Attualità,  Marinai di una volta,  Recensioni,  Storia

6.6.1861, Camillo Benso conte di Cavour

di Ottaviano De Biase

…e la questione meridionale.

A distanza di oltre 150 dall’Unità d’Italia, la figura di Cavour rimane ancorata su un punto: egli fu non solo uno dei maggiori artefici dell’unificazione della nazione, quanto a l’uomo politico con le idee più moderne della sua generazione. Cavour, infatti, seppe anticipare, ed affrontare tutti quei problemi che perlopiù finirono per imbrigliare il nascente stato unitario; avvertì, cioè, come nessun altro dei suoi successori, la necessità di dover portare l’Italia nel grande circolo politico ed economico europeo. Sono sufficienti i suoi studi giovanili e il discorso del 20 settembre 1858 (tramandatoci dal Massari) che ci consentono di capire come egli avesse intuito, in tutta la sua incombente gravità, il disagio di un intero popolo. Peraltro, solo facendo l’Italia si sarebbe creata quella piattaforma che avrebbe poi consentito di discutere, di dibattere, di disporre in modo nuovo i problemi di fondo di cui, volendo o dolendo, bisognava farsene carico. La solenne celebrazione da parte del parlamento britannico resta, a distanza di 150 anni, l’elogio migliore ed il maggiore riconoscimento alla grande figura di raffinato statista.
L’ultima sua battaglia politica fu quella di riunificate il Meridione con il resto dell’Italia, fu quella che da Palermo a Napoli avrebbe potuto-dovuto dare un corso diverso all’intera storia della nazione. Ne era convinto il compianto Ruggiero Moscati – eccellente il suo intervento in occasione del primo centenario: 27 marzo 1961 – oggi lo siamo un poco tutti in quanto quella battaglia di unificazione riuscì ad investire l’intera struttura amministrativa e ad ottenere aiuti da mezza Europa. Del resto, non avendo in quella occasione risolto quel tipo di costruzione di Stato unitario, siamo ancora qui oggi a dibatterlo in termini politici senza aver mai pensato (o voluto, o potuto) che il progetto di Cavour era quello di affrontarlo in modo strutturale e definitivo.
Comunque venga giudicato dalla storiografia attuale, rimane il fatto che nei rapporti col partito d’azione e con la rivoluzione portata nel Meridione, Cavour diede la piena misura delle sue capacità anche nel fronteggiare una situazione per niente favorevole – c’era da mettere mano sulla mente degli uomini e delle cose al fine di gestire autonomamente l’iniziativa che avrebbe poi consentito al movimento italiano di concepire tutte le direttive – in cuor suo, le auspicava come garanzia di successo. Ovviamente, bisognava sacrificare qualcosa; così, pur di catturare i favori di Napoleone III, cominciò, nel gennaio 1860, col privarsi di Nizza e Savoia. Peccato che questo suo coraggioso atto che oggi gli riconosciamo, non fosse accettato alla stessa maniera dalla destra conservatrice, tanto meno dalla parte moderata che pure l’aveva sostenuto in tante altre precedenti battaglie. Critiche gli vennero dai Mazziniani che videro, in questa sua rischiosa operazione, troppo servilismo verso la Francia; per cui dovette far fronte ad un’ulteriore ondata di ostilità, con qualche ripercussione anche sulla mitica impresa garibaldina. Difatti, incomprensibile ai nostri occhi rimane la sua posizione di attesa che durò fino alla presa di Palermo quando, pur di salvare le apparenze, come scriveva al Ricasoli, ma che però si diede lo stesso da fare pianificando, attraverso i riservati canali diplomatici, affinché la questione romana non fosse d’impiccio con quella in corso di Garibaldi. Del resto, a suo favore ci sarebbe d’aggiungere l’insieme delle difficoltà internazionali ed interne che non gli consentivano di seguire la diplomazia ufficiale, tant’è che alcune sue scelte finirono per suscitare forti incomprensioni in seno al suo stesso governo appena ebbe a dichiararsi contrario alla iniziativa di Garibaldi. E questo perché temeva che la Spedizione dei Mille, più che rivolgersi verso la Sicilia – scriveva il 18 maggio al principe Eugenio – sarebbe potuta sbarcare sulle coste centrali dell’Italia, in tal caso avrebbe provocato una situazione non più sostenibile nei riguardi della Francia, e delle stesse città di Nizza e Savoia ove la resistenza interna s’era detta contraria alla separazione.
Frattanto, la storia correva per la sua strada; per cui, dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, il suo comportamento fino ad allora ambiguo si adattò alle circostanze, anche il linguaggio si rasserenò dentro e fuori le aule del governo. Piena comprensione verso l’eroe Garibaldi, dunque, a cui, leggiamo nella nota lettera del 9 agosto inviata al Nigra, gli riconosceva il leale ed altissimo contributo recato alla causa italiana.
Qui, però, va spiegato il pensiero cavouriano attraverso l’attività segretamente svolta l’anno prima in Sicilia e nel Meridione da tutti i suoi agenti, alcuni dei quali li troviamo andare anche oltre le ricevute consegne. La sua velleità di promuovere una rivolta autonoma e moderata a Napoli prima che vi giungesse Garibaldi fu in qualche modo vista come un’operazione possibile e politicamente opportunistica. Invece, la realtà dei fatti ha poi dimostrato che la situazione globale nel Meridione era tutt’altro che decifrabile. La formula di compromesso “Italia e Vittorio Emanuele” adottata da Garibaldi gli sarebbe apparsa una forzatura che però avrebbe affascinato all’atto dell’azione i combattenti di opposte tendenze, come poi si andò a verificare sul campo, nonché allargato il dissidio esistente tra moderati e democratici; d’altra parte, l’entusiasmo con cui fu accolto Garibaldi dalle popolazioni siciliane, calabresi e napoletane lasciava poche possibilità per continuare un dissidio che ormai non aveva più ragione di essere. Tutti sappiamo, infatti, come l’ingresso del Generale a Napoli, dopo un viaggio in ferrovia da Cava dei Tirreni, in mezzo a due ali di folla in delirio che si assiepavano lungo la strada ferrata, sia stato uno degli spettacoli più grandiosi ed impressionanti, che la storia del Risorgimento ricordi. Ciò nonostante, non mancarono contrasti tra fazioni che, però, scoppieranno solo a unificazione avvenuta. La storia ci consegna un Garibaldi che rimette nelle mani del Re le sue velleitarie speranze; un Cavour che, avendo intuito che il problema meridionale era sì anche un problema di costume e di assuefazione al malgoverno borbonico, come amavano sostenere i suoi più stretti collaboratori, già culla la possibilità di mettere in atto il progetto secondo cui la questione meridionale si sarebbe dovuta affrontare con più rigida fermezza. Di più, Cavour pensava a come consegnare le terre confiscate ai contadini, a come risolvere la spinosa questione del brigantaggio; aveva poi da ristabilire il rapporto difficile con la Chiesa, perché solo collaborando insieme si sarebbe potuto dare una sterzata politica a un meridione assuefattosi alla secolare sottomissione. L’educazione professionale – leggiamo in una annotazione scritta di suo pugno – è uno dei più urgenti bisogni di tutto il nostro Paese, ma in special modo delle province meridionali, nelle quali disgraziatamente si è meno provvisto a questa necessità. La preponderanza classica è in contraddizione coi bisogni di quelle popolazioni. E’ d’uopo crescere una generazione di abili e capaci produttori, che siano in condizioni di sollevare ed aiutare l’agricoltura, l’industria e il commercio, non lavorare a formare dei letterati o degli uomini di toga, dei dottori e dei retori.
Quando D’Azeglio disse che fatta l’Italia restava da fare gli Italiani, recuperava in sostanza il pensiero politico dello statista piemontese che progettava si formasse sì prima l’Italia ma senza che fossero venute meno le coscienze. Incoraggiare in ogni modo l’ammodernamento del Meridione per Cavour significava creare in primo luogo nel capoluogo campano un istituto di credito, istituire con il sussidio diretto dello stato le casse di credito agrario, ridurre al minimo le tasse portuali, fondare nuovi istituti di educazione industriale e commerciale: questi sono solo alcuni dei propositi attuabili per lo sviluppo dell’intero Sud, quali appaiono dagli appunti conservati tra le carte del suo segretario Artom. Il 27 marzo, le citate e meditate dichiarazione di Cavour per sostenere il sobrio Ordine del Giorno (in quella seduta aveva accanto il primo ministro dell’istruzione pubblica, Francesco De Sanctis), precedute come furono dal discorso del 25 e seguite da quelle del Senato del 9 aprile, rappresentarono non solo il testamento spirituale, ma la parte più elevata della sua concezione politica. La posizione, nei confronti della Chiesa, che si era sempre opposta a una qualsiasi ipotesi di accordo, fu, in quella sede, una delle sue più alte espressioni: Io sono profondamente convinto della verità di quanto ho avuto l’onore di esporvi e del vantaggio immenso che la Chiesa deve ricavare dall’adozione dei principi sui quali noi vogliamo stabilire un perfetto accordo… Se la corte di Roma accetta le nostre proposte, se si riconcilia l’Italia, se accoglie il sistema di libertà, fra pochi anni nel paese legale i fautori della chiesa o meglio, quelli che chiamerò il partito cattolico, avranno il sopravvento; ed io mi rassegnerò in d’ora a finire la mia carriera nei banchi dell’opposizione. Un Cavour mai così attuale, mai così profetico!

Camillo Benso conte di Cavour, cessando di vivere il 6 giugno 1861, non ebbe il tempo per agganciare l’economia meridionale con quella trainante e più moderna del nord. Comunque siano andate le cose, egli rimane una delle più alte fonti di ispirazione per tanti giovani desiderosi di impegnarsi in una politica seria e onesta.

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *