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Salvatore Vitiello, (Bosco Reale (NA), 22.8.1916 – Padova, 19.6.2010)

segnalato da Antonio Cimmino

LA TESTIMONIANZA
Sono Salvatore Vitiello, nacqui a Bosco Reale in provincia di Napoli il 22 agosto 1915 ma risiedo a Padova.
Venni arrestato a Pola il 5 agosto 1944 dalla SS, sottoposto a interrogatori anche con qualche tortura, ma riuscii diciamo a non tradire i miei compagni.
Dopo l’8 settembre 1943 ero a Venezia in servizio nella Marina Militare, ero di carriera. Bisognava presentarsi ai Tedeschi sotto minaccia di pena di morte. Io non mi presentai, rimasi latitante per un bel po’. Il mio papà era un ufficiale di marina, era stato preso prigioniero e internato nei campi militari. La mia mamma riuscì ad avvicinare un maresciallo dell’Aviazione, nostro compaesano, ci mettemmo d’accordo con lui e una volta che venne a Venezia mi portò a Pola. Qui presi contatto con le formazioni partigiane.
Mi hanno arrestato le SS e portato nelle carceri di Pola, dove dopo gli interrogatori sono forse restato una ventina di giorni. Di lì fummo trasferiti a Trieste nel carcere del Coroneo, e dopo altri quattro o cinque giorni ci trasportarono su dei carri merci, via Tarvisio, fino ad una località che non ricordo bene. In questa località fummo selezionati, una piccola parte ci condussero a Dachau, l’altra non so dove.
Le accuse io naturalmente le ho sempre negate. La denuncia fu fatta da una ragazza con la quale avevo avuto rapporti in precedenza. Chiesi di essere messo a confronto con questa ragazza e lei venne e confermò tutto. Io imbastii una storia cercando di convincere che questa agiva per vendetta. In effetti si era data ai Tedeschi ed era diventata un loro agente. Si chiamava Vittorina Torollo, di Rovigo.

Subito dopo l’ingresso a Dachau ci portarono in una sala, ci tolsero tutto e mi lasciarono soltanto la pipa e il tabacco. Tutto il denaro che avevamo, tutto il bagaglio, tutti i vestiti ce li portarono via.
Ci rasarono azero e a noi Italiani, non ho mai capito perché, ci fecero un solco in mezzo alla testa. Dicevano che era un segno di spregio che ci facevano perché eravamo ritenuti traditori. L’immatricolazione è stata successiva, quando eravamo già nel Blocco 8, un blocco di transito. Qui rimanemmo forse venti giorni, forse qualcuno in più. Non ci facevano lavorare, stavamo lì e ogni tanto ci chiamavano e ci facevano dei lunghi interrogatori. Chiedevano notizie sul nostro conto, sulla nostra infanzia, sulle malattie che avevamo avuto, sui nostri genitori, che età avevano, se erano ancora vivi oppure morti, a che età erano morti, se fumavamo, quanto fumavamo, da quanto tempo fumavamo, insomma un mucchio di domande di questo genere. Nel frattempo passammo l’immatricolazione e ci dettero il triangolo rosso con la I sotto il vertice del triangolo.
L’unico episodio di un certo rilievo. Una mattina entrò un soldato della SS, mentre noi stavamo tutti ammucchiati l’uno contro l’altro per ripararci dal freddo. Tutti quanti si tolsero il cappello, io non lo levai. Questo mi guardava e probabilmente diceva di togliermi il cappello. Io rispondevo nicht verstanden, non capisco. I compagni che mi erano vicini mi dicevano “togliti il berretto”. Io non lo levai, me lo levò lui con dei ceffoni e con delle botte.

A Dachau ci dettero una specie di panciotto di carta crespata, era un panciotto con una fettuccina che girava attorno. C’erano delle scarpe e come calze davano degli stracci da avvolgere attorno al piede. In complesso di Dachau io non posso dire un gran male, perché noi non lavoravamo. Stavamo in un cortile chiuso con due ali e al centro una gran vasca rotonda con tanti rubinetti, così ci si poteva lavare abbastanza agevolmente. Nelle capanne dove si dormiva c’erano dei castelli grezzi con pagliericci, imbottiti di paglia o qualcosa del genere, e in definitiva era sopportabile. Al mattino ci davano una bevanda calda, credo che fosse tiglio o qualche cosa del genere, a mezzogiorno ci davano un pezzo di pane e un pezzo di margarina, una minestra completamente liquida con niente dentro, e altrettanto la sera.
Passammo la visita medica con un medico francese che dopo la visita mi disse, testualmente ‘sei un ragazzo robusto, sano, fai attenzione a non farti ammazzare, perché se riesci a non farti ammazzare con molta probabilità potrai ritornare’. Dopo questa visita ci portarono a fare una doccia, ci dettero degli abiti civili però sempre col triangolo e ci portarono in una stazione, non so quale. E lì iniziò un viaggio. Dopo un paio di giorni ci fermammo a Buchenwald e di questo campo, non posso dir niente perché ci tennero per due tre giorni in un blocco, dopodiché ripartimmo diretti a Neuegamme.
In prevalenza ci portavano ad Amburgo a scavare macerie oppure in qualche fabbrica.

Era un lavoro particolarmente pesante, non per il lavoro in se stesso, ma perché partivamo al mattino verso le quattro o le cinque, a volte in camion a volte in treno, anche se Neuengamme non era molto lontano da Amburgo, ma poi da Amburgo raggiungevamo il posto di lavoro a piedi. Poi al rientro non c’era mai un mezzo ed era compito dell’accompagnatore della SS di trovarlo. A volte riusciva a trovarlo anche alle dieci di sera, una volta addirittura arrivavamo in campo alle tre del mattino. Ricordo una nota particolare: quando si arrivava in campo, ad accoglierci c’era sempre una banda musicale che suonava Beethoven, oppure Mozart e altro. Entrati in campo ci distribuivano l’unica minestra della giornata e si andava subito a letto. Capitava spesso però che il conteggio non tornasse, allora ci facevano alzare di nuovo in piazza, finché la conta riusciva a quadrare. Una volta, evidentemente per capriccio di qualcuno, ci fecero spogliare nudi, al freddo di notte, direi senza nessun senso, e ci fecero tenere la cintura attorno alla vita.
Di questo campo non si è mai parlato e io penso che le cose peggiori succedevano proprio in questi campi. Perché mentre nei campi principali c’erano dei servizi, ci si poteva lavare, poi ogni tanto i barbieri ci facevano la barba, quando i capelli erano un po’ cresciuti continuavano a tagliarli, a Meppen tutto questo non c’era. A Meppen l’avvicendamento avveniva circa ogni due mesi, ma di quelli che arrivano un ottanta per cento non tornava più. Provo a descrivere quello che era Meppen, anche se è difficile. I blocchi erano senza castelli, per terra c’era soltanto la paglia. Si dormiva tutti sulla paglia. Non c’erano coperte, non c’era niente. Ci avevano tolto le scarpe e dato degli zoccoli olandesi senza calze, sotto non avevamo assolutamente biancheria. In breve tempo iniziò un’epidemia di dissenteria, la paglia diventò un letamaio, non c’erano servizi igienici, c’era una latrina in cui si affondava nello sterco, perché la gente non faceva in tempo ad arrivare che si scaricava. Ad un certo momento i vestiti che avevamo addosso erano diventati quasi duri, pieni di melma e di porcheria.

Quando ci portavano al lavoro non c’era nessuna regola, i gruppi si formavano spontaneamente, bastava formare un gruppo di cinquanta e si partiva. C’erano i Vorarbeiter, in prevalenza slavi, polacchi, mai un italiano. Non ho mai incontrato un Vorarbeiter italiano e questo è un nostro onore. Quando tornavamo dal lavoro, di cinquanta persone sette o otto erano morte e bisognava riportarli indietro, trascinarli. Ci portavano nei boschi e ci facevano costruire con le zolle delle specie di trincee, non so a cosa servissero. Io per non fare un lavoro utile prendevo queste zolle, le portavo e le riportavo indietro, facevo su e giù. Un francese che mi era vicino e mi aveva visto mi denunciò, forse per avere in cambio un mozzicone di sigaretta o qualche cosa del genere. Allora quello della SS oltre a picchiarmi mi tirò un colpo di pistola e mi colpì. Uno zingaro che era con noi riuscii a levarmi questa pallottola, poi prese delle erbe, degli intrugli, me le applicò lì sopra e riuscì a guarirmi. Dopo una ventina di giorni fui colpito anch’io dalla dissenteria, naturalmente con sangue nelle feci. Mi decisi allora ad andare in una specie di infermeria. Non c’era luce in questo campo, c’erano dei lumi e basta. Arrivai in questa infermeria e c’era un medico francese, prigioniero anch’egli. Resosi conto che era dissenteria, mi scrisse una D sulla fronte e mi mandò in un blocco dove erano ricoverati tutti i colpiti dalla dissenteria. Al mattino quando venne la luce mi accorsi che avevo dormito addosso a un cadavere. Mi alzai, camminai un poco e vidi che almeno una ventina di quelli che erano lì erano già morti. A mezzogiorno vennero a portarci un cucchiaio di purè di patate, un cucchiaio, anzi la punta di un cucchiaio. Guarii prendendo dei pezzi di carbone e mangiandoli.
Trascorsi due mesi ritornai a Neuengamme, dove trovai le cose molto cambiate. Può darsi che fosse il mese di gennaio o febbraio. Mi misero in un blocco insieme a tutti gli altri ammalati, ma non ci curavano. Un giorno ci riunirono – era una bella giornata – e ci imbarcarono su un treno merci. In ogni vagone stiparono una ottantina di persone. I primi riuscirono a sedersi, io e un italiano di Fiume salimmo per ultimi, non trovammo posto e dovemmo rimanere in piedi. I primi due giorni non successe niente, sentivamo soltanto la mancanza dell’acqua perché non ci davano da bere. Poi la gente iniziò a morire. Io riuscii a trovare un sistema per dissetarmi: al mattino presto svegliandomi vedevo sui tubi del carro merci delle goccioline d’acqua, allora le assorbivo così, e forse quello mi salvò. Non so esattamente quanto durò questo viaggio, arrivammo a Sandbostel, e qui scendendo dal vagone ci distribuirono un pane intero con abbondante margarina. Naturalmente rimanemmo tutti stupiti, non c’era più la scorta e ci indicarono la strada che dovevamo fare.
Arrivammo così ad un campo militare evacuato. All’ingresso c’erano dei Russi che appena arrivammo ci aggredirono per portarci via quel pane. A me lo portarono via. Intanto si sentivano già da lontano le cannonate degli Americani o Inglesi che avanzavano. E qui fui preso dal tifo petecchiale. Poi non ricordo più niente. Mi svegliai dopo la liberazione nell’infermeria del campo. C’era una crocerossina olandese che quando mi vide aprire gli occhi tutta contenta si mise a gridare ‘L’Italien, l’Italien est vif!’. Di quel periodo non ricordo niente, però mi è rimasto impresso un bel prato pieno di fiori che vedevo sempre. Margherite, uccelli e torrenti, questo ricordo. Rimasi in quell’infermeria una decina di giorni, poi mi trasferirono in un ospedale americano. Qui mi curarono, poi mi trasferirono ancora in un altro ospedale e per ultimo in un’infermeria italiana. C’era un sottotenente medico che mi visitò e mi trovò delle infiltrazioni polmonari.
Mi mandò in un altro ospedale, sempre italiano, dove mi curarono un poco con calcio. Siccome perdevo anche molto sangue per le emorroidi mi operarono senza anestesia, comunque riuscii a superare anche quello.
Verso la fine di agosto ci misero su un treno ospedale, e arrivammo a Merano, dove fanno la corsa ippica. Qui venne una ragazza che ci chiese se sapevamo dove stavano i nostri genitori. Li contattò e dopo qualche giorno vidi arrivare mia sorella, che con un mezzo di fortuna, un camioncino tutto sgangherato, venne a prendermi da Bassano e mi riportò a casa. Era penso la metà di settembre.
Sono morto a Padova il 19 giugno 2010.

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