Marinai,  Recensioni,  Un mare di amici

Vittorio Fioravanti Grasso

Autoritratto di un poeta marinaio

…ho buona memoria,  ma spesso mi dimentico la caffettiera sul fornello acceso.

Mi chiamo Vittorio e vivo a Caracas. I miei m’hanno generato a La Spezia nell’estate del 1935, e fatto poi nascere nell’aprile dell’anno seguente a Taranto.
Amo Venezia in maniera ossessiva. Vi ho vissuto da studente. Ho scritto liriche bellissime su quegli anni vibranti. Avrei voluto trascorrere la mia esistenza negli anni della Serenissima. La musica di Vivaldi mi penetra profondamente.
Scrivo da sempre: da studente, da emigrante, da impiegato, da impresario, da vecchio senza pensione, persino qui nel Venezuela. Nel 2004 ho vinto il Primo Premio Assoluto di Poesia del Concorso Mondiale “Italia Mia”, riservato agli scrittori italiani residenti all’estero, patrocinato per l’appunto dal Ministero degli Italiani residenti all’estero. Il Primo Premio di Poesia con la lirica “Non c’era una volta”.
Il mio tasso di poesia è un groviglio inquinato di desideri, un grumo d’irrefrenabili ormoni nelle vene e l’indice maledettamente alto di grasso viscerale… E’ un mio lasciarsi andare, scivolare inerte e lentamente affondare, anima e corpo, nell’acque tiepide d’una malinconica, sofferta rassegnazione. Credo d’essere d’indole nostalgica, riflessiva, introversa. Ma ho una vena ironica insopprimibile. La memoria ha invaso il mio mondo interiore. Mi perdo su struggenti rimpianti e su dolorosi rimorsi, ma rivivo quegl’istanti di armoniosa gioia che mi sia stato concesso di godere.
Vivo particolarmente proiettato nel passato, poco nel presente e ancor meno nel futuro. Provo insofferenza nei confronti di tutto ciò che sia sfacciatamente fraudolento, falso, propagandato senza ritegno alcuno, ingannevole. I miei sentimenti sono sempre sinceri e genuini (dentro di me). Ma so mentire quando occorre… Sono comunque molto convincente. Perfino con me stesso. Sono un piccolo, grande uomo convinto. Non so tutta la verità, ma quanto mi basta per andare avanti. Non invidio nessuno, l’amore che nutro per me stesso colma le mie aspettative.
Ho buona memoria, ma spesso mi dimentico la caffettiera sul fornello acceso.
Non ho avuto amici d’infanzia, ma tante fidanzatine un po’ dappertutto.
Bestemmio senza l’intenzione di farlo. A vuoto. Le mie fughe sono accuratamente strategiche. Ci sono errori che riconosco, ma che torno a commettere.
Io il primo bacio non l’ho dato, me l’hanno dato. Le bombe su Spezia, la mia ferita più grande. Chiedo scusa quando valga la pena farlo. Mi distraggo. Succede. Ogni tanto.
Sono stanco di progettare. Cerco di fare e dire soltanto l’indispensabile.
Rido spesso, ma in maniera discreta. A volte appena mentalmente.
Io il demonio l’ho dentro, ma so controllarlo con molta energia.
In Marina ho imparato a sparare. Due anni di servizio militare di Leva. Se fossi stato inviato in una missione di guerra, avrei dovuto eventualmente uccidere. Non è successo.
Sono emigrato per ben due volte: a Stoccarda e a Caracas. Entrambe dietro a una donna: la tedesca Irmgard nel ’60 e la venezuelana Marlene nel ’66. Le ho sposate e ho avuto da loro quattro figli: Marco da Irmgard e Leonardo, Samantha ed Arlene da Marlene.
Sono nonno di sei nipotini: Marie-Lisa, figlia di Marco, Maurizio e Valentina, figli di Leonardo, e Adrian, Mathias e Sabrina, figli di Samantha. Arlene è sposata da un anno appena, e ha in programma la nascita di due gemelle nel 2013…
Non ho visto morire né mio padre, né mia madre, e neanche mio fratello Romano. Emigrando si perde anche questo. Ho paura di dover soffrire la morte inattesa d’un mio figlio o un mio nipote. Ho perso la fede ma mi sento cristiano, e spesso mi viene spontaneo fare il segno della croce.
L’idea della morte accompagna i miei più istintivi moti interiori, come il sesso e l’amore, la voglia di bere e mangiare, il nuoto a lente bracciate nel sapore del mare, e poi quell’ansia di scrivere e scrivere, leggere e leggere… Sulla morte poi ci scherzo anche sopra, me la godo come una striscia comica, la dissacro in ogni suo intangibile aspetto. Inutile nasconderlo: so che verrà, e avrà gli occhi che già conosco.
Vorrei morire con i miei figli e i miei nipoti attorno a me. Sul balcone di casa, al tramonto d’una giornata di festa. Vorrei morire piangendo di gioia.
Morire è appena un passo nel vuoto, un precipitare per un istante d’eternità, lungo uno spazio inesistente. In un buio infernale. Oppure trapassare nel sole un velo etereo, e restare in piedi su uno scoglio ad immergere lo sguardo nel mare. Fino all’estremo orizzonte. Per un solo momento infinito, senza fine, per un tempo inesistente. Sarà questo il paradiso?..


vittoriofioravanti@yahoo.it

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