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Il portiere

di Giuseppe Pavich

Mi presento con leggero ritardo alla portineria dell’albergo. Il viaggio non è stato lungo, ma quel traffico, quelle strade sottosopra, quella festa di paese con tanto di banda e bancarelle mi hanno fatto arrivare dopo il previsto. Ma il portiere non ne sembra turbato.
Sta lì, appollaiato sul bancone, le mani congiunte a sorreggere il volto, impassibile nella lettura del quotidiano locale. La giacchetta stazzonata e dai polsi lisi copre una camiciola celestina, sbottonata sul collo; stranamente, il nostro amico tiene la coppola calzata anche sul lavoro. Non ha l’aria del portiere d’albergo; se è per questo, neppure l’albergo ha l’aria dell’albergo: ad essere generosi sembra una pensioncina di terz’ordine; la portineria è minuscola, c’è si e no lo spazio per i bagagli di una famiglia di quattro persone. Ma qui non arrivano certo le comitive di turisti.
Lui sembra non accorgersi di me.
“’Sera, sono Lupetti…ho prenotato ieri, si ricorda?”.
Senza dire una parola, lui prende il brogliaccio delle prenotazioni, cerca un attimo e mi trova subito. Probabilmente non sono l’unico cliente, ma ce ne devono essere pochi altri. Prima che me lo chieda, gli passo la carta d’identità. Lui annota, con grande calma, la grafia approssimativa scorre lentamente sul foglio. Poi, con un sospiro, alza gli occhi e mi porge la chiave: “Treccentottrè”. Pronunziando le ti e le erre come se fossero un tutt’uno indistinto, come usa da queste parti.
Vado per prendere l’ascensore, ma lui mi ferma con voce scocciata: “Guasto è. C’è la scala alla vostra sinistra”.
Mi tocca salire a piedi, accidenti alle sigarette. E meno male che ho solo un borsone, quel poco che mi serve per i due giorni che trascorrerò qui. Domattina ho appuntamento con Gaspare Scimemi, personaggio di fama equivoca ma dal quale debbo farmi dire alcune cosette importanti per la mia inchiesta: un caso di usura nei confronti di un ristoratore. Me lo hanno descritto come un soggetto molto amato in paese; e, nonostante il suo nome figuri in una serie di indagini, roba grossa intendo, risulta tuttora incensurato. Ho appuntamento con lui nella sua villa appena fuori paese, alle dieci e trenta.
Apro la stanza, invasa da un odore di chiuso, misto ad un sottile aroma di biscotto savoiardo. Disadorna: un letto singolo senza spalliera, un armadio con un’anta rotta, un bagno con evidenti macchie di ruggine nel piatto doccia e nel lavandino. Alle pareti, c’è solo una foto del paese, visibilmente scolorita. Non ho fame, non andrò a mangiare. Mi butto sul letto, dopo essermi tolto solo le scarpe, e mi addormento così, vestito.
Mi sveglio alle cinque. Il chiarore dell’alba filtra dalle persiane e mi toglie il sonno. Apro la finestra: le luci dei lampioni sono ancora accese, la piazza è piena di cartacce della sera prima, residui della festa paesana. L’aria odora di erba tagliata. Richiudo, mi spoglio, mi lavo e mi rivesto. Decido di uscire.
Scendo e passo davanti alla portineria. E lui, il portiere, sta sempre lì, ancora con il suo giornale ed ancora nella stessa posizione in cui l’ho trovato. Gli poggio le chiavi davanti, accenno a un saluto, lui rimane inerte e silenzioso. Faccio per uscire e, quando l’ho già di spalle, lui mi ferma a voce alta: “Dottore Lupetto, vedete che don Gaspare vi vuole vedere prima, alle nove. Vi manderà a prendere”.
Strano: io non ho detto a nessuno, tanto meno a Gaspare Scimemi, che sarei venuto in questo albergo: in paese ce ne sono almeno tre, e questo è sicuramente il meno blasonato. E poi mi chiedo: quando è stato informato il portiere del cambio d’orario? Lo sapeva già ieri sera? O lo ha saputo stanotte?
Mi incammino verso il bar più vistoso della piazza, quello coi tavolini all’aperto. Ormai fa quasi caldo; mi siedo fuori. Sono le sei e mezza, ma il locale è già aperto, anche se dentro vedo solo una ragazza che sta pulendo il pavimento con uno straccio. Aspetto un quarto d’ora, poi finalmente lei arriva, le ordino “un caffè e una brioche, o qualcosa di simile”; lei mi risponde : “Le paste arrivano dopo le nove, se volete ci sono le merendine, ve ne volete scegliere una?”. Mi adatto ad una fetta di plum cake chiusa nel cellophane.
Mi porta il caffè e, con uno strano sorriso, mi chiede: “Ma voi che volete da don Gaspare? Perché lo dovete interrogare?”.
La guardo fingendo divertimento; cerco di farle capire “e te lo vengo a dire proprio a te?”. Invece, dopo un attimo, rispondo con una domanda: “Mi scusi la curiosità; ma a lei, e al portiere dell’albergo, chi glielo ha detto che sono qui per incontrare Scimemi?”.
La ragazza è furba, sta al gioco; mi guarda anche lei fingendosi divertita e mi fa capire “e te lo vengo a dire proprio a te?”. Dopo qualche secondo, mi spiega che lei è la figlia del portiere dell’albergo, facendomi intendere come può avere avuto l’informazione. Trangugio il caffè, pago e me ne torno in albergo. Ancora c’è tempo, prima dell’appuntamento. Salgo in stanza transitando davanti al portiere che, ancora assorto nella sua lettura, ha lasciato sul bancone la mia chiave.
Mi corico sul letto. Alle nove meno un quarto, uno squillo di telefono mi avvisa che qualcuno cerca di me. Scendo, e non vedo il portiere. Lo cerco con lo sguardo, poi vedo che davanti al portone c’è lui alla guida di una vecchia Mercedes. “Dottore, qua sono, dove guardate? Vogliamo andare?”.
Dunque è con lui che don Gaspare mi fa accompagnare. Il percorso è breve, il mio autista al solito è muto. Arriviamo in cinque minuti, lui apre il cancello col telecomando. Parcheggia nello spiazzo antistante la villa, che in realtà è un palazzotto d’epoca ben ristrutturato. Mi fa scendere e mi accompagna dentro. Ha anche le chiavi per aprire.
“Don Gaspare, ve l’ho portato”, dice in dialetto.
Il padrone di casa mi riceve senza cerimonie. Vestito con un abito vecchio, ma di buon taglio, mi conduce nel suo studio. Il colloquio, durante il quale risponde evasivo a quasi tutte le mie domande, dura meno di mezz’ora. Poi mi congeda, gli porgo la mano, ma lui rimane immobile e neppure mi accompagna all’uscita: chiama con voce roca una domestica, che mi fa strada verso il portone.
Il portiere-autista è ancora lì, in macchina. Salgo e con lui torno in albergo.
Prese le chiavi, affronto le rampe di scale; apro la porta della mia stanza e, sul letto, trovo un pacchetto da pasticceria, un biglietto e il mio borsone, che qualcuno a mia insaputa ha preparato.
Sul biglietto, in buona grafia, c’è scritto:

Gentile dottore, la ringrazio per avere scelto uno dei miei alberghi; del resto anche gli altri due in paese sono di mia proprietà. La ringrazio anche di avermi fatto la cortesia di venire in anticipo, cosa che mi consente di dedicare più tempo alle mie faccende. Sono certo che del colloquio che ella mi ha richiesto saprà fare l’uso migliore, per quel poco che le ho potuto dire. Ma si renderà conto che non è un piacere, per me, dover riferire attorno a certe questioni. In questo paese, mi creda, nulla e nessuno le potrà essere in futuro di qualche utilità per le sue ricerche; quindi, immagino che lei non abbia più ragione di trattenersi oltre. Mi è comunque gradita l’occasione per inviarle, quale piccolo omaggio per la sua visita, un vassoio di brioches: quelle che stamattina, a colazione, il mio bar non è stato in grado di offrirle”.

Ho capito. Non mi resta che prendere il borsone e il pacchetto, ed allontanarmi, senza nostalgia, da questo posto.
Scendo e riconsegno le chiavi al portiere; il quale, mentre mi accingo a pagare, mi ferma: “Non vi preoccupate, dottore, e non insistete: siete stato ospite di don Gaspare!”.
Imbarazzato, esco dall’albergo. Salendo in macchina, comincio a pensare che ho forse qualche motivo di sospetto in più, ma anche l’assoluta convinzione che cercare la verità in questo paese non potrà portare nulla di buono né alle mie indagini, né a me.

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