Curiosità

  • Curiosità,  Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Recensioni,  Storia

    Silvestro Boffa Tarlata (Genova, 21.11.1899 – Mare, 11.12.1916)

    di Antonio Cimmino

    (Genova, 21.11.1899 – Mare, 11.12.1916)

    Silvestro Boffa Taralatta, di Virginio e di Giovannina Boggio Marzet, nasce a Genova il 21 novembre 1899.

    Era un Guardiamarina imbarcato sulla regia corazzata Regina Margherita che, uscendo dalla Baia di Valona in Albania, urtò due mine ed affondò, portandolo in fondo al mare unitamente a 617 uomini dell’equipaggio.
    Aveva solo 17 anni, il più giovane ufficiale della Regia Marina morto in guerra.

  • Curiosità,  Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Recensioni,  Storia

    Italo Vidali (20.11.1894, Pirano (Istria) – Brindisi, 27.9.1915)

    di Carlo Di Nitto

    (20.11.1894, Pirano (Istria) – Brindisi, 27.9.1915)

    Nel corso della Prima Guerra Mondiale divenne largamente diffuso l’utilizzo di cartoline fotomontaggio, realizzate in studio, con le quali i giovani combattenti inviavano alle famiglie la propria immagine inserita in contesti o in atteggiamenti marziali.
    Questa fotografia, che ho trovato da un antiquario, venne spedita dalla regia nave da battaglia “Benedetto Brin” della quale reca l’annullo postale. Vi è raffigurato, con fotomontaggio, il volto di un giovane marinaio di 21 anni imbarcato sull’unità: Italo Vidali di Nicolò.

    L’attenta analisi del retro della cartolina anche questa volta, associata ad una breve ricerca sull’Albo d’Oro dei Caduti della Grande Guerra, racconta una storia interessante e significativa. 
E’ il 5 giugno 1915: l’Italia da dodici giorni è entrata in guerra e Italo Vidali invia a Livorno, alla propria famiglia, i suoi saluti.
    Appartenente ad una famiglia di italiani irredenti, Italo era nato il 20 novembre 1894 a Pirano (Istria) in territorio austriaco e, forse per il senso di italianità della famiglia, non a caso gli era stato attribuito il nome Italo. Iscritto nelle liste di leva della capitaneria di porto di Livorno, era stato destinato sulla prestigiosa nave da battaglia “Benedetto Brin”, imbarcato come fuochista di leva del C.R.E.M. Il suo volto sorridente inserito nella foto, dimostra che nulla gli faceva presagire il destino che l’attendeva.
    Il 27 settembre 1915, infatti, la nave sarebbe affondata nel porto di Brindisi per un’esplosione interna causata da un sabotaggio. Nell’affondamento sarebbero periti 421 uomini dell’equipaggio e, tra questi, il marinaio fuochista Vidali Italo.
    Desidero pertanto ricordare Italo e ringraziare quanti, come lui, hanno sacrificato la loro giovane vita per la Patria.
Onore ai Caduti, viva l’Italia.

  • Attualità,  Curiosità,  Recensioni,  Storia

    La macchia gialla di Monte Orlando

    di Carlo Di Nitto

    … sulla falesia di Monte Orlando a Gaeta.

    Questa potrebbe sembrare la banalissima fotografia di una roccia sul mare. Dal punto di vista fotografico forse lo è ma, guardando bene al centro dell’immagine, si intravede una parte giallastra che, dal punto di vista storico, rappresenta una curiosità. Infatti può essere interessante sapere che raffigura quanto rimane di quella che a Gaeta è nota come la “macchia gialla”, una larga e vistosa pitturazione della roccia fatta nei primi anni ’30 del ‘900 dalla Regia Marina. Era il bersaglio realizzato per addestrare sommergibili e unità di superficie al lancio di siluri; la zona adiacente ancora viene chiamata dai pescatori “i siluri” per i tanti ordigni che vi esplosero contro.
    Paradossalmente oggi questo tratto della falesia rientra nell’area marina protetta del Parco di Monte Orlando. Concezioni del rispetto della natura e dell’ambiente diametralmente opposte.
    In seguito le macchie gialle divennero due per delimitare, insieme alle boe, la zona interdetta alla navigazione. Successivamente la tolsero e fecero fare razzia di tutto il ripopolamento ittico presente all’interno dell’area protetta, fare dopo questo scempio
    Oggi se si desidera bagnarsi o immergersi agli “anuzzini” ci vuole la carta bollata.
    Per i sub è un punto di riferimento per immersioni…

    Un siluro esplode sulla “macchia gialla” durante le esercitazioni navali svoltesi nel luglio 1933 alla presenza del capo de governo Benito Mussolini.

  • Curiosità,  Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Recensioni,  Storia

    La leggenda della corazzata Palestro

    di Guglielmo Evangelista (*)

    Si può dire che leggende inquietanti, antiche e moderne, abbiano accompagnato da sempre la vita dei marinai: dalle Sirene  e dal Kraken  fino alla famosa polena Atlanta del Museo Navale della Spezia.
    Anche sulla battaglia di Lissa, a causa del fortissimo impatto sull’opinione pubblica, sono fioriti   moltissimi racconti fantasiosi che spesso hanno esagerato inesistenti meriti dei vincitori o si sono accaniti oltre misura contro gli sconfitti. E fra le tante leggende una delle meno note – ma non per questo meno creduta da coloro che la conobbero –  che circolò negli ultimi decenni del XIX secolo riguarda l’affondamento della  corazzata Palestro.
    Il Palestro era un’unità che non avrebbe dovuto trovarsi fra le navi di linea dello schieramento italiano a Lissa. Era  solo una grossa cannoniera, corazzata molto parzialmente e poco armata, progettata assieme ad altre unità minori nell’ipotesi che un giorno avrebbe potuto servire  per operazioni nella laguna di Venezia. Di conseguenza era di limitate dimensioni e soprattutto, prevedendone l’impiego solo in acque ristrette, era spaventosamente lenta anche per quell’epoca, sviluppando solo 8 nodi.

    Durante la battaglia, al comando del capitano di fregata Alfredo Cappellini, fu proprio la lentezza a creare alla nave non pochi problemi per mantenersi nella formazione delle altre corazzate nonostante il pericoloso sforzo della macchina che era riuscita a sviluppare un nodo (!) al di sopra della velocità massima.
    Alla fine la nave rimase indietro e isolata così che ne approfittarono varie unità nemiche per piombarle addosso e ingaggiarla in un impari combattimento. Le granate giunte a bordo fecero scoppiare un incendio a poppa dove il fasciame era in legno e non protetto, che fu aggravato dalla combustione del carbone accumulato sul ponte, imbarcato per previsione del maggior consumo necessario a mantenere un minimo di velocità operativa.
    Il Palestro vagò da allora in fiamme fra i combattenti  mentre l’intero equipaggio era impegnato senza successo a domare le fiamme. Quando ci si rese conto che una forte corrente d’aria penetrata da una manica a vento divelta da una cannonata spingeva il fuoco verso i depositi munizioni, il comandante Cappellini diede l’ordine di abbandonare la nave ma ben presto l’esplosione della Santabarbara  sbriciolò praticamente  l’unità quasi per intero. Scomparve con essa tutto l’equipaggio e si salvarono solo i pochi uomini che erano all’estrema prora per tentare di stendere un cavo di rimorchio a una delle navi giunte per soccorrerla in qualche modo.
    Fin qui i fatti, poi fu creata la leggenda.

    L’ostinazione con cui il comandante e l’equipaggio cercarono di salvare la nave e si sacrificarono  fece correre la fantasia facendo immaginare che si sia trattato di un suicidio collettivo.
    Di questo probabilmente furono responsabili i giornali che cercarono, esaltando l’eroismo di singoli uomini, di rendere meno pesante lo sconforto dovuto alla sconfitta inventandosi perfino scontati dialoghi retorici e patriottici avvenuti fra i marinai a bordo del Palestro.
    Francesco Domenico Guerrazzi, che di un esaltato e discutibile patriottismo fece la sua ragione di vita, dettò la lapide che venne apposta sulla  casa natale del Cappellini scrivendo di luiSDEGNOSO DI SOPRAVVIVERE ALLA MANCATA VITTORIA SE’ E GLI ANNUENTI COMPAGNI SPROFONDO’ NEL MARE. (1)
    Non sappiamo se Alfredo Cappellini avesse intenzione di affondare con la sua nave: non sarebbe stato il primo e non sarebbe stato l’ultimo a scegliere questa fine cavalleresca ma inutile perché un Comandante serve di più da vivo che da morto.
    Questo, in ogni caso, non ha mai dato diritto di sacrificare con sé l’equipaggio. Semmai il comandante prende la suprema decisione da solo, quando è rimasto l’ultimo a bordo e vede in salvo tutti i suoi uomini.
    Certo il suo stato d’animo non doveva essere dei migliori: il comportamento della sua nave durante la battaglia non era stato brillante anche se solo a causa delle già ricordate modeste prestazioni, e forse si sentiva in colpa per aver sbagliato  concentrando in precedenza tutto l’equipaggio nel ridotto corazzato senza mettere sentinelle all’esterno, così che ci si accorse dell’incendio solo quando questo era già troppo avanzato.
    E’ questo il rilievo mossogli “a posteriori” circa la sua condotta: altri comandanti, con una più attenta vigilanza, seppero intervenire per tempo in casi del genere.
    Che sia però stato coinvolto o sia stato in qualche modo subornato tutto l’equipaggio, che nel momento supremo avrebbe gridato all’unisono “Viva l’Italia, viva il re!” è qualcosa di cui non esiste riscontro: le testimonianze dei superstiti non vi accennano né dalle altre navi, che erano vicinissime si sentì alcun grido. .
    Un’altra considerazione è che azioni del genere vanno concertate in anticipo,  da un capo con un particolare carisma mistico e si sono verificate solo in circostanze di fanatismo religioso, e lo dimostra anche il fatto che, anche se troppo tardi, era stato dato l’ordine di abbandonare la nave.
    D’altra parte non c’è neppure motivo di pensare a un particolare attaccamento dei marinai al loro comandante o alla loro nave: Cappellini aveva assunto il comando da poco tempo, l’equipaggio era raccogliticcio perché in parte sostituito  nelle settimane precedenti né fino alle giornate di Lissa la corazzata aveva partecipato ad alcuna attività bellica e quindi non era maturato abbastanza tempo per invocare sentimenti particolari di devozione alla persona o di affetto per la nave.
    Ciò non toglie che l’affondamento del Palestro rappresenti uno dei più alti esempi di attaccamento al dovere fino all’estremo, ma sicuramente invece di cercare l’olocausto, dal Comandante all’ultimo mozzo tutti  aspettavano il momento in cui l’incendio sarebbe stato domato e la nave, anche se malconcia, avesse potuto abbandonare quelle maledette acque e  vedere sorgere all’orizzonte  la rassicurante mole del promontorio di Ancona.
    Il destino fece il resto.   

    (1) La casa si trovava a Livorno in via Grande 65, ma venne distrutta dai bombardamenti. L’attuale lapide è una replica apposta sul nuovo edificio che ha preso il posto di quello precedente.

    (*) per conoscere gli altri suoi articoli digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome