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23.12.1978, testimonianza di un sopravvissuto

Il disastro di Punta Raisi (23 dicembre 1978) fu la seconda tragedia che riguardò lo scalo palermitano dopo quella del 1972 di Montagna Longa (Volo Alitalia 112) e prima della strage di Ustica del 1980. L’incidente fu attribuito a un errore dei piloti nell’eseguire le procedure per un atterraggio notturno.



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Il volo Alitalia 4128 era un volo di linea tra l’aeroporto di Roma-Fiumicino e Palermo-Punta Raisi con 129 tra passeggeri e membri dell’equipaggio a bordo. Il 23 dicembre 1978, alle ore 00:38, il McDonnell Douglas DC-9-32 dell’Alitalia I-DIKQ “Isola di Stromboli” impattò sul Mar Tirreno a circa 3 km a Nord dell’aeroporto, sito nel comune di Cinisi, mentre era nella fase di avvicinamento finale alla pista di atterraggio.
L’incidente fu attribuito a un errore dei piloti, che ritennero di essere più vicini all’aeroporto di arrivo di quanto in realtà fossero e decisero di effettuare la discesa finale prematuramente. La parte iniziale della discesa, fu effettuata in volo strumentale fino a due miglia dall’aeroporto di arrivo, poi l’equipaggio interruppe la discesa a 150 piedi (50 m) di quota sul mare, e passò a pilotare manualmente cercando di individuare il punto di contatto sulla pista, perdendo però altra quota. I piloti proseguirono la manovra, ormai divenuta pericolosa, in quanto si scorgevano le luci dell’aeroporto. Negli ultimi nove secondi del volo, però, il DC-9 volò quasi allo stesso livello del mare, alla velocità di 150 nodi (280 km/h). Un colpo di vento fece perdere la pochissima quota residua e l’aereo impattò con l’acqua con l’ala destra, spezzandosi in due tronconi e affondando. La maggior parte delle vittime perì per via dell’impatto, alcuni persero la vita per le temperature rigide dell’acqua marina. 21 passeggeri si salvarono e furono recuperati dalle vicine barche da pesca.
Morirono nell’impatto in 108: 103 passeggeri e tutti i 5 membri dell’equipaggio.

Secondo quanto dichiarato in seguito da alcuni piloti, l’incidente potrebbe essere stato causato da un’illusione ottica che avrebbe tratto in errore i piloti. Sembra infatti che di notte, con particolari condizioni meteo (in particolare con copertura nuvolosa a bassa quota) le luci della pista si potessero riflettere sulle nubi e in acqua, dando l’impressione che la pista si trovasse alcune centinaia di metri prima della sua posizione reale. Il disorientamento tra le informazioni degli strumenti avute durante la prima fase dell’avvicinamento e questa illusione ottica avrebbe contribuito all’incidente.

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La testimonianza di un sopravvissuto

“Io, sopravvissuto a un disastro, vi racconto quei momenti in fondo al mare” Carlo Pavone oggi ha 40 anni “Quando sento la notizia di un aereo che e’ caduto mi vengono in mente dei flash della mia avventura: l’acqua, i sedili che volano, il buio e poi i colori della vita “Sono passati vent’anni, ma ogni volta che sento la notizia di un aereo caduto, dei flash mi invadono la mente. solo un attimo, rivedo i sedili che volano, l’aereo che affonda, il buio, l’acqua, il silenzio. E poi i colori della vita”. Sopravvissuto, miracolato, baciato dalla fortuna. Quante etichette hanno cucito addosso a Carlo Pavone, urologo palermitano oggi quarantenne, che nella notte tra il 22 e il 23 dicembre del 1978 uscì vivo dal Dc 9 dell’Alitalia inabissatosi davanti all’aeroporto di Punta Raisi. C’erano 130 persone a bordo di quell’aereo, tornavano da Roma per trascorrere il Natale a casa. Lui, studente in medicina di vent’anni, aveva il volo prenotato alle 9.30 del mattino. Il traffico prenatalizio della capitale gli fece perdere l’aereo catapultandolo in un’avventura che non avrebbe mai immaginato di dover vivere. Il volo AZ 4118 Roma – Palermo partì verso la mezzanotte. Pioveva, c’era vento, ma il viaggio era stato normale. All’improvviso, nell’ultima virata prima dell’atterraggio, un’ala toccò la cresta del mare. Il Dc9 si schiantò sull’acqua, spezzandosi in tre tronconi e affondando. Solo in ventuno riuscirono a rimanere vivi. Pavone racconta: “Ci aspettavamo un atterraggio normale; non immaginavamo ciò che stava accadendo. I piloti non riuscivano a trovare la pista e per concentrarsi sulla ricerca della traiettoria avevano spento l’altimetro perché dava fastidio, senza rendersi conto che si trovavano a pochi metri dall’acqua a una velocità di 400 all’ora. Quando intuirono la situazione era tardi. Virarono, l’ala toccò il mare e…”. Poi i momenti più drammatici, appeso tra la vita e la morte. Primo flash: “stato improvviso, nessuno ha avuto il tempo di urlare. Ricordo solo il pianto disperato di un neonato. Andai a sbattere sulla poltroncina davanti, mentre le luci si spegnevano. Mi sono detto: ma questo e’ un incidente, guarda che fregatura, che beffa. Ho dato gli esami all’università, torno a casa per le feste, ho una vita davanti. Ora non potrò più avere delle donne, andare al cinema, fare carriera… Ho pensato tutto ciò in quel tragitto di 50 centimetri, fino alla sedia davanti. Inizialmente non avevo paura perché mi aspettavo di perdere conoscenza e morire”. Secondo flash: “Ero sott’acqua, nella parte centrale della fusoliera, incastrato tra i pezzi dell’aereo. Quando ho capito di essere vivo, ho cercato di uscire, ma ero agganciato alla cintura di sicurezza. Per fortuna il sedile si era sbullonato. Sono riuscito a tirarmelo dietro, e sono tornato alla vita”. Terzo flash: “La boccata d’aria, e quel cielo nero sopra di me. Sulla superficie dell’acqua ho visto una scia di teste. Non so quanti fossero vivi. Dopo un minuto e’ arrivata un’onda e ha cancellato tutto”. Quarto flash: “Ho visto i pescherecci che venivano verso di me. Ho cominciato a nuotare per raggiungerli. Avevo un movimento innaturale, andavo continuamente sott’acqua. Non mi ero reso conto di essere paralizzato alle gambe, una vertebra si era incrinata. Ma ero salvo. Mi hanno tirato a bordo e dopo poche ore le gambe hanno ricominciato a funzionare”. Frammenti di una tragedia, ma scavando in quel passato anche ricordi più profondi: “Il viso del carabiniere che mi viaggiava accanto. Si chiamava Calogero Perrone, era in licenza – premio dopo essere scampato a un attentato delle Br. Il suo corpo non e’ stato più ritrovato. E il comandante del peschereccio che mi ha tratto in salvo. L’unica persona di tutta la vicenda con la quale sono rimasto in contatto: e’ diventato un mio paziente”. E poi la paura, quella dell’aereo: “Sei mesi dopo l’incidente avevo ancora il gesso e dovevo andare a Roma per degli esami. Decisi che dovevo rompere il tabù e prenotai un volo. Presi un’unica precauzione, portai un seghetto. Se l’aereo cade, pensai, almeno taglio il gesso e cerco di salvarmi. Adesso l’aereo e’ un mezzo che odio. Lo prendo solo per lavoro, quasi mi giustificasse con me stesso, mai quando devo viaggiare per diletto. La fortuna? Non c’entra. Quando si esce vivi da un incidente aereo e’ per una serie di circostanze”. Oggi Carlo Pavone ha 40 anni, e’ sposato e ha due bimbe di sei e quattro anni. “A loro questa storia non l’ho ancora raccontata. Sono piccole, si possono impressionare. E poi ogni tanto sento nelle orecchie il pianto di quel bambino pochi secondi prima dello schianto…”.
Gianni Valenti

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