l’imbarco e lo sbarco dei quadrupedi in quanto lo scafo non prevedeva un apposito sistema specialmente in mancanza di un molo. Le hippagon sono descritte da Erodoto, erano costruzioni ordinate da Dario, re di Persia alle città-stato greche tributarie dell’impero persiano.

    Solo nel medioevo queste particolari navi furono idoneamente progettate. Denominate “usciere” (in francese huissiers; in latino usserii), queste grosse costruzioni avevano due ponti e potevano trasportare fino a 100 cavalli. Gli animali venivano caricati da portelli sulla scafo (uscio) poco sopra la linea di galleggiamento munita di passerella di imbarco. Il sistema veniva sigillato e calafatato durante la navi
    Una volta imbarcati, era necessario trovare una posizione che permettesse agli animali di affrontare la traversata senza troppi danni. Non potevano rimanere in piedi, o coricati, e quindi si sospendevano con delle cinghie che li tenevano eretti anche in caso di forte rollio. In queste condizioni gli animali subivano ferite molto serie, tali addirittura da rendere necessaria una rieducazione per farli camminare e renderli utilizzabili.
    Un trattamento “simile” era riservato ad eventuali passeggeri meno importanti, alloggiati sotto il paiolato dove posavano gli zoccoli degli equini, e per tutto il viaggio dovevano accettare con rassegnazione quanto arrivava loro dall’alto. Navi per il trasporto cavalli da guerra furono impiegate nella spedizione militare più famosa del Medioevo per la conquista normanna dell’Inghilterra dal duca Guglielmo nel 1066. L’azione è  illustrata sull’arazzo di Bayeux . Questo, di 70 metri di lunghezza e indicato anche in francese come “arazzo della regina Matilde”, offre una rappresentazione splendidamente vivida del conquista, che comprende l’imbarco e sbarco di 200 cavalli da guerra. La nave arrivava fino alla battigia, apriva il portellone-rampa e i cavalli con in cavalieri in sella scendevano sulla spiaggia pronti per il combattimento. Per lo sbarco dei quadrupedi si legga anche: una barca viene spiaggiata, un’altra viene all’ancora nelle secche, e altre sono ancorate a un ormeggio“.

    Le usciere veneziane costruite per Luigi IX nel 1268 erano lunghe 25,76 m, avevano una larghezza di 6,1 m, avevano due ponti e due alberi. Altre navi chiamate terrete o taride avevano un solo ponte, due alberi a vela latina e una portata massima di 200 tonnellate. Le forme notevolmente affinate a poppa e a prua, il bordo basso e la possibilità d’aiutarsi con remi le rendevano simili alla galera, rispetto alla quale erano però più pesanti e meno veloci anche perché avevano il centro dello scafo molto largo, per cui erano impiegate soprattutto per i trasporti. Il fondo piatto le faceva assomigliare all’usciere, e infatti nel contratto con Luigi IX quelle genovesi dovevano essere attrezzate a taride-uscieri.

    Nel Mediterraneo, durante il periodo bizantino, già dall’inizio del X secolo, le unità per il trasporto cavalli della flotta, erano dotate di rampe, sia dalle murate e sia da poppa o solitamente da prua: Boccaporti erano ricavati sui ponti per poter accedere nella scuderia delle stive.  Le navi denominate Khelandia, più grandi specialmente in larghezza, rispetto ai dromoni, erano in grado di trasportare da 12 a 20 cavalli. Una significativa differenza strutturale tra le navi da trasporto bizantine del X secolo e le loro controparti italiane nel XII secolo era che queste ultime collocavano entrambe le file di rematori sul ponte superiore, creando così più spazio per i cavalli nello scafo.
    Sulla scorta di modelli bizantini, navi usciere furono utilizzate dai crociati per trasportare in Terra Santa migliaia di cavalli. Alcuni cronisti narrano come gli animali viaggiassero sospesi mediante cinghie, toccando appena il paiolo, per assicurare la loro stabilità e per sottrarli al mal di mare; di tanto in tanto venivano frustati, perché si sgranchissero le zampe.  In genere si caricavano una ventina di quadrupedi, eccezionalmente il doppio, anche perché bisognava dar posto pure ai garzoni e ai foraggi. I cavalli erano imbarcati dai porti di Marsiglia, Genova e Venezia. Goffrey de Villehardouin nella sua opera” Memorie o cronaca della quarta crociata e della conquista di Costantinopoli “ nel 1198 recandosi a Venezia per ottenere l’aiuto del doge, naturalmente dietro compenso, riporta che questi trattò anche del trasporto dei cavalli per i crociati:” Costruiremo navi per trasportare quattromilacinquecento cavalli e novemila scudieri e navi per quattromilacinquecento cavalieri e ventimila sergenti di fanteria. E concorderemo anche di fornire cibo a questi cavalli e persone durante nove mesi Questo è quello che ci impegniamo a fare almeno, a condizione che ci paghi per ogni cavallo quattro marchi, e per ogni uomo due marchi”
    Il cavaliere e biografo francese Jean de Joinville relativamente alla settima crociata (1248-1254) racconta che giunti a Marsiglia, i cavalli furono imbarcati sulla nave da un grande portone aperto su un lata. Questa porta era poi chiusa e sigillata “come una botte di vite, perché quando la nave raggiunge il mare aperto la porta è sott’acqua”. Allora tutti i passeggeri cantavano il Veni Creator Spiritus prima della partenza “perché chi va a dormire la notte può essere in fondo al mare al mattino”.

    Con la scoperta delle Americhe, gli spagnoli per primi imbarcarono i cavalli sul ponte mediante paranchi per poi sistemarli in una stalla ricavata sotto coperta appositamente attrezzata. Gli indigeni furono sconfitti ed annientati dai un complesso di fattori tecnologici e psicologici: arma da fuoco e da taglio, malattie importate, e i cavalli. Gli indios non avevano mai visto un cavallo, specialmente cavalcati da uomini, per cui li scambiarono per esseri mitologici. Anche nel trasporto con le caravelle, si registrarono numerosissime morti tra i quadrupedi.
    Nel corso delle successive vicende storiche e fino alla prima guerra mondiale, molte navi furono attrezzate per trasportare cavalli. Nella guerra di Crimea del 1854, ad esempio, i cavalli furono spediti dai vari paesi dell’impero britannico e, in assenza di molo attrezzati per lo sbarco, furono utilizzate delle barche con rampe poppiere e prodiere che facevano la spola tra le navi in rada e la battigia. Le barche, di varie dimensioni (alcune misuravano 14 metri di lunghezza per 5 di larghezza) erano fornite di tiranti ad anello per agganciarsi ad un rimorchiatore e per assicurare i cavalli. Se la costa e la murata della nave erano abbastanza basse, ai cavalli si faceva fare un piccolo salto in acqua per farli nuotare fino alla riva. Giù l’imbarco era difficile e comportava un grande rischio di fratture ossee, il salto era ancora più soggetto a lesioni agli animali.

    L’ultimo grane trasporto via mare di cavalli, avvenne durante la Grande Guerra. Migliaia furono traghettati dall’Inghilterra in Francia. Più di 600.000 cavalli e muli furono spediti dal Nord America. Viaggiare via mare era pericoloso per i cavalli quanto lo era per gli esseri umani. Migliaia di animali andarono perduti, principalmente a causa di malattie, naufragi e lesioni causate dal rollio delle navi.
    Il 28 giugno 1915, il trasporto di cavalli SS “Armenian” fu silurato dall’U-24 al largo della costa della Cornovaglia, affondarono con la nave 26 marinai e 1400 quadrupedi.
    Nel 1917, più di 94.000 cavalli furono inviati dal Nord America in Europa e 3.300 furono persi in mare. Circa 2.700 di questi cavalli morirono quando sottomarini e altre navi da guerra affondarono le loro navi.