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27.8.1944, nel ricordo di Carlo Fecia di Cossato il samurai azzurro

di Orazio Ferrara

… ovvero l’asso dei sommergibilisti italiani.

Il conte Carlo Fecia di Cossato (Roma 5.9. 1908 – Napoli 27.8.1944), l’asso dei sommergibilisti italiani nella seconda guerra mondiale, è una di quelle purissime figure della nostra sfortunata guerra a mare nell’ultimo conflitto mondiale. Proprio per quel suo adamantino comportamento, alieno da ogni pur minimo compromesso, riesce però alla fine ad essere una figura scomodissima per tutti noi italiani, amanti della fazione sopra ogni altra cosa.
Non piace la sua figura a quelli che definiremo, per comodità di linguaggio, del campo di destra, perché, quando la guerra è appena agli inizi e tutto sembra procedere per il meglio, egli già si è reso conto della sbalorditiva impreparazione e incompetenza di gran parte degli alti comandi militari italiani, allevati e coccolati da certi stupidi settori del fascismo-regime, che badano più all’apparenza che alla sostanza. Confesserà in quei giorni, siamo agli inizi di aprile del 1941, al suo amico capitano di fregata Longanesi-Cattani: “Lo so, tutto sembra andare per il meglio. La Germania è padrone dell’Europa. Stiamo avanzando in Cirenaica, il generale Wawell è in rotta oltre Bengasi… Eppure saranno loro a vincere”, poi aggiunge deciso “Ma tutto questo non può avere conseguenza sull’impegno d’onore che abbiamo. In ogni caso il mio dovere di ufficiale è di battermi fino a che avrò gli ordini e i mezzi per farlo”. In quest’ultime parole, tutto il carattere dell’uomo.
Non piace a questa gente soprattutto la sua scelta, dopo l’8 settembre 1943, di essere dalla parte del re, cui un giorno aveva giurato fedeltà, e contro l’ex alleato tedesco, che pur l’aveva insignito di ben tre Croci di Ferro. Dimentica questa gente che in quel tempo ognuno ebbe il suo personale tragico 8 settembre e per Carlo Fecia di Cossato, ufficiale della Regia Marina, la scelta era obbligata dal solco della tradizione familiare.
Ma il comandante di Cossato è un uomo davvero straordinario perché riesce a non piacere nemmeno a quelli del campo monarchico, in quanto con il suo suicidio, ma soprattutto con quella lettera di commiato ai suoi, vero e proprio testamento spirituale, erige un atto d’accusa senza appello verso la stessa monarchia sabauda, da lui sempre servita con assoluta dedizione, incapace di cadere, come l’ora tragica impone, con onore e rea dell’infamia di aver consegnato la flotta al nemico.
Né tantomeno la sua figura piace alla gente della nuova Italia, che in quel periodo si sta delineando all’orizzonte, un po’ furbastra e un po’ cinica. Un po’ tonaca nera di preti e un po’ camicia rossa di popolo. Non piace a quest’ultima fazione l’estremo gesto del comandante di Cossato, gesto che si richiama a valori come l’onore militare ed altra paccottiglia patriottarda del genere, dicono. Orpelli del fascismo che fu, da liquidare con qualche battuta sarcastica.
Anche un personaggio della levatura di un Pietro Nenni avrà, sull’argomento in questione, una clamorosa caduta di stile. Scriverà che “Carlo Fecia di Cossato ha fatto harakiri”. Vorrebbe essere beffardo ed invece compila, senza volerlo, il più bello epitaffio per il comandante di Cossato.
Già harakiri come un antico samurai. A testimoniare, con il proprio sangue, che certi valori sono intramontabili e sono patrimonio dell’intera comunità, la quale, solo attraverso di essi, può essere grande. Le fazioni, di fronte a ciò, dovrebbero fare un passo indietro.
La figura di Carlo Fecia di Cossato non piace infine a tutto quel mondo militare italiano che, con la sua irresponsabilità, il suo pressappochismo, la sua impreparazione e con l’ombra terribile ed infamante, in alcuni suoi ambienti, di intelligenza con il nemico, ha mandato allo sbaraglio ed alla morte certa migliaia e migliaia di uomini. Il gesto del comandante di Cossato inchioderà questi ambienti alle loro enormi, gravissime responsabilità negli anni a venire.
Carlo Fecia di Cossato nasce a Roma, il 25 settembre 1908, da Carlo e Maria Luisa Genè. La sua è un’antica famiglia nobiliare piemontese, investita del titolo di conte, legata da sempre alla causa dei Savoia. L’originario cognome Fesh del capostipite, giunto in Italia intorno al primo millennio al seguito di Umberto Biancamano, indica chiaramente la provenienza d’oltralpe. L’ironico motto di famiglia “Ex optimo vino etiam faeces” (Dall’ottimo vino anche la feccia) è di epoca tarda, quando è ormai andata perduta la conoscenza dell’originario cognome Fesh.
Terminati gli studi al Regio Collegio di Moncalieri, gestito dai padri Barnabiti, il giovane Carlo, Charlot per i familiari e gli amici più intimi, decide di seguire, come d’altronde ha già fatto in precedenza il fratello Luigi, le orme del padre ex capitano di vascello della Regia Marina. Entra così all’Accademia Navale di Livorno, da dove ne esce, nel 1928, con il grado di Guardiamarina. Ha vent’anni in quel tempo Carlo Fecia di Cossato ed è orgoglioso di indossare la splendida divisa della Regia Marina. Biondo, magro, occhi chiari, già allora s’intravede quel suo carattere per niente incline ai compromessi. Dal carattere dunque spigoloso, ma anche affascinante, egli è uno di quegli uomini nati per il mare e che sul mare compiono imprese epiche, destinate a diventare leggende. E leggendarie, bellissime pagine di storia della guerra a mare scriverà, nella sua pur breve vita, il conte Carlo Fecia di Cossato. Una medaglia d’oro, due d’argento, tre di bronzo, una croce di guerra e tre croci di ferro tedesche, sono l’eloquente testimonianza del non comune valore e coraggio del comandante di Cossato in mare.
Il guardiamarina di Cossato chiede subito di entrare nella nuova pericolosa specialità di osservatore aereo come il fratello Luigi, medaglia d’argento al valor militare per lo sbarco di Bargal in Somalia nel 1925 e morto successivamente in Calabria durante un’esercitazione con il suo velivolo. Già da questa decisione, che peraltro rivela una intuizione non comune per quanto riguarda l’importanza dell’arma aerea nella futura guerra navale e della necessità di una stretta collaborazione tra le due armi (e invece alla fine questa sinergia non ci sarà e ciò ci costerà assai dure sconfitte nel conflitto mondiale), si può indovinare di che tempra è fatto quel giovane ufficiale. Sempre pronto a sfidare il fato. Ma lo Stato Maggiore della Marina è del parere di evitare, per il momento, questa sfida, che metterebbe a dura prova una famiglia già straziata dal dolore. Per Carlo Fecia di Cossato arrivano così gli imbarchi sul sommergibile Bausan, sull’incrociatore Ancona e sul cacciatorpediniere Nicotera.
Dopo aver frequentato, con profitto, il Corso Superiore all’Accademia e conseguito il grado di sottotenente di vascello, s’imbarca sull’incrociatore Libia in partenza per la Cina. Qui, prima a Shangai poi a Pechino, riceve il comando di un distaccamento di truppe da sbarco. In questo periodo vive anche una romantica storia d’amore con una ragazza cinese. La missione ha termine nell’anno 1933, quando l’incrociatore Libia rientra in Italia. Partecipa poi alla guerra in Abissinia, con l’incrociatore Bari, alla difesa del porto di Massaua.
Dopo un breve incarico presso lo staff dell’ammiraglio De Feo in Africa Orientale, il sottotenente di vascello Carlo Fecia di Cossato, che è nato per vivere di mare e sul mare, s’imbarca di nuovo, prima sulla torpediniera San Martino, poi sulla Polluce ed infine sull’Alcione, navi tutte di base nei porti della Libia. Successivamente ottiene l’imbarco su un’unità sommergibile, con la quale partecipa a due rischiose missioni speciali nelle acque spagnole, al tempo della guerra civile che insanguina la penisola iberica. Piace al giovane sottotenente quella vita impossibile a bordo dei sommergibili, con i suoi solitari agguati sulle sconfinate distese marine. Il suo intuito, felice come sempre, lo porta a riconoscere subito l’importanza dell’arma subacquea nella guerra a venire; per questo motivo, nel 1939, frequenta la Scuola Sommergibilisti di Pola.
L’entrata in guerra coglie Carlo Fecia di Cossato, ora tenente di vascello, a bordo del sommergibile Menotti, con base a Messina e facente parte della 34a Squadriglia. Nell’autunno del ’40 è trasferito a Betasom, sull’Atlantico presso Bordeaux in Francia, dove sommergibili italiani affiancano quelli tedeschi nella gigantesca battaglia contro i convogli alleati, che è appena iniziata su quel vasto oceano. Viene quindi nominato ufficiale in seconda del sommergibile “Enrico Tazzoli”, comandato dal capitano di corvetta Vittore Raccanelli.

Il Tazzoli, tutto sommato un buon sommergibile per quei tempi, ha i seguenti dati tecnici:
Classe del tipo Calvi;
Cantiere: Odero Terni Orlando, La Spezia, 1932-1935;
Dislocamento: 1.331 / 1.965 tonnellate;
Lunghezza: 83,3 metri;
Larghezza: 7,70 metri;
Immersione: 4,90 metri;
Tipologia scafo: doppio scafo;
Carburante: 75 tonnellate di gasolio;
Autonomia in emersione: 11.400 miglia a 4 nodi;
Autonomia in immersione: 120 miglia a 3 nodi;
Motori: 4.400 hp diesel / 1.800 hp elettrico;
Velocità in emersione: 17 nodi;
Velocità in immersione: 8,75 nodi;
Siluri: 8 – 16 da 533 mm;
Cannoni: 2x120mm/ 45;
Antiaerea: 4 x 13,2;
Mine: 14;
Equipaggio: 72 uomini;
Profondità operativa: 90 metri.

Quale comandante in seconda, di Cossato partecipa alle azioni che vedono il siluramento e l’affondamento del piroscafo jugoslavo Orao e di quello inglese Ardabhan. La neo promozione a capitano di corvetta è il segno che anche per lui è ormai prossimo il comando di un sommergibile.
Non deve aspettare molto, il 5 aprile del 1941 Carlo Fecia di Cossato riceve il comando dello stesso Tazzoli, in sostituzione del Raccanelli che va al Giuliani. All’equipaggio schierato per l’occasione, poche e perentorie parole: “Se qualcuno vuole sbarcare lo dica subito. Io intendo partire con gente pronta a tutto…”. Per il tipo di guerra sottomarina che ha intenzione di condurre, di Cossato ha bisogno di uomini che si sentano innanzitutto volontari. Non un solo muscolo si muove sulle facce, indurite dal vento e dalla salsedine, di quei marinai schierati sull’attenti. Da quel momento si sentono, sono tutti volontari. Andranno con quel diavolo del nuovo comandante, che hanno già imparato a stimare come vice nei mesi trascorsi, financo all’inferno, se necessario. E comincia la mattanza delle navi nemiche, quando tutto finirà di Cossato con il suo Tazzoli avrà scritto pagine epocali nella storia della guerra subacquea.
La sera del 7 aprile 1941 il Tazzoli, al comando di Carlo Fecia di Cossato, molla gli ormeggi dal molo della base di Betasom. Obiettivo della missione: pattugliare le acque dell’Atlantico al largo dell’Africa Occidentale e attaccare il traffico nemico. L’indomani e per alcuni giorni successivi il sommergibile è impegnato in tutta una serie di faticose esercitazioni. Ripetute immersioni ed emersioni, cronometrate dallo stesso comandante. In tempi sempre più rapidi, fino a sfibrarsi. Di Cossato, che come secondo spesso ha morso il freno, adesso può applicare e sperimentare i suoi personali criteri nella guerra sottomarina.
Il giorno 11 aprile il sommergibile giunge nella zona assegnata ed inizia il pattugliamento tra le isole Azzorre e Freetown, dove più intenso è stato segnalato il traffico del naviglio nemico. La mattina del 12, il Tazzoli lancia due siluri contro un incrociatore inglese, che naviga di conserva con un’altra nave da guerra dello stesso tipo. Si odono in rapida successione due forti esplosioni, nel mentre il battello italiano s’immerge immediatamente a quota superiore ai 100 metri, per sfuggire all’altro incrociatore, che prima cerca di speronarlo e poi inizia un fitto lancio di bombe di profondità. Successivamente il Tazzoli riemerge in mezzo ad una larga chiazza di nafta e a relitti di vario genere, segno di un naufragio recente. Intanto all’orizzonte si vede scomparire la sagoma di un incrociatore. La Marina imperiale inglese non comunicherà mai di aver subito perdite di sue navi, a quella data, in quella zona, d’altronde lo stesso di Cossato segnalerà correttamente soltanto l’attacco e non l’avvenuto affondamento. Su questo egli sarà sempre di una puntigliosa precisione, più unica che rara, infatti scriverà nel libro di bordo sempre i nomi esatti delle navi affondate.
La sera del 15 aprile, alle ore 22 e 30 minuti circa, il Tazzoli attacca e affonda il piroscafo inglese (ex francese) Aurillac, di 4.733 tonnellate. Lo scontro è stato estremamente vivace. Dopo un primo tentativo di siluramento, il sommergibile italiano è emerso ed ha attaccato a cannonate l’Aurillac, che ha risposto furiosamente al fuoco con il cannone, di cui era armato. Quest’ultimo, poi, è stato messo a tacere da ben assestati colpi delle mitragliere del Tazzoli. Infine un siluro ha mandato negli abissi marini la nave inglese. E’ la prima preda per di Cossato, nelle vesti di comandante.
La coraggiosa tecnica di combattimento, di riemergere e finire la preda a cannonate, tutta italiana e forse un tantino suicida, è ammirata e un po’ invidiata persino dai nostri alleati tedeschi, che in quanto a strategia e tattiche della guerra sottomarina, con i loro u-boot, non hanno certamente nulla da imparare da nessuno.
La mattina del 7 maggio 1941 un’altra ghiotta preda è affondata dai siluri del sommergibile italiano. Si tratta del piroscafo norvegese Fernlane, di 4.310 tonnellate, al servizio degli inglesi e per i quali trasporta un prezioso carico di munizioni.
Due giorni dopo, il 9, il cielo è rotto da continui piovaschi, malgrado ciò di Cossato dà una caccia serrata, per l’intera giornata, ad una petroliera nemica, che sul far della sera è finalmente affondata. E’ l’Alfred Olsen di 8.817 tonnellate, anch’essa è norvegese ed è al servizio degli inglesi.
Il 25 maggio 1941 il Tazzoli rientra a Bordeaux. La marcia della banda musicale della Marina tedesca, schierata sulla banchina, saluta festosamente l’equipaggio italiano. Per di Cossato, come prima volta da comandante, non è andata male. Un incrociatore attaccato e forse danneggiato, se non addirittura perduto, tre navi affondate. Questa missione di aprile-maggio 1941 gli comporterà il conferimento di una Medaglia d’Argento al Valore Militare.
Il 15 luglio 1941, seconda missione in Atlantico per di Cossato, al comando del Tazzoli. Zona di caccia tra le Azzorre e Capo Verde, al largo di Freetown. Dopo circa un mese di infruttuosi agguati, finalmente il 12 agosto attacca e fa arenare sugli scogli il piroscafo inglese Sangara di 5.449 tonnellate. Il 19 altra preda per i siluri del Tazzoli, la petroliera norvegese Sildra da 7.313 tonnellate, che viene affondata.
L’11 settembre ’41 termine della missione e rientro a Betasom.
Per questa seconda missione, viene concessa a di Cossato la Medaglia di Bronzo al Valore Militare. Anche i tedeschi cominciano ad accorgersi della bravura di questo giovane comandante italiano, e lo insigniscono della Croce di Ferro di 2a Classe.
Si approfitta del turno di riposo dell’equipaggio, per mandare il Tazzoli in arsenale per grandi lavori di riammodernamento, che devono dare al battello una configurazione più adatta, al pari degli u-boot tedeschi, per la guerra in Atlantico. La mastodontica torretta, che tanti grattacapi ha dato ai sommergibilisti italiani, viene rimpicciolita. Resa più funzionale la postazione anti-aerea, cambiata la colorazione mimetica, sostituiti i periscopi e le antenne radio.
Nel dicembre del 1941 il Tazzoli è nuovamente pronto per le missioni di guerra, quando arriva la notizia che, in Atlantico, è stata scoperta ed affondata la famigerata nave corsara tedesca Atlantis del capitano Rogge. I naufraghi dell’Atlantis sono stati raccolti dalla nave appoggio Pyton. Purtroppo anche quest’ultima è stata poi affondata. Ora i naufraghi in acqua sono tutti quelli dell’Atlantis e del Pyton messi insieme. I quattro u-boot tedeschi, mandati in soccorso, sono decisamente insufficienti, per cui l’ammiraglio Doenitz chiede a Betasom di mandare in aiuto dei sommergibili italiani. E’ giocoforza accettare. Così il Tazzoli, il Torelli, il Calvi e il Finzi ricevono l’ordine di sbarcare parte degli equipaggi e imbarcare riserve di cibo ed acqua, per poi partire per questa missione di salvataggio al largo di Capo Verde.
Dopo la fine della guerra, su quest’episodio s’innescherà una polemica storica. Lo scrittore Antonino Trizzino, nel suo “Sopra di noi l’oceano” (Milano, 1962), ipotizzerà che i tedeschi abbiano chiesto l’aiuto dei quattro sommergibili agli italiani, dimezzando così praticamente la forza operativa di quest’ultimi in Atlantico, pur avendo a disposizione oltre 200 dei loro sommergibili, perché sapevano della prossima entrata in guerra degli Stati Uniti e si preparavano quindi a cogliere, in quelle lontane acque, facili e strepitosi successi, senza avere tra i piedi indesiderati concorrenti. Al riguardo, Trizzino riporterà, sempre in “Sopra di noi l’oceano”, la testimonianza del De Giacomo, comandante del Torelli: “Sapendo che cosa si preparava hanno mandato noi a salvare i loro naufraghi e loro se ne sono andati in America a far strage di piroscafi”.
Dunque dal 7 dicembre 1941 di Cossato è in mare, col Tazzoli, per la missione di soccorso ai naufraghi tedeschi. Arrivato in zona, ne prende a bordo una settantina e quindi riprende la rotta di ritorno. Il giorno di Natale il Tazzoli giunge finalmente a Saint Nazaire, base dei sommergibili tedeschi. Il commiato tra Carlo Fecia di Cossato e il capitano dell’Atlantis, due veri lupi di mare, è assai cordiale. Scrive ancora il Trizzino, nel già citato libro, “Rogge dimostra particolare effusione nel salutarlo e ringraziarlo. Ne conosce già la fama di corsaro dell’Atlantico”. L’ammirazione dell’altero capitano Rogge, lui stesso un mito vivente della guerra a mare di quel periodo, per di Cossato è la dimostrazione lampante della crescente ammirazione verso quest’ultimo da parte dei nostri alleati tedeschi.
Lasciato Saint Nazaire e rientrato a Betasom, di Cossato, come tutti gli altri comandanti dei sommergibili partecipanti alla missione di salvataggio, riceve dallo stesso Doenitz la decorazione della Croce di Ferro di 1a Classe.
L’11 febbraio 1942 la prua del Tazzoli fende nuovamente le onde dell’Atlantico. Questa volta zona d’operazione sono le lontane coste nord-americane della Florida. Agli inizi di marzo il battello già pattuglia quelle coste. Qui di Cossato si prepara a cogliere i suoi più bei successi di sommergibilista.
Comincia il 6 marzo quando attacca e affonda il piroscafo olandese Astrea di 1.406 tonnellate. Il giorno dopo, il 7, prima del levar del sole, affonda la motonave Torsbergfjord da 3.156 tonnellate, di nazionalità norvegese. Tre giorni dopo, il 9, affonda il piroscafo uruguaiano Montevideo di 5.785 tonnellate. Il Montevideo è un’ex nave italiana, confiscata dagli Alleati all’inizio della guerra.
L’11 marzo tocca andare a fondo al piroscafo panamense Cygney di 3.628 tonnellate. Durante l’affondamento di questa nave, il comandante di Cossato, sporgendosi dalla torretta e sventolando un tricolore, grida all’indirizzo di una scialuppa di naufraghi “…e adesso andate a raccontare agli americani che non è vero che gli italiani vengono fin qui ad affondare le navi”. Lo sfogo del di Cossato, peraltro sempre flemmatico, è dovuto al fatto che la stampa e la radio americane, in quei giorni, non avevano risparmiato pesanti ironie sull’assenza della “flotta sottomarina più potente del mondo” e sui marinai italiani, accusati di non osare di spingersi così lontano nell’oceano.
Il 13 marzo è poi la volta dell’affondamento della nave inglese Daytoian da 6.434 tonnellate. Il 15 marzo viene colata a picco la petroliera inglese Athelqueen di 8.780 tonnellate. In quest’ultimo scontro, manovrando per sfuggire alla rabbiosa reazione dei caccia di scorta, il Tazzoli urta la petroliera che sta affondando e ne riporta il danneggiamento della prua e dei relativi tubi lanciasiluri. Per tale motivo è costretto a rientrare alla base di Betasom, dove attracca il 31 marzo 1942. Comunque di Cossato si è tolta la bella soddisfazione di aver affondato ben sei navi nemiche per complessive 29.189 tonnellate in solo 10 giorni, dal 6 al 15 marzo 1942.
Per i brillanti successi di questa missione, di Cossato riceve una seconda Medaglia d’Argento al Valore Militare. Il 9 maggio 1942 la Marina da guerra tedesca riconoscendo le non comuni capacità combattive di questo giovane comandante italiano di sommergibile, gli conferisce l’alta onorificenza della Croce di 2a Classe con Spada dell’Ordine dell’Aquila tedesca.
A giugno terminano i lavori di riparazione dei danni riportati dallo scafo del Tazzoli. Il 18 giugno 1942 il sommergibile, sempre comandato da di Cossato, parte per una nuova missione nel mar dei Caraibi. Giunti in quelle acque, gli italiani si accorgono che esse sono strettamente sorvegliate dalle forze aeree e navali americane. Il battello, dopo aver subito reiterati attacchi aerei nemici, si sposta ad est di Trinidad. Il 2 agosto sorprende e affonda la nave greca Castor da 1.830 tonnellate.
Il 6 agosto il Tazzoli attacca la petroliera norvegese Havsten di 6.161 tonnellate. Il comandante di Cossato, sempre cavalleresco, dà il tempo all’equipaggio di trasbordare su una nave neutrale argentina e poi cola a picco con i siluri la petroliera. Comunque di quest’ultima ci sarà un naufrago, un gatto aggrappato ad un relitto, che viene prontamente salvato dai sommergibilisti italiani.
Dopo questo scontro il Tazzoli inizia il lungo viaggio di ritorno verso Bordeaux, dove arriva il 5 settembre, per poi entrare subito nei bacini di carenaggio per le opportune revisioni dopo una così lunga missione di guerra, durata ben oltre 70 giorni.
Intanto a di Cossato viene conferita una seconda Medaglia di Bronzo al Valore Militare.
Il 14 novembre 1942 di Cossato è nuovamente in caccia col Tazzoli. Meta questa volta sono le coste della Guiana olandese e di quella inglese. Il 12 dicembre al largo della Guiana olandese, davanti Paramaribo, affonda il piroscafo inglese Empire Hawk da 5.033 tonnellate. Nello stesso giorno, al largo di Georgetown, il Tazzoli sorprende ed affonda l’Ombilin, un piroscafo olandese di 5.638 tonnellate.
Il 21 dicembre un nuovo successo, viene affondata l’inglese Queen City di 4.814 tonnellate. A bordo del sommergibile italiano si fa appena in tempo a festeggiare la vigilia di Natale con i naufraghi raccolti, che il giorno dopo, il 25, viene silurata e affondata la motonave statunitense Dona Aurora di 5.011 tonnellate. Come sempre hanno fatto buona caccia il Tazzoli e Carlo Fecia di Cossato. Quattro navi nemiche affondate in poco più di dieci giorni, dal 12 al 25 dicembre.
Durante la crociera di ritorno il Tazzoli incontra il Cagni, cui tenta di cedere i siluri rimasti. Ma l’operazione di trasbordo non è possibile per le avverse condizioni meteo-marine. Sempre sulla rotta del ritorno, viene poi attaccato da un aereo quadrimotore inglese. Quest’ultimo viene abbattuto dal preciso tiro contraereo dei sommergibilisti italiani. Il rientro a Bordeaux avviene il 2 febbraio 1943.
Nello stesso giorno per il comandante di Cossato c’è l’ordine di sbarco e di rientro in Italia, dove dovrà assumere il comando della torpediniera Aliseo, facente parte della 5a Squadriglia Torpediniere di scorta. Secondo lo Stato Maggiore della Marina la rotazione si è resa improcrastinabile a causa della lunghissima permanenza d’imbarco del di Cossato sul Tazzoli. Un vero record per qualunque sommergibilista, ove si considerino le condizioni di estremo disagio a bordo dei battelli. Se la vita a bordo di un sommergibile non è facile in tempo di pace, figuriamoci in tempo di guerra. D’altronde non è difficile immaginare il forte stress cui si sottoponeva il comandante di Cossato durante le missioni, se si pensa che non dormiva quasi mai, tenendosi sveglio con continui caffè e con la sigaretta perennemente accesa.
Intanto il vecchio e glorioso Tazzoli, nonostante l’alto numero di successi conseguiti, viene convertito in unità di rifornimento ed appoggio. Il 15 maggio 1943, con un carico di metalli strategici per i nostri alleati giapponesi, lascia Bordeaux con destinazione Singapore, al comando del capitano di corvetta Giuseppe Caito. Da questa missione non ritornerà mai più, il suo scafo con l’intero equipaggio giace da qualche parte negli abissi dell’Atlantico. La ferale notizia è un duro colpo per di Cossato. Lo segnerà per sempre.
Per azioni svolte con l’Aliseo in Mediterraneo, Carlo Fecia di Cossato nel luglio del ’43 riceve una Croce di Guerra al Valore Militare, qualche tempo dopo gli viene conferita una terza Medaglia di
Bronzo al Valore Militare.
La giornata del 9 settembre 1943, appena un giorno dopo il fatidico e, per tanti italiani, tragico 8 settembre, coglie di Cossato sempre al comando della torpediniera Aliseo, ormeggiata nel porto di Bastia in Corsica tra numeroso naviglio tedesco. Quest’ultimo cerca con la forza di avere ragione della nave italiana. Ma di Cossato non è certo il tipo da spaventarsi, anche in presenza di nemici in numero soverchiante. Ripugna soltanto alla lealtà di quel marinaio generoso, il dover combattere contro l’amico e alleato di appena ieri. Così l’Aliseo, con i suoi tre cannoni da 100 e le sei mitragliere da 20, apre un fuoco d’inferno contro gli assalitori. Ed alla fine due caccia e cinque motozattere armate tedesche hanno la peggio. Non c’è esultanza da parte del comandante italiano, ma soltanto la consapevolezza di aver compiuto il suo dovere.
La sera stessa di quel 9 settembre, dopo lo scontro vittorioso, Carlo Fecia di Cossato si ritira nella sua cabina e chiede alla sua ordinanza di portargli un paio di forbici. Ne esce qualche ora dopo, silenzioso e triste in volto. I suoi marinai notano subito che si è tolto dalla divisa i nastrini delle tre decorazioni tedesche. Fare quel gesto gli è costato moltissimo, è stato come rinnegare una parte del suo passato. E di Cossato non è uomo dai facili rinnegamenti.
Per il comportamento da prode tenuto nella giornata del 9 settembre e per gli altri gloriosi precedenti fatti d’arme, gli viene concessa la Medaglia d’oro al Valore Militare, con la seguente superba motivazione:
“Valente ed ardito comandante di sommergibile, animato fin dall’inizio delle ostilità, da decisa volontà di successo, durante la sua quinta missione di guerra in Atlantico affondava 4 navi mercantili per complessive 20.516 tonnellate ed abbatteva, dopo dura lotta un quadrimotore avversario. Raggiungeva così un totale di 100.000 tonnellate di naviglio avversario affondato stabilendo un primato di assoluta eccezione nel campo degli affondamenti effettuati da unità subacquee.
Successivamente comandante di torpediniera, alla data dell’armistizio dava nuova prova di superbo spirito combattivo attaccando, con una sola unità, sette unità germaniche di armamento prevalente che affondava a cannonate dopo aspro combattimento, condotto con grande bravura ed estrema dedizione.
Esempio fulgido ai posteri di eccezionali virtù di comandante e di combattente, e di assoluta dedizione al dovere.
Oceano Atlantico, 5 novembre 1942 – 1 febbraio 1943 – Alto Tirreno, 9 settembre 1943”.
Non è bella, né piacevole la vita nella base navale di Taranto, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Abituato agli orizzonti sconfinati e puliti dell’Atlantico, quando su quel vasto oceano, con il suo sommergibile, conduceva una spietata caccia contro le navi nemiche, ritrovarsi adesso nella sporcizia fisica e morale di quella che fino a qualche tempo prima era stata una splendida città, cara al cuore di ogni marinaio italiano, è davvero scioccante per il comandante di Cossato, promosso ora al grado di capitano di fregata.
Fa male al suo cuore vedere tutta quella folla di trafficoni, ruffiani, furbastri, che dalla sventura della comune patria ne ritraggono laidi guadagni personali. Orrenda peste che rode anche certi ambienti della Regia Marina, dove per molti, per troppi, il tornaconto personale importa più del supremo bene comune. Offende Carlo Fecia di Cossato il turpe commercio di giovani corpi femminili. L’offendono oltremodo quei cartelli in inglese, in cui si invitano i marinai delle navi anglo-americane a non dimenticarsi delle proprie mogli, lasciate in patria. E quegli altri cartelli, sempre in lingua inglese, che consigliano a non mangiare gelati italiani per via del tifo. Sporcizia, solo sporcizia. L’intera città, con la sua base navale, sembra ora un enorme, unico corpo in disfacimento. Dappertutto fetore e putridume.
Non per tutto questo di Cossato ha consegnato la propria nave da guerra all’ex nemico, su ordine del suo re. Ordine che per lui è stato come una sentenza di morte del suo onore militare. Mille volte meglio morire, combattendo, sulla tolda di una nave o nello scafo di un sommergibile. E malgrado ciò ha obbedito. Tutto è piccolo, sporco, opaco, senza alcun barlume di grandezza in quei tristi giorni a Taranto per l’ex comandante del Tazzoli. E poi le notti insonni a rimuginare su quel suo destino beffardo che lo ha voluto salvo, mentre il suo sommergibile, con tutto l’equipaggio in assetto di guerra, giace in fondo agli abissi dell’Oceano Atlantico.
Infine quei convulsi, fatidici giorni di fine primavera del 1944, quando nella base di Taranto si sparge la notizia che al termine della guerra, nonostante la cobelligeranza, molte delle navi militari italiane saranno cedute ad altre nazioni (cosa che poi si verificherà puntualmente). A questa notizia il comandante di Cossato impartisce agli ufficiali della squadriglia di torpediniere al suo comando la seguente disposizione, che testimonia come non tutti gli italiani abbiano intenzione di rinunciare a difendere la propria dignità: “Se venisse confermato l’ordine di consegna, dovunque vi troviate lanciate tutti i vostri siluri e sparate tutti i colpi che avete a bordo contro le navi che vi stanno intorno, per rammentare agli angloamericani che gli impegni vanno rispettati; se alla fine starete ancora a galla, autoaffondatevi”.
Poi il fattaccio. Il 10 giugno 1944 in occasione della festa della Marina, il ministro di quest’ultima l’ammiraglio De Courten dirama il tradizionale messaggio agli equipaggi. Con somma meraviglia di tutti, ci si accorge che il re non appare per niente citato. All’iniziale stupore segue prima il mugugno, poi l’indignazione in un corpo, come la Marina, che, al pari dei carabinieri, è il più monarchico fra quelli delle forze armate. Inoltre circola voce certa che i ministri del nuovo governo hanno addirittura rifiutato di giurare nelle mani del re.
Gli uomini della base di Taranto sono in fermento per quegli che ritengono intollerabili e gratuiti affronti verso la persona del re. Per tentare di calmare gli animi, l’ammiraglio Nomis di Pollone convoca tutti comandanti per il 22 dello stesso mese di giugno. Ma la situazione precipita, allorché le sue parole fanno chiaramente capire che di fatto la Marina non deve più obbedienza al re, ma al nuovo governo, che peraltro, sollecitato, si è ancora fermamente rifiutato di giurare fedeltà alla Corona. Nella sala gremita, resa nebbiosa dal fumo delle tante sigarette accese, si erge d’improvviso la figura ieratica del comandante Carlo Fecia di Cossato. Il brusio subito si zittisce. Pallido in volto, pervaso dal freddo furore dei giusti quando la misura è al colmo.
“No, signor ammiraglio -sono queste le prime lapidarie parole del conte di Cossato- il nostro dovere è un altro. Io non riconosco come legittimo un governo che non ha prestato giuramento al re. Pertanto non eseguirò gli ordini che mi vengono da questo governo. L’ordine è di uscire in mare domattina al comando della torpediniera Aliseo. Ebbene l’Aliseo non uscirà”.
No, signor ammiraglio. Costano queste parole a quel giovane ufficiale della Regia Marina italiana con il petto stracolmo di medaglie al valore, uso fino ad allora ad obbedire tacendo, senza battere ciglio, a qualsiasi ordine dei propri superiori gerarchici. Questa volta Carlo Fecia di Cossato non vuole e non può obbedire a degli ordini, provenienti da un governo che, per non aver giurato fedeltà alla Corona, ritiene illegittimo.
No, signor ammiraglio. Lo esige il suo onore di ufficiale di marina, ma soprattutto il ricordo di quegli uomini laggiù in fondo ai gelidi abissi dell’Atlantico. Oh, non si tratta di una stupida ripicca come qualcuno vuol furbescamente far credere. E nemmeno della fedeltà di un monarchico convinto, o almeno non solo di questo, di Cossato ha subito intuito, a differenza degli altri, che la strada intrapresa dai nuovi governanti porterà fatalmente a considerare inutile, se non peggio, il sacrificio della vita di tanti giovani combattenti nella prima fase della guerra che sta per concludersi. Ed è contro questa logica cinica la sua veemente ribellione. Sempre in ciò, è probabilmente da ricercarsi la vera chiave di lettura del suo successivo, estremo gesto di protesta.

Una brutta gatta da pelare anche per certi spregiudicati maneggioni dello Stato Maggiore della Marina, che armeggiano silenziosi nell’ombra, cercando di trasbordare, col minor possibile loro danno personale, dai fasti della marina imperiale dell’Italia monarchica-fascista ai fasti della nuova Italia, forse repubblicana, che comincia ad intravedersi all’orizzonte. Sembra quasi di sentirli. Ma come si permette quel pazzo illuso, che non vuole stare con i piedi per terra. Si cerca poi mellifluamente di far recedere di Cossato dal suo proposito, per cui lo si convoca a palazzo Resta nella stessa serata di quel fatidico 22 giugno. Ma è tutto vano. Nulla, né blandizie, né minacce, possono scalfire la ferrea determinazione di quell’uomo.
A questo punto appare scontata la formulazione dell’accusa di insubordinazione e i conseguenti arresti in fortezza per l’ex comandante del Tazzoli. Bisogna dare un esempio solenne – si grida esasperati all’Ammiragliato – e non permettere a nessuno, tantomeno poi ad un ufficiale che si è fatto onore nella guerra divenuta ora “fascista”, di mettere in discussione i delicati equilibri politici che si stanno formando. Ma all’Ammiragliato non hanno fatto bene i conti con gli uomini della base navale di Taranto, dove non tutti hanno ancora venduto l’anima ai nuovi padroni.
Il latente malessere, che cova da tempo, troppo tempo, esplode in tutta la sua virulenza. Quella stessa notte gli equipaggi si rifiutano di uscire con le navi. L’indomani i muri della base sono pieni di scritte inneggianti a di Cossato, di cui si chiede l’immediata libertà e il reintegro nei gradi e nelle funzioni. Siamo ad un passo dall’ammutinamento, si strepita in certi interessati ambienti della Marina. Ed è così, se di Cossato fosse stato un tribuno, un capo-popolo e non un integerrimo ufficiale, saremmo già alla rivolta armata. Occorre dunque far buon viso a cattivo gioco. Si ricorre pertanto ad uno di quei meschini compromessi, che saranno poi prassi normale in certa Italia del dopoguerra. Il comandante Carlo Fecia di Cossato è libero, ma deve considerarsi da quel momento in licenza, fino a nuovo ordine. Se non si può colpire alla luce del sole quel mito vivente, lo si metterà nel dimenticatoio. D’altronde, sanno benissimo quei perfidi, che l’allontanamento dalle navi equivale, per un vero uomo di mare, ad una sentenza di morte.
Così Carlo Fecia di Cossato è costretto a lasciare Taranto e partire per Napoli, dove trova ospitalità, a villa Pavoncelli, dal suo vecchio e caro amico Ettore Filo Della Torre, anch’egli ufficiale di marina. Ma l’animo esacerbato del comandante non si lenisce per niente all’aria di Napoli. E’ la Napoli terribile e disperata, magistralmente descritta nelle pagine del romanzo “La pelle” da Curzio Malaparte. La città, ora diventata una vera babele di razze e di lingue, con le sue violente contraddizioni, che la rendono ogni giorno di più simile ad un unico immenso mercato nero a cielo aperto, dove non si sa se è più abominevole la mercificazione dei corpi o quella degli animi, acuisce dunque fino allo spasimo le passioni che squassano la mente e il cuore di di Cossato.
Si rende ormai conto che tutti quei valori in cui credeva, e per i quali aveva sempre strenuamente combattuto, sono dai più derisi e calpestati, e che, ogni giorno di più, il fango che lo circonda mette a repentaglio il suo onore. Qualche idiota, per farsi bello agli occhi degli alti papaveri, arriva persino a negargli l’ingresso al Circolo degli Ufficiali della Marina. A lui, che poteva essere appellato, senza tema di smentita, l’onore stesso della Marina. E’ veramente l’ora buia di Barabba. Del trionfo della piccineria e della pavidità.

In un mondo, ormai, i cui punti di riferimento gli sembrano in rapida dissolvenza, di Cossato cerca invano di avere un colloquio con Umberto di Savoia. Ma la camarilla di corte, che avviluppa quest’ultimo, o non lo informa della richiesta o lo convince che la stessa non è “politically correct”. E di Cossato resta ancora una volta solo. Oppresso, sempre di più, da quello strano sentimento di colpa per essere sopravvissuto ai suoi marinai del Tazzoli, medita adesso di fare testimonianza, con l’offerta della propria vita, in difesa della memoria di quei morti e dei valori che hanno rappresentato. Altro che gesto inconsulto, provocato da un improvviso cedimento di nervi. L’atto viene profondamente meditato ed arriva dopo un lungo travaglio interiore. Tant’è che la lettera-testamento di commiato ai suoi è datata 21 agosto, una settimana dunque prima del suicidio.
A Napoli, nella notte tra il 27 e il 28 agosto 1944, all’età di 36 anni, il capitano di fregata della Regia Marina italiana, il conte Carlo Fecia di Cossato, si spara un colpo mortale alla tempia. Lascia, per l’amico che l’ospitava, un biglietto di scuse, che termina “…non sono un suicida. Sono un caduto sul campo”.
Ed è veramente un caduto sul campo per i marinai, per tutti i marinai italiani, che ne avvolgono il corpo nel tricolore e lo seppelliscono, con tutti gli onori, nel cimitero di Poggioreale. Molti adesso piangono l’eroe puro, travolto dalla bassezza dell’ora presente. Lo stesso Umberto di Savoia, il futuro re di maggio, che un giorno non lontano non aveva voluto o potuto riceverlo, ne curerà poi, a proprie spese, il trasferimento del corpo nella città di Bologna. Intanto riecheggia, da un capo all’altro della penisola, l’eco della lettera-testamento del comandante di Cossato, che ai più sembra una spietato atto d’accusa, a futura memoria, soprattutto contro chi ha consegnato la flotta nelle mani dell’ex nemico.

”Napoli, 21 agosto 1944.
Mamma carissima,
quando riceverai questa mia lettera saranno successi dei fatti gravissimi che ti addoloreranno molto e di cui sarò il diretto responsabile. Non pensare che io abbia commesso quello che ho commesso in un momento di pazzia, senza pensare al dolore che ti procuravo. Da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del Re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere baluardo della Monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi ci circonda e, quello che più conta ora, un profondo disprezzo per me stesso. Da mesi, Mamma, rimugino su questi fatti e non riesco a trovare una via d’uscita, uno scopo alla mia vita. Da mesi penso ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è con loro. Spero, Mamma, che mi capirai e che nell’immenso dolore che ti darà la notizia della mia fine ingloriosa, saprai capire la nobiltà dei motivi che mi hanno guidato. Tu credi in Dio, ma se c’è un Dio, non è possibile che non apprezzi i miei sentimenti che sono sempre stati puri e la mia rivolta contro la bassezza dell’ora. Per questo, Mamma, credo che ci rivedremo un giorno. Abbraccia papà e le sorelle e a te, Mamma, tutto il mio affetto profondo e immutato. In questo momento mi sento molto vicino a tutti voi e sono sicuro che non mi condannerete.
Charlot”

La versione ufficiale governativa, sul suicidio, è odiosa non solo perché ipocrita, ma anche perché palesemente non veritiera. Ne riportiamo il testo, pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari in data 31 agosto 1944:
“Il suicidio in fortezza di Carlo Fecia di Cossato.
Roma, 30 agosto. Il Conte Carlo Fecia Di Cossato,uno dei più noti comandanti di sommergibili, si è suicidato due giorni fa a Napoli. Dopo la liberazione di Roma, il comandante Fecia Di Cossato chiese di essere esonerato dal comando perché il nuovo Gabinetto Bonomi aveva rifiutato di giurare nelle mani del Re. Poiché, intanto, questo suo gesto rappresentava un atto di insubordinazione in tempo di guerra, il comandante Di Cossato fu condannato a tre mesi di arresti in una fortezza di Napoli, dove metteva fine alla propria vita”.

Atto di insubordinazione in tempo di guerra? Condanna a tre mesi di arresti in fortezza a Napoli? Falso, falso, falso. La manovra messa in atto dal governo è lampante nella sua rozza semplicità. Si vuol far apparire, agli occhi della gente, che il suicidio è diretta conseguenza di una carcerazione, subita a seguito di un comportamento infamante quale l’insubordinazione in tempo di guerra. Quest’ultima, al pari di una diserzione in faccia al nemico. Insomma un suicidio per vergogna. Si cerca di demolire così, con il fango, la gigantesca figura del comandante di Cossato. Ma il tempo, che è sempre galantuomo, ci restituisce, ancora oggi, intatta la figura adamantina di quel coraggioso, senza la benché minima traccia di fango delle trincee politiche di allora.
Qualcuno ha scritto che la Marina Militare italiana non fu giusta con Carlo Fecia di Cossato. Rettifichiamo, alcuni uomini della Marina, non furono giusti. Forse per concupiscenza verso il potere costituito, forse per pavidità. Non c’interessa, i loro nomi sono stati dimenticati dalla Storia.
Sul finire degli anni Settanta del secolo appena trascorso, la Marina Militare italiana farà ammenda delle colpe passate di alcuni dei suoi e dedicherà uno dei più moderni sommergibili al capitano di fregata, medaglia d’oro al valore militare Carlo Fecia di Cossato, l’asso dei sommergibilisti italiani nella seconda guerra mondiale. E farà cosa egregia e…giusta!

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