Curiosità

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    Gli scogli magici di San Nicola

    di Orazio Ferrara (*)

    In Sicilia, fino alla metà dell’Ottocento, si sentiva raccontare spesso da vecchie popolane dell’esistenza di scogli magici, che avevano il potere di dare buone o cattive notizie a chi, con parole antiche, sapesse bene interrogarli. Uno di questi scogli si trovava sulla costa della cittadina di Trapani, appena fuori l’antica porta Eusebia, esattamente prospiciente alla spiaggia dove sorgeva e sorge tutt’ora (sebbene un po’abbandonata) l’arcaica chiesetta di San Liberato o Liberale Abate (l’amato Santu Libiranti del buon tempo antico dei Trapanesi), che s’incontra sul percorso che dal Largo delle Ninfee giunge fino alla Torre di Ligny.
    A quei tempi, parliamo dell’Ottocento, Santu Libiranti era un santo popolarissimo e assai festeggiato dal popolino trapanese per via della sua protezione accordata alla pesca e alla lavorazione del corallo. E ciò non doveva meravigliare affatto in una città che fondava la sua ricchezza sul corallo e in cui i corallari erano una delle più potenti e ascoltate corporazioni cittadine.
    La festa di San Liberato cadeva il lunedì successivo alla domenica di Pentecoste. Quel giorno, presso la chiesetta, era un continuo via vai di persone, di famiglie, di gruppi di marenari, di corallari.
    Dopo aver ascoltate le funzioni religiose, la massa dei partecipanti si disperdeva poi sulla vasta e morbida spiaggia antistante e qui, stese delle larghe tovaglie, vi apparecchiava i cibi più squisiti e prelibati, accompagnandoli con l’ottimo e forte vino della zona. Nessuno, proprio nessuno, quel giorno voleva mancare a quella che era definita la scialata dell’anno.
    Dopo il pasto abbondante, mentre gli uomini fumavano con le loro lunghe pipe di terracotta e parlavano degli accadimenti nei loro viaggi per mare, le donne andavano a bagnarsi le gambe in mare. Infatti si riteneva che quello specchio di mare avesse delle virtù soprannaturali in quanto rendeva le loro gambe più tornite e sode, al pari del rosso corallo, e quindi più desiderabili dai loro uomini.
    Virtù soprannaturali avevano anche gli scogli che sorgevano lì di fronte a quella spiaggia. Chi volesse sapere notizie di un suo caro, che navigava lontano sul mare, non doveva far altro che andare in quel posto, verso la mezzanotte, lanciare un sasso nell’acqua, in modo da svegliare la divinità dormiente, recitare delle parole segrete e oscure e quindi gridare tre volte, ad alta voce, il nome della persona cara lontana di cui si voleva sapere se fosse scampato ai pericoli di mare. Se il rito era ben eseguito e con le parole giuste arrivava immancabile la risposta degli scogli.


    Un racconto siciliano ottocentesco, riportato peraltro anche dal grande Giuseppe Pitrè il più importante ricercatore e studioso di tradizioni popolari della Sicilia di un tempo, ci narra del rito avvenuto una notte appunto sulla spiaggia di San Liberato e in cui viene menzionata Pantelleria. Questo implicitamente significa che anche nella nostra isola dovevano esserci degli scogli ritenuti magici e quindi la necessaria corrispondenza per dare risposta al nome invocato. Ma andiamo con ordine.
    Un giovane marinaro di nome Nino era andato, insieme ad altre barche trapanesi, alla pesca delle spugne nei pressi delle coste tunisine di Sfax. Erano passati ormai due mesi e nel frattempo la maggior parte delle barche avevano lasciato le acque tunisine ed erano rientrate nel porto di Trapani. Di Nino però non si aveva alcuna notizie. I marinai sbarcati raccontavano di una tremenda tempesta che li aveva colti nel viaggio di ritorno e forse Nino era stato inghiottito dagli abissi marini. Quale era l’angustia per la vecchia madre, il fratello e le sorelle dello sventurato marinaio, a sentire quelle voci, è facile immaginarlo.
    Così, una notte di luna piena, l’intera famiglia decise di ricorrere, per sciogliere il doloroso dilemma, agli scogli magici di Santu Libiranti. Dopo aver pregato e supplicato nella chiesetta del santo, essi si diressero alla spiaggia. Allo scoccare della mezzanotte il fratello, lanciato un sasso e recitate le giuste parole, gridò “Nino, Nino, Nino!”. Poi tutti restarono in trepidante attesa. D’un tratto si udì una voce, che ai presenti sembrò sepolcrale e ghiacciò loro il sangue. Ma la notizia era buona: “Non angustiatevi, sono salvo alla Pantiddraria”. Alcuni giorni dopo Nino, a bordo di un veliero pantesco, ritornò a Trapani e poté così riabbracciare finalmente i suoi cari.
    Dei corrispondenti scogli magici in Pantelleria nessun cenno. Eppure dovevano esserci, affinché il rito avesse effetto secondo la credenza popolare. Nessun cenno di questi, nulla di nulla, nella tradizione folklorica pantesca. Avanziamo un’ipotesi. In tutti i racconti siciliani sugli scogli magici, quest’ultimi sono sempre al limitare di una spiaggia antistante, una chiesa cara ai marinai e da essi frequentata.

    Nella Pantelleria del buon tempo antico c’era un solo e unico luogo ad avere queste precise e peculiari caratteristiche ed era la chiesa, oggi scomparsa a seguito degli eventi dell’ultima guerra, di San Nicola, peraltro da sempre un luogo deputato dalle caratteristiche magico-sacrali. Non a caso essa sorgeva su un preesistente e antico cimitero e quindi luogo frequentato, secondo le credenze, dalle Anime del Purgatorio, a loro volta potente tramite tra il mondo terreno e quello celeste.
    La chiesa di San Nicola (era grosso modo dove si trova oggi il Tikirriki) si apriva sul mare e aveva davanti una spiaggia di sassi e scogli (la banchina era ancora di là da venire). In San Nicola i marini panteschi veneravano il loro santo e benefico patrono, la chiesa stessa era in uso ad una confraternita di essi. Particolarmente fascinoso era poi il rito della benedizione dei panuzzi di San Nicola, rimedio infallibile per salvarsi da un grave pericolo imminente in mare.
    Oggi chi passeggia sulla banchina ignora che al disotto si trovano gli scogli magici dei racconti di un tempo fiabesco ormai definitivamente perduto.

    (*) per conoscere gli altri suoi articoli digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome.

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    Breve storia di navi “Usciere” per trasporto cavalli

    di Antonio Cimmino

    Sin dal periodo greco e successivamente ed in maniera massiccia nell’antica di Roma, animali sia domestici sia selvatici sono stati trasportati via mare, per varie ragioni quali ripopolamento di allevamenti di bestiame, il consumo alimentare, l’interesse scientifico, l’intrattenimento pubblico, la guerra e diverse altre motivazioni. Questi spostamenti su grandi distanze erano inizialmente limitati all’area Mediterranea
    per poi estendersi anche al resto d’Europa nel corso del Medioevo. La conquista del Nuovo Mondo creò la prima grande occasione di importanti trasferimenti di un gran numero di cavalli e altro bestiame da una parte all’altra dell’oceano. Gli animali domestici erano essenziali per i coloni e per i loro eserciti. Tuttavia, nel caso dei pregiati cavalli da corsa delle quadrighe esportati dalla Spagna a Roma, per l’attraversamento del Mediterraneo si aspettava la primavera per evitare il rischio di bufere e conseguente perdita della nave e del loro prezioso carico.
    Ma il trasporto dei cavalli via mare avveniva anche e soprattutto per motivi bellici. Cesare invase una seconda volta la Britannia nel 54 a.C. utilizzando ben 800 navi, comprese quelle ausiliarie di supporto, che sbarcarono 5 legioni con 2.000 cavalieri. Questa enorme forza da sbarco vide la presenza di numerose navi adattate per il trasporto dei cavalli.

    Nei secoli precedenti anche i greci utilizzavano particolari triremi per il trasporto dei cavalli specialmente verso la Magna Grecia. Queste navi erano denominate hippagon e si differenziavano dalle normali trireme troppo piccole per imbarcare anche quadrupedi. Non bisogna dimenticare che un cavallo della Tessaglia pesava dai 380 ai 450 chili d era alto circa 1,40 metri: tra i fattori determinanti per adattare o costruire una hippagon, i costruttori navali greci consideravano le seguenti variabili:

    • Distanza minima di sicurezza tra i cavalli;
    • Distanza minima di sicurezza tra i cavalli ed i rematori;
    • Aumento dello sforzo di voga per il maggior dislocamento;

    Stabilità della nave durante il rollio ovvero da ombrosità dei cavalli.

    Per queste ragioni le hippagon era l’adattamento delle navi predisposte ad imbarcare macchine belliche e, quindi con baglio più grande. Le rotte dovevano essere brevi in quanto, oltre al foraggio, la scorta d’acqua necessaria era notevole. Ipotizzando un carico di 12 cavalli che consumavano 432 litri d’acqua al giorno, un viaggio di 4 giorni presupponeva 1,73 tonnellate d’acqua, impossibile ad imbarcare su una normale trireme. Bisognava costruire anche un paiolo sui madieri su cui sistemare i cavalli con i sistemi di frenaggio e mangiatoie. Laborioso doveva essere l’imbarco e lo sbarco dei quadrupedi in quanto lo scafo non prevedeva un apposito sistema specialmente in mancanza di un molo. Le hippagon sono descritte da Erodoto, erano costruzioni ordinate da Dario, re di Persia alle città-stato greche tributarie dell’impero persiano.

    Solo nel medioevo queste particolari navi furono idoneamente progettate. Denominate “usciere” (in francese huissiers; in latino usserii), queste grosse costruzioni avevano due ponti e potevano trasportare fino a 100 cavalli. Gli animali venivano caricati da portelli sulla scafo (uscio) poco sopra la linea di galleggiamento munita di passerella di imbarco. Il sistema veniva sigillato e calafatato durante la navi
    Una volta imbarcati, era necessario trovare una posizione che permettesse agli animali di affrontare la traversata senza troppi danni. Non potevano rimanere in piedi, o coricati, e quindi si sospendevano con delle cinghie che li tenevano eretti anche in caso di forte rollio. In queste condizioni gli animali subivano ferite molto serie, tali addirittura da rendere necessaria una rieducazione per farli camminare e renderli utilizzabili.
    Un trattamento “simile” era riservato ad eventuali passeggeri meno importanti, alloggiati sotto il paiolato dove posavano gli zoccoli degli equini, e per tutto il viaggio dovevano accettare con rassegnazione quanto arrivava loro dall’alto. Navi per il trasporto cavalli da guerra furono impiegate nella spedizione militare più famosa del Medioevo per la conquista normanna dell’Inghilterra dal duca Guglielmo nel 1066. L’azione è  illustrata sull’arazzo di Bayeux . Questo, di 70 metri di lunghezza e indicato anche in francese come “arazzo della regina Matilde”, offre una rappresentazione splendidamente vivida del conquista, che comprende l’imbarco e sbarco di 200 cavalli da guerra. La nave arrivava fino alla battigia, apriva il portellone-rampa e i cavalli con in cavalieri in sella scendevano sulla spiaggia pronti per il combattimento. Per lo sbarco dei quadrupedi si legga anche: una barca viene spiaggiata, un’altra viene all’ancora nelle secche, e altre sono ancorate a un ormeggio“.

    Le usciere veneziane costruite per Luigi IX nel 1268 erano lunghe 25,76 m, avevano una larghezza di 6,1 m, avevano due ponti e due alberi. Altre navi chiamate terrete o taride avevano un solo ponte, due alberi a vela latina e una portata massima di 200 tonnellate. Le forme notevolmente affinate a poppa e a prua, il bordo basso e la possibilità d’aiutarsi con remi le rendevano simili alla galera, rispetto alla quale erano però più pesanti e meno veloci anche perché avevano il centro dello scafo molto largo, per cui erano impiegate soprattutto per i trasporti. Il fondo piatto le faceva assomigliare all’usciere, e infatti nel contratto con Luigi IX quelle genovesi dovevano essere attrezzate a taride-uscieri.

    Nel Mediterraneo, durante il periodo bizantino, già dall’inizio del X secolo, le unità per il trasporto cavalli della flotta, erano dotate di rampe, sia dalle murate e sia da poppa o solitamente da prua: Boccaporti erano ricavati sui ponti per poter accedere nella scuderia delle stive.  Le navi denominate Khelandia, più grandi specialmente in larghezza, rispetto ai dromoni, erano in grado di trasportare da 12 a 20 cavalli. Una significativa differenza strutturale tra le navi da trasporto bizantine del X secolo e le loro controparti italiane nel XII secolo era che queste ultime collocavano entrambe le file di rematori sul ponte superiore, creando così più spazio per i cavalli nello scafo.
    Sulla scorta di modelli bizantini, navi usciere furono utilizzate dai crociati per trasportare in Terra Santa migliaia di cavalli. Alcuni cronisti narrano come gli animali viaggiassero sospesi mediante cinghie, toccando appena il paiolo, per assicurare la loro stabilità e per sottrarli al mal di mare; di tanto in tanto venivano frustati, perché si sgranchissero le zampe.  In genere si caricavano una ventina di quadrupedi, eccezionalmente il doppio, anche perché bisognava dar posto pure ai garzoni e ai foraggi. I cavalli erano imbarcati dai porti di Marsiglia, Genova e Venezia. Goffrey de Villehardouin nella sua opera” Memorie o cronaca della quarta crociata e della conquista di Costantinopoli “ nel 1198 recandosi a Venezia per ottenere l’aiuto del doge, naturalmente dietro compenso, riporta che questi trattò anche del trasporto dei cavalli per i crociati:” Costruiremo navi per trasportare quattromilacinquecento cavalli e novemila scudieri e navi per quattromilacinquecento cavalieri e ventimila sergenti di fanteria. E concorderemo anche di fornire cibo a questi cavalli e persone durante nove mesi Questo è quello che ci impegniamo a fare almeno, a condizione che ci paghi per ogni cavallo quattro marchi, e per ogni uomo due marchi”
    Il cavaliere e biografo francese Jean de Joinville relativamente alla settima crociata (1248-1254) racconta che giunti a Marsiglia, i cavalli furono imbarcati sulla nave da un grande portone aperto su un lata. Questa porta era poi chiusa e sigillata “come una botte di vite, perché quando la nave raggiunge il mare aperto la porta è sott’acqua”. Allora tutti i passeggeri cantavano il Veni Creator Spiritus prima della partenza “perché chi va a dormire la notte può essere in fondo al mare al mattino”.

    Con la scoperta delle Americhe, gli spagnoli per primi imbarcarono i cavalli sul ponte mediante paranchi per poi sistemarli in una stalla ricavata sotto coperta appositamente attrezzata. Gli indigeni furono sconfitti ed annientati dai un complesso di fattori tecnologici e psicologici: arma da fuoco e da taglio, malattie importate, e i cavalli. Gli indios non avevano mai visto un cavallo, specialmente cavalcati da uomini, per cui li scambiarono per esseri mitologici. Anche nel trasporto con le caravelle, si registrarono numerosissime morti tra i quadrupedi.
    Nel corso delle successive vicende storiche e fino alla prima guerra mondiale, molte navi furono attrezzate per trasportare cavalli. Nella guerra di Crimea del 1854, ad esempio, i cavalli furono spediti dai vari paesi dell’impero britannico e, in assenza di molo attrezzati per lo sbarco, furono utilizzate delle barche con rampe poppiere e prodiere che facevano la spola tra le navi in rada e la battigia. Le barche, di varie dimensioni (alcune misuravano 14 metri di lunghezza per 5 di larghezza) erano fornite di tiranti ad anello per agganciarsi ad un rimorchiatore e per assicurare i cavalli. Se la costa e la murata della nave erano abbastanza basse, ai cavalli si faceva fare un piccolo salto in acqua per farli nuotare fino alla riva. Giù l’imbarco era difficile e comportava un grande rischio di fratture ossee, il salto era ancora più soggetto a lesioni agli animali.

    L’ultimo grane trasporto via mare di cavalli, avvenne durante la Grande Guerra. Migliaia furono traghettati dall’Inghilterra in Francia. Più di 600.000 cavalli e muli furono spediti dal Nord America. Viaggiare via mare era pericoloso per i cavalli quanto lo era per gli esseri umani. Migliaia di animali andarono perduti, principalmente a causa di malattie, naufragi e lesioni causate dal rollio delle navi.
    Il 28 giugno 1915, il trasporto di cavalli SS “Armenian” fu silurato dall’U-24 al largo della costa della Cornovaglia, affondarono con la nave 26 marinai e 1400 quadrupedi.
    Nel 1917, più di 94.000 cavalli furono inviati dal Nord America in Europa e 3.300 furono persi in mare. Circa 2.700 di questi cavalli morirono quando sottomarini e altre navi da guerra affondarono le loro navi.

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    23.2.1942, è una data memorabile per la motonave Orseolo che doppia Capo Horn

    Banca della memoria - www.lavocedelmarinaio.com

    Questo articolo è dedicato a Raimondo Barrera che ha solcato tutti i mari della terra…

    Il 25 gennaio 1942, in pieno conflitto mondiale, i marinai invisibili del mercantile Pietro Orseolo doppiano Capo Horn. Molti bastimenti seguono questa rotta per trasportare materiale irreperibile nella vecchia Europa in guerra, transitando per l’oceano Pacifico conteso dalle flotte nipponiche e statunitensi.
    Per l’Orseolo (ma anche per gli altri bastimenti) l’impresa non è facile, è grande, ma è anche vero che gli oceani lo sono ancora di più, ma il coraggio e anche l’estremo sacrificio dei marinai imbarcati lo sono ancora di più.
    Niente radar, nebbia fittissima, e freddo, tanto freddo da far alternare ogni venti minuti le stremate vedette.

    nave Pietro Orseolo - www.lavocedelmarinaio.com

    Il tenente di vascello Mario Zustovich sa da vecchio lupo di mare che l’impresa, questa impresta, non è facile, non gli resta consapevolmente di trasmettere al suo equipaggio quella forza latente nell’orgoglio di ognuno di Loro. Bisogna circumnavigare, risalendo lentamente l’Atlantico, destinazione Bordeaux (23 febbraio 1942 – miglia percorse 19509) dove viene accolto da una improvvisata banda, dalle solite autorità riparate dal tepore di una tettoia, dall’affetto di marinai italiani e tedeschi che fanno sentire tutto quel calore patito dall’equipaggio del mercantile Orseolo durante la missione.
    In seguito la rotta viene seguita anche da altre navi ma quella dell’Orseolo era di vitale importanza perché il suo carico conteneva 77 tonnellate di stagno da consegnare all’industria bellica italiana, indispensabile per le saldature dei condotti elettrici delle navi, e anche 1988 tonnellate di gomma destinate all’ora alleato tedesco.
    Ma le guerre non si vincono requisendo l’oro al proprio popolo e nemmeno imponendo di confiscare i 20.000 banconi da bar esistenti in Italia per recuperare il recuperabile, le guerre si vincono non facendole.

    Motonave Pietro Orseolo - www.lavocedelmarinaio.com

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    23.2.1880, quando Giuseppe Garibaldi scriveva da Caprera

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    …ed altre curiosità sulla regia corazzata Caio Duilio.

    Questo ricordo è dedicato all’ammiraglio Egidio Alberti, “primo comandante della nave scuola Caio Duilio” che ha avuto sempre a cuore e sostenuto il suo equipaggio anche in momenti di estrema difficoltà. Agli amici Duiliani, Maddalenini e della Sardegna, ai Stabiesi (militari e dell’indotto) un ringraziamento per tutto il bene che mi hanno fatto sostenendomi in questa navigazione sin dai tempi non sospetti…
Grazie.
    Se vi dico che vi voglio bene, mi credete?

    Il 23 febbraio del 1880 Giuseppe Garibaldi così scrisse all’Ispettore del Genio Navale Felice Mattei:
    Illustre Mattei,
    La stupenda riuscita del Duilio onora grandemente voi ed i valorosi collaboratori, sul concetto e nell’attuazione. Io considero la nascita dei quattro colossi della nostra Marina militare, come un vero risorgimento nazionale, che ci porterà al livello delle grandi potenze marittime.
    Accogliete un cenno di ben meritata lode e tenetemi per la vita vostro.
    G. Garibaldi”.

    Dati tecnici
    Corazzata (nave da battaglia) Caio Duilio;
    – Varata 8 maggio 1876;
    – Completata il 6 gennaio 1880;
    – Radiata il 27 giugno 1909;
    – Dislocamento a pieno carico: tonn 12.267;
    – Dimensioni: 109,2 metri x 19,7 x 8,8;
    – Apparato motore: 8 caldaie ovali; 2 motrici verticali a doppia espansione per una potenza di 7.710 cavalli;
    – Velocità: 15 nodi;
    – Artiglieria: 4 cannoni da 450 mm ( i più grossi del mondo); 3 cannoni da 120 mm; 2 cannoni da 75 mm; 8 cannoni da 57 mm; 22 cannoni da 37mm; 3 tubi lanciasiluri; 1 torpediniere alloggiata in un vano a poppa;
    – Equipaggio: 26 ufficiali + 397 sottufficiali, graduati e comuni.

    
Notizie e curiosità
    In considerazione della stazza, quando la regia nave Caio Duilio scese in mare, lo scetticismo caratterizzato dalla frase “non riusciranno nemmeno a vararla”, si trasformò in entusiasmo. L’ammiraglio inglese Robinson dichiarò:
    l’Italia la la sua antica squadra corazzata composta di navi di second’ordine, ma ne ha due ultrapotenti, il Duilio e il Dandolo. Nella relazione al bilancio della marina francese del 1879 si legge:” L’Italia ha ultimato la Duilio che è la più forte macchina da guerra che l’arte navale abbia creato”. Il senatore americano Bonjean ammonì il Senato USA dicendo:” La sola Duilio della marina italiana potrebbe distruggere tutta la nostra flotta”.
    Umberto I e tutta la corte partecipò al varo unitamente ad ambasciatori ed ingegneri navali anche stranieri, molti dei quali abbastanza scettici della riuscita del varo. Si racconta che l’ambasciatore cinese, vestito tradizionalmente, al momento del varo si gettò bocconi a terra. Gli chiesero se si fosse sentito male e questi rispose, con le lacrime agli occhi:
    ”Ho ringraziato Budda per avermi chiamato ad assistere ad uno spettacolo così commovente e grandioso”.

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    Ulisse e il suicidio delle sirene

    a cura Antonio Cimmino

    Questo articolo è dedicato a tutte le donne, in modo speciale a quelle dei marinai, che in ogni istante della loro esistenza si armano di santa pazienza, di buona volontà e di amore per l’unità della famiglia. Esse, come Penelope, amano semplicemente, come sempre e per sempre (Pancrazio “Ezio” Vinciguerra)

    Ulisse il mitico personaggio omerico rappresenta una metafora del viaggio di ogni individuo, quello che conduce alla conoscenza del mondo e di se stessi. Eroe antico e moderno allo stesso tempo, è un navigatore esperto che sa governare una nave ed un regno. Con il suo desiderio di avventura, il suo coraggio, la determinazione nel perseguire l’obiettivo, la capacità di leadership, la capacità di saper offrire sicurezza al proprio equipaggio, rappresenta la massima possibile espressione delle aspirazioni e delle qualità che un uomo di mare si pone e di cui desidererebbe poter disporre per realizzare i propri traguardi. D’altra parte l’uomo di mare è molto concreto per scelta e per necessità, dovendosi confrontare con un elemento che, in alcuni momenti, non lascia molto spazio alla fantasia e che richiede in ogni istante di dover risolvere il problema contingente prima di approntarsi alla soluzione di quello successivo. In questo senso ciascuno di noi marinai deve essere pienamente consapevole delle proprie capacità, frutto dell’esperienza e di un duro lavoro, per applicarle al meglio, avendo a riferimento i valori che la figura di Ulisse emblematicamente rappresenta. In una parola nessun marinaio può presumere di sentirsi come Ulisse. Ma identifica in questo mitico eroe la possibilità di raggiungere anche le mete più impegnative. Le reincarnazioni dell’eroe omerico sono decine e decine, e coloro che inaugurano il modernismo, Erza Pound, T.S. Eliot e James Joyce, lo aprono tutti significativamente, con l’ombra e le tracce di Ulisse. Un meccanismo che si ripete puntualmente dopo l’Ulisse dantesco, in romanzi come “Il vecchio e il mare”, “Il capitano Achab”, racconti coinvolgenti che nascono dallo stupore che l’uomo prova dinanzi a ciò che non conosce. In estrema sintesi, quando ciascuno di noi viene a contatto con le meraviglie del nuovo e dell’ignoto.

    La storia ci narra che oltre ad essere un indomito guerriero, fu un abile ingegnere, ne è testimonianza la prodigiosa invenzione del cavallo di Troia che ancora oggi ci sorprende per la genialità. La guerra tra troiani e greci fu vinta, da quest’ultimi, grazie a questo espediente, frutto della sua intelligenza. Oltre ad essere un abile artigiano, costruttore della zattera e del talamo nuziale, è il simbolo di chi sperimenta, ricerca, stupisce e si stupisce, di chi va alla scoperta del perché delle cose e delle ragioni di ciò che prova o incontra. Quando gli altri ritornano dalla guerra lui continua a navigare con i suoi amici per il Mediterraneo malgrado a Itaca, sua amata patria, abbia lasciato la fedele e innamorata moglie Penelope ed il figlio Telemaco. Penelope non è una donna torbida e intrigante come la malevola Circe che trasforma gli uomini in maiali. Sebbene altre donne innamorate e generose come Calipso e Nausica abbiano tentato di sedurlo, Ulisse non ha che un pensiero fisso: come ogni marinaio pensa alla sua amata, a suo figlio e alla propria terra. Prima di approdare nella sua Itaca, deve però affrontare uragani e divinità avverse; i mostri marini Scilla e Cariddi, resistere ai canti ammalianti delle sirene facendosi legare all’albero della nave. Perde i compagni nei naufragi. Si misura con il ciclope Polifemo: il gigante con un solo occhio che nell’Etna fabbrica i fulmini di Giove. Scende persino nell’Ade. Quando finalmente raggiunge la sua Itaca, malgrado Minerva lo ha trasformato in un mendicante per renderlo non identificabile, viene riconosciuto dal suo fedele cane Argo e dalla nutrice d’infanzia Euriclea. Si vendica dei Proci che tentano invano di rubargli la moglie e il regno e li uccide aiutato dal figlio. Fin qui l’epica storia del più ammirato dei marinai. Nonostante siano passati millenni dalle vicende raccontate nell’Odissea ancora oggi l’angelo del focolare resta la donna. Anzi negli ultimi tempi le donne sono diventate più forti e, pur avendo conquistato importanti posizioni nel lavoro e nella società contemporanea, rimangono, per la loro dedizione e generosità, la vera anima della famiglia, il punto di riferimento per i loro cari, il porto sicuro dopo le battaglie a cui la vita moderna ci sottopone.

    Ognuno di noi marinai sa che in fondo al proprio cuore c’è sempre una “Penelope” ad aspettarlo: la propria amata. La donna del nostro destino; la tessitrice di quel filo che, come Penelope, non finisce mai di raggomitolare, di quel filo, simbolo del legame e della continuità dell’amore eterno, che genera la vita (Pancrazio “Ezio” Vinciguerra).

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    Piroscafi di una volta e ‘mbracàta di omini e di fimmìni

    di Orazio Ferrara (*)

    Per tutto il Novecento fino agli anni Cinquanta le navi, che arrivavano a Pantelleria, dovevano necessariamente gettare l’ancora in rada e aspettare l’arrivo di una barca (poi motolancia, famosa quella dell’Agenzia Rizzo-Busetta) su cui trasbordare merci e passeggeri. Quest’ultimi scendevano sulla barca o motolancia tramite una scaletta volante, predisposta al momento lateralmente al fianco della nave. Si capisce che bastava un mare leggermente mosso per rendere il tutto difficoltoso e laborioso, oltreché estremamente pauroso per i malcapitati che non sapessero nuotare (problema che non si poneva affatto per i Panteschi).

    Invece nell’Ottocento i piroscafi, che si fermavano in rada a Pantelleria, erano del tutto sprovvisti di qualsivoglia scaletta volante, che, seppure malagevole, rappresentava pur sempre una comodità, soprattutto per i passeggeri di sesso femminile. Si ricorreva allora alla famigerata imbragata (in dialetto ‘mbracàta) per sbarcare o imbarcare i passeggeri. Operazione che dir pittoresca è dir poco.
    Nel linguaggio marinaresco e portuale l’imbragata era l’insieme di colli merci o persone o anche singolo animale, che si manovravano da bordo di una nave con un mezzo di sollevamento (il bigo di carico, una specie di gru) per sbarcarli o imbarcarli.
    Questa operazione richiedeva particolare esperienza e abilità per chi era addetto alle relative manovre volanti, in quanto un errore poteva far andare a sbattere l’imbragata di merci o peggio di passeggeri contro la fiancata della nave, con conseguenze disastrose che è facile immaginare.

    L’imbragata consisteva in un grosso sacco cilindrico di tela o di iuta molto resistente, a volte con un fondo di assi di legno, nel predetto sacco trovavano posto di norma quattro o cinque persone, poi tramite le funi del bigo di carico esso, allo sbarco, veniva calato lentamente sulla piccola imbarcazione affiancata alla nave. Logicamente si effettuava l’operazione inversa nel caso d’imbarco.
    Il rigido moralismo dei costumi di quel tempo non permetteva assolutamente che potessero essere presenti nel sacco dell’imbragata allo stesso momento uomini e donne frammischiati, in quanto durante le manovre il sacco tendeva a stringersi e i corpi venivano schiacciati l’uno contro l’altro. La cosa era stata risolta facendo carichi dello stesso sesso ovvero una ‘mbracàta di omini o una ‘mbracàta di fimmìni.
    Dell’arrivo di un piroscafo nella rada di Pantelleria sul finire dell’Ottocento (agosto 1896) abbiamo un resoconto di un inviato de L’Illustrazione Italiana. Il piroscafo è il “Principe Oddone”, proveniente da Marsala e prima ancora da Palermo. Purtroppo dell’imbragata non vi è cenno alcuno, sebbene sia stata sicuramente effettuata in quanto si parla di imbarco di emigranti e asinelli locali (assai richiesti per la loro resistenza in Tunisia). Comunque riportiamo il brano per la particolare atmosfera di un’epoca ormai andata.

    “Alle due e mezza (pomeridiane, ndr) vediamo appressarsi un’isola; il Principe Oddone getta finalmente l’ancora ed eccoci davanti alla Pantelleria, da dove ci giungono a bordo asinelli e pecore numerose, e dove la nostra ora di fermata in alto mare passa fugace nel modo più lieto, al parapetto del vapore, a vedere il tirar su e giù con una corda, dai viaggiatori e dalle eleganti viaggiatrici italiane e straniere che venivano in Tunisia, i canestri d’uva carnosa, splendida, dagli acini grossi come prune, uva di cui tutti noi – viaggiatori di prima e di seconda – si fece una vera scorpacciata!
    Alle tre e mezza il vapore toglie l’ancora – dopo aver caricato ivi altri emigranti ed asinelli famosi di Pantelleria – e dopo aver viaggiato, con un mare il più tranquillo, ancora altre dodici ore, alle due di notte il piroscafo s’arresta. Molti escono dalle cabine, salgono in coperta sotto un cielo splendidamente stellato. Ed in mezzo al silenzio della notte, lontano scorgiamo una miriade di fiammelle rifrangentisi nel mare calmo. Siamo davanti alla Goletta…”.

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