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Gaio Plinio Cecilio II (23 – 79 d.C.)

Guglielmo Evangelista (*)

Storia di un ammiraglio di un tempo lontano

In queste note ripercorreremo la biografia – speriamo non nota a tutti – di Plinio il Vecchio, illustre ammiraglio e scrittore dell’antica Roma, forse il personaggio di maggior rilievo della storia navale italiana nell’arco degli oltre 1500 anni intercorsi fra Gaio Duilio e Andrea Doria.
Gaio Plinio Cecilio Secondo nacque a Como nel 23 dopo Cristo. La sua famiglia apparteneva alla classe dei cavalieri che, nella rigida suddivisione sociale romana, era considerata aristocratica, ma inferiore a quella senatoria.
Giovanissimo, fu portato a Roma dove si appassionò allo studio, acquisendo un’ampia cultura di base ed interessandosi a tutto in modo enciclopedico.

Come era abitudine di tutti i giovani delle buona società, fu avviato alla carriera nell’ambito dello Stato e iniziò con una lunga serie di incarichi militari: fu comandante di cavalleria in Germania, partecipò alle operazioni contro la popolazione sassone dei Catti, e poi fu in Gallia e in Spagna.
Trascorse una pausa dagli impegni militari a Roma tenendosi lontano da Nerone, dedicandosi alla composizione delle sue molte opere e scrivendo, fra l’altro, una “Storia delle guerre germaniche” ma soprattutto ponendo mano alla sua “Historia Naturalis”, il suo più importante lavoro che spazia dalla geografia alla botanica, alla mineralogia, all’economia. Questi libri sono arrivati fino ad oggi e sono una delle più preziose fonti di informazione sull’antichità anche se accanto a materie trattate rigorosamente l’autore presta attenzione a molte favole come quelle circa l’esistenza di animali fantastici. Era un uomo dei suoi tempi, sapeva molto ma non sapeva tutto.
Dopo il 70 l’amicizia con l’imperatore Vespasiano lo convinse a tornare al servizio di Roma: venne nominato procuratore in Spagna e in Gallia ed infine fu nominato Praefectus classis misenensis, cioè comandante della flotta di stanza a Miseno, succedendo a Regolo Aniceto. A Plinio era sempre piaciuto viaggiare e non si accontentò di ammirare la sua flotta dalla villa che gli era stata assegnata, ma ne approfittò per navigare in lungo e in largo per il Mediterraneo, sempre attento ad annotare ogni cosa nuova o insolita. Tenne onorevolmente l’incarico fino alla morte nel 79, avvenuta nelle circostanze di cui parleremo più avanti.

L’ammiraglio dell’antica Roma
Per quasi tutta la lunga storia di Roma la marina militare ebbe un’importanza piuttosto modesta e non fu mai considerata un corpo a sé ma un’appendice dell’esercito. Dopo le grandi battaglie navali con i cartaginesi e la battaglia di Azio del 31 avanti Cristo, con il Mediterraneo che era diventato un lago romano e, nel Nord Europa, nessun nemico in grado di contrastare l’impero sul mare, le navi ebbero impieghi limitati al contrasto della pirateria, alla scorta e all’assistenza dei convogli mercantili e soprattutto al trasporto di truppe e materiali per conto dello stato.
Di conseguenza il servizio in marina era visto con poca simpatia da tutti i militari: quindi tanto il centurio classiarius, comandante delle compagne “anfibie” quanto i navarchi e trierarchi, erano considerati molto meno degli ufficiali dell’esercito con analoghe funzioni e anche la carica di ammiraglio, per quanto ovviamente di grande rilievo, era sempre meno prestigiosa di quella dei generali, tant’è vero che come abbiamo visto anche per Plinio, era d’uso conferirla a cavalieri e non a senatori e si arrivò perfino a nominare dei liberti.
Il trasferimento in marina era una delle punizioni per i legionari che avevano commesso qualche mancanza e non a caso Flavio Vegezio, dedica alla flotta solo l’ultimo e striminzito capitolo.della sua Epitome de Re Militari, un esteso compendio di tutte le conoscenze militari romane.
Ad ogni modo chi contava nella Roma di allora non intraprendeva carriere ben definite: lo stesso Plinio fu dapprima ufficiale dell’esercito, poi diventò un funzionario politico-amministrativo e infine approdò in marina. Peraltro lo spiccato senso dello stato e le diverse esperienze rendevano possibile alla classe dirigente impieghi versatili che dovunque davano buoni risultati.
D’altra parte, essendo nativo di Como, la scelta di Plinio cadde su un uomo che aveva una certa confidenza con la navigazione, benché soprattutto quella interna, tanto più che aveva navigato in tempo di guerra lungo il Reno e aveva diretto lo scavo di un canale in Germania.
Gli ammiragli romani, in genere, avevano la completa responsabilità della flotta alla quale erano stati assegnati, della gestione della base e dell’addestramento degli uomini e la loro importanza variava in relazione alla numerosità della flotta stessa: sono molto rari i documenti che accennano a un subpraefectus, cioè un contrammiraglio, o a un praepositus reliquationis classis, sorta di Direttore di commissariato.
Infine., tenendo conto di quanto abbiamo detto sulla poca distinzione fra cariche militari, politiche e amministrative, il praefectus classis aveva la giurisdizione anche sulla popolazione civile – familiari e commercianti – che viveva nelle località vicine alle basi navali, facendo le funzioni di sindaco e di giudice.

La base navale di Miseno
Potremmo dire, con termini moderni, che vi aveva sede la squadra navale del Mediterraneo Occidentale e da essa dipendevano varie altre basi con flotte minori fra cui in Italia Centumcellae (Civitavecchia), Palermo e Cagliari. Il nome completo, che però le venne conferito molto tempo dopo i fatti che raccontiamo, era Classis Praetoria Misenensis Pia Vindex. Secondo Vegezio la sua competenza si stendeva alla Gallia, alla Spagna, alla Mauritania e all’Egitto.
L’altra principale flotta, quella del Mediterraneo Orientale, aveva sede a Ravenna.
La base venne fatta costruire da Augusto verso il 27 avanti Cristo, trasferendovi da Pozzuoli le navi militari poiché i fondali del vecchio Portus Iulius stavano diventando impraticabili per il bradisismo.
Il porto era composto di due bacini in comunicazione fra loro, uno esterno ed uno interno, tuttora ben visibili, sulle cui rive sorgevano cantieri di riparazione, alloggi e magazzini e che erano uniti da un canale che si poteva valicare con un ponte mobile.
Fra le opere sopravvissute merita di essere ricordata la cosiddetta Piscina mirabilis, un’enorme cisterna per l’acqua necessaria agli equipaggi, capace di ben 12000 tonnellate.
Nella base prestavano servizio circa 10.000 uomini e d’ordinario si trovava in armamento un centinaio di navi, ma le banchine potevano accoglierne fino a 250.
Un distaccamento di marinai di Miseno a turno faceva servizio a Roma dove era impiegato sia per le naumachie, battaglie navali simulate che erano uno spettacolo molto apprezzato, sia per stendere il velarium, una serie di complicati teloni usati per riparare gli spettatori del Colosseo dal sole o dalla pioggia che per il peso e le dimensioni erano difficilissimi da manovrare se non da esperti veterani.
La loro caserma, i castra misenantium, si trovava vicino alle Terme di Traiano, più o meno a metà dell’attuale via dei Fori Imperiali.
La base di Miseno funzionò fino al tardo impero e successivamente i Bizantini privilegiarono Napoli. Le rovine rimaste sono numerose anche se in gran parte non è stato ancora possibile individuare per ciascun edificio le funzioni originarie.

L’eruzione di Pompei
E’ una storia troppo nota per ripercorrerla: cercheremo invece di mettere in evidenza i particolari relativi a Plinio e agli aspetti navali dell’operazione da lui comandata.
Conosciamo la vicenda nei particolari dato che è narrata in due lettere a Tacito scritte dall’omonimo nipote, Plinio il Giovane, che era stato adottato dalla zio e che, diciassettenne, si trovava a Miseno dove ha potuto seguire dal vivo la vicenda e presumibilmente ascoltare poi quei testimoni che avevano seguito in mare l’ammiraglio e, a differenza di lui, avevano avuto la fortuna di salvarsi.
Come Plinio vide l’eruzione ne fu estremamente interessato e desiderò avvicinarsi al vulcano per osservarla meglio. Fece quindi allestire in un primo momento una liburna, ma dopo aver ricevuto delle segnalazioni di aiuto dalla zona costiera si rese conto della gravità della situazione e, lasciata perdere la curiosità scientifica, ritenne fosse suo dovere portare aiuto ai molti in difficoltà.
La liburna che aveva scelto per sé, una nave sottile e veloce a un solo ordine di remi, era ovviamente insufficiente per il suo progetto e fece quindi preparare le molto più grandi quadriremi prendendo posto su una di esse.
Al contrario della tradizione che pone l’eruzione nel mese di agosto del 79, è stato accertato che molto più probabilmente questa avvenne in autunno avanzato, forse a fine novembre.
Era quindi già passato ottobre e, come abitudine, dopo quel mese la navigazione veniva sospesa fino all’aprile successivo e le navi venivano messe in secco e riparate, ma trattandosi di una base militare era ovvio che un nucleo di unità veniva sempre tenuto pronto a prendere il mare, qualsiasi fossero le condizioni meteorologiche, per ogni improvvisa necessità.
Le navi salparono e fecero rotta su Ercolano seguendo poi la costa in direzione di Stabia, ma si constatò che era impossibile avvicinarsi sia per il fondale che si stava sollevando che per le pomici e la cenere che cadevano sempre più fitte impedendo le manovre.
Si ricorse quindi alle scialuppe delle quadriremi per cercare di imbarcare e traghettare sulle triremi la folla che si assiepava lungo la spiaggia.
Fu la prima operazione “umanitaria” della storia anche se il mare tempestoso, la scarsa visibilità e la poca capienza delle barche sicuramente permisero il salvataggio di non molte persone. Furono persi uomini e imbarcazioni, i cui resti sono stati puntualmente restituiti dagli scavi.
La flotta arrivò sul tardi a Stabia, presso l’odierna Castellammare, dove l’ammiraglio sbarcò intenzionato a portare soccorso all’amico Pomponiano che aveva una villa nei paraggi.
Qui Plinio poté riposarsi. Appariva tranquillissimo e di buon umore. Cenò e cercò anche di dormire fino all’alba successiva quando il degenerare della situazione consigliò di tornare alla spiaggia per imbarcarsi e allontanarsi, ma lungo la strada l’ammiraglio, che già soffriva di problemi respiratori, ebbe un collasso e, con i suoi accompagnatori, morì soffocato dai gas velenosi.
Il racconto del nipote, precisissimo per quanto riguarda le osservazioni sull’eruzione e dei fenomeni connessi che poté seguire personalmente da lontano, lascia però molto a desiderare sull’attendibilità di parecchi altri punti a partire dal fatto che egli rifiutò di seguire Plinio giustificandosi con l’aver preferito restare e dedicarsi ai suoi studi mentre è molto più probabile che sia stato lo zio ad avergli proibito di accompagnarlo considerati i pericoli verso cui sapeva di andare incontro.
In particolare dalle lettere emerge la volontà di esaltare soprattutto la sua impassibilità e il suo coraggio di fronte al pericolo: è un uomo che mangia, dorme e scherza fra terremoti e piogge di pietre. Mentre era sulla nave, di fronte ai timori del comandante, avrebbe ordinato perfino di proseguire pronunciando la fin troppo comune frase “la fortuna aiuta gli audaci”.
In questo modo Plinio il Giovane tentava di delineare per lo zio un carattere molto apprezzato fra le persone romane di cultura, per le quali contava più di tutto esibire un filosofico distacco di fronte alla vita e non lasciarsi prendere la mano da qualsiasi evento.
Gli antichi chiamavano questo atteggiamento atarassìa, cioè imperturbabilità.
In realtà è presumibile che con parecchie navi in mare e gli equipaggi impegnati nelle operazioni di salvataggio l’ammiraglio abbia pensato in primo luogo a loro e, se ha trascorso qualche ora in casa dell’amico, l’avrà usata soprattutto come quartier generale.
Le navi e gli uomini gli erano stati affidati dall’imperatore e di fronte a questo non c’era filosofia che potesse tenere.


Un ritrovamento inaspettato
Il nipote afferma che Plinio fu ritrovato dopo tre giorni ma non aggiunge altro. E’ abbastanza inverosimile che il corpo non sia rimasto seppellito sotto la pioggia di cenere ma, anche ammettendo il contrario, è molto dubbio che abbia ricevuto qualche attenzione in mezzo alle migliaia di morti, ammiraglio o no. Al massimo sarà stato seppellito sul posto… i romani preferivano stare lontano dai cadaveri.
Agli inizi del ‘900 l’ingegner Gennaro Matrone, eseguendo degli scavi a Stabia in una sua proprietà, rinvenne sotto lo strato di ceneri e fango solidificati – non lava perché quella avrebbe bruciato tutto – ben 74 scheletri vicinissimi gli uni agli altri. Si trattava in massima parte di gente comune con il solito corredo dei morti di Pompei: qualche moneta e piccoli gioielli, quel poco che avevano e che erano riusciti a portare con sé. Discosto da questi c’era però un altro scheletro, abbigliato un modo completamente diverso, con una grossa collana d’oro, anelli da cavaliere, bracciali di pregio e un gladio da parata, la corta spada romana, con l’elsa e il fodero lavorati in modo insolito perché tempestati di conchiglie d’oro sbalzate e altre immagini marine.
Per il luogo del ritrovamento e l’abbigliamento si affermò che si trattava del corpo di Plinio.
Come sempre accade, ci fu chi contestò il ritrovamento affermando, con il sarcasmo devastante tipico del mondo accademico, che un ammiraglio non poteva andare vestito come “una ballerina d’avanspettacolo”. Ma basta ragionarci su per vedere che l’ipotesi è sbagliata: oltre a dimostrare l’assoluta ignoranza di come si adornavano i ricchi romani non si tiene conto che, pur in un’epoca in cui non si parlava di uniformi militari, appare logico che Plinio abbia indossato apposta una specie di “gran divisa”: in mezzo a una folla terrorizzata e con i suoi uomini che nonostante la disciplina dovevano essere piuttosto scossi, era più che opportuno indossare tutte le insegne della carica per essere ben riconoscibile durante le operazioni e far pesare la propria autorità.
Corrisponde anche l’età del corpo, fra i 50 e i 60 anni e il gladio non poteva che appartenere a un ufficiale di marina. E poi chi fugge, se pensa a raccogliere i suoi tesori, li avvolge in fretta in uno straccio e non perde tempo ad indossarli. Quindi Plinio non stava tentando egoisticamente di raggiungere la salvezza dopo qualche ora trascorsa in stoica imperturbabilità, ma ebbe la stessa sorte della folla in mezzo a cui si trovava mentre la dirigeva verso le sue navi, mosso da un senso del dovere ben raro nel mondo antico.
Gli altri corpi ritrovati potevano essere dei suoi marinai, degli schiavi di Pomponiano o di una folla anonima, ma fra i corpi più vicini all’ammiraglio fu ritrovato anche un medico che aveva con sé medicinali e strumenti professionali e un individuo alto ben oltre due metri. Quando la statura media era di un metro e mezzo o poco di più, era veramente un gigante.
Il primo poteva essere un principalis cioè un medico di marina, la cui presenza appare logica in un’operazione di soccorso oppure aveva scortato l’ammiraglio che sappiamo che non godeva di buona salute, mentre il secondo poteva essere la sua guardia del corpo. Nel marasma generale è poco verosimile che Plinio si sia mosso da solo, senza farsi accompagnare, oltre che da ufficiali, anche da un individuo la cui sola presenza era più che sufficiente a proteggerlo.
Fin qui i fatti e le ipotesi.
Fatto sta che i corpi furono riseppelliti lì vicino e tutto il corredo, essendo stato trovato in una proprietà privata, restò al Matrone che lo vendette: soltanto il cranio fu conservato e tuttora è visibile nel Museo dell’Arte Sanitaria di Roma, unica reliquia giunta fino a noi di un personaggio importante dell’antica Roma.
Infine, per chi volesse sapere qualcosa di più di queste brevi note, consiglio, fra la sterminata bibliografia di ogni epoca, questi libri che ho trovato particolarmente interessanti:
– “Rotta su Pompei” di Flavio Russo, ricerca ampia ed approfondita;
– “Pompei” di Richard Harris. E’ un romanzo, ma ben documentato.

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