Racconti,  Recensioni

Ancora dal mio “diario di bordo – 1984” …

di Giuseppe Pavich

Quanto è accaduto da ultimo merita un racconto a parte: il 17 maggio sono montato ancora dalle 6 alle 8 di pomeriggio, a 40 miglia dalle Bermude; il mare era forza 6, il vento 40 nodi; non avevo ormai più un capo di vestiario all’asciutto, quindi le forti ondate che spruzzavano la coperta erano diventate un fatto abituale. Con tutto il motore e la velatura alzata, il mare e il vento contrari non ci facevano fare più di 3-4 nodi.
Alle 8 sono andato a letto. Meglio: a quel che restava del letto, dato che entrava acqua dappertutto, anche dal tambucio[1] che sta giusto sopra il letto in cui dovevo dormire. La nave era fradicia dentro come fuori.
Ho atteso così di montare alle 4 di notte; ma, essendo arrivati davanti alle isole a mezzanotte, eravamo costretti ad attendere di farvi ingresso il mattino seguente. Quindi pendolavamo davanti all’arcipelago, a 10-12 miglia di distanza, e ogni ora eravamo costretti a virare. Ora, chi dorme in tuga sui letti bassi (era il mio caso) può dormire, quando la nave è inclinata lateralmente, solo stando sottovento: tale posizione cambiava ad ogni virata, sicché io ogni ora dovevo cambiare branda e andare dall’altro lato.
Alle 4 il brusco risveglio dà la misura della situazione: si va tutti (dico tutti) in coperta, c’è da dare la terza mano di terzaroli (è il massimo possibile di riduzione della randa, tipico delle situazioni peggiori, e perciò rarissimo) e da mettere il fiocco tre, il più piccolo.
Lo spettacolo che vedo quando salgo in coperta è pazzesco: onde da almeno otto – dieci metri (ora che le ho viste so cosa sono: masse d’acqua nere e terrificanti, con vorticose creste bianche) circondano la barca e sbattono forte su tutta la sua superficie; il vento è di 70-80 nodi, il mare verrà più tardi valutato come forza 8. E questo sarà il mio ambiente di lavoro per le prossime quattro ore.
Salgo, dunque, in coperta, aggancio la cintura di sicurezza alla draglia salvavita[2] e vado a prora al coffee grinder[3] a cazzare il fiocco per la virata. Non mi reggo in piedi, per le onde enormi e continue, per il vento e per l’inclinazione della barca. Poi, lavoro sotto il boma per prendere la terza mano di terzaroli: un’operazione così durerebbe, in condizioni di mare normalmente cattivo, non più di 15 minuti; così, invece, e con tutto l’equipaggio al lavoro, dura oltre un’ora.
Per eseguire il lavoro ci siamo spostati col mare in poppa; quando viriamo e ci rimettiamo col vento in bolina, il mare aumenta leggermente. C’è la luna piena, poetico contrasto con l’inferno in cui siamo piombati. Beccheggio e rollio continuo fanno diventare la barca come un cavallo da rodeo, con impennate della prua che poi si tuffa nel ventre delle onde, mentre, quando l’onda non sbatte nel pozzetto ove siamo seduti, una sottile pioggia nebulizzata di acqua marina ci leviga la faccia. Le botte delle onde che riempiono il pozzetto sono di una violenza inaudita, e più che l’acqua addosso, cui ormai siamo abituati, sono proprio i colpi dell’onda sulla schiena a far male. Siamo tutti rannicchiati, nessuno parla, nessuno riesce nemmeno a vomitare. Credo che più o meno tutti stiamo pregando mentalmente; comunque, e ciò è già sintomatico dato l’ambiente, non si bestemmia più. Il faro che segna l’ingresso del canale d’accesso alle isole si vede solo per il 20 per cento del tempo, dato che le onde sovrastano l’orizzonte. Ci avviciniamo con estrema lentezza, e non in linea retta, perché il mare è in prora, ma con virate successive: e fare una virata in situazioni così, agganciandosi dove càpita, facendo un bagno integrale e facendo sforzi inauditi sulle manovre per muovere la vela, non lo raccomando a nessuno. Io in 4 ore, di virate così, ne ho fatte cinque.
Intanto continuiamo a imbarcare acqua. Scatta l’allarme-sentina, e allora chiamiamo quelli in tuga a pompare come disperati. Dopo un’ora la spia rossa di allarme è ancora accesa, ma si viene a scoprire che giù stanno pompando a vuoto. Per fortuna, colpa di questo protratto falso allarme era il galleggiante che, rimasto incastrato, azionava la spia. Ma intanto la barca è a pezzi per fatti suoi: si sta rompendo l’amantiglio della randa[4], 5 garrocci della randa si sono troncati all’altezza della penna[5]; buona parte dei circuiti elettrici è a massa.
Ci avviciniamo col contagocce. Alle sette e mezza, quando comincia ad albeggiare (siamo due ore avanti sul fuso reale) e quando siamo a 6-7 miglia dalla costa, il moto ondoso tende a diminuire di violenza, progressivamente.
Alle otto smonto, esausto, e mi butto così come sono sulla branda bagnata.
Alle nove e mezza mi svegliano, così come svegliano tutti gli altri: tutti in coperta, pronti ad entrare in porto. E’ la fine di un’avventura. Quando, faticosamente, entriamo nel canale di St.George, un uomo di colore ci saluta: è il primo uomo che vediamo, oltre a noi 16, dopo diciotto giorni di traversata atlantica; le rocce, lussureggianti di vegetazione sull’acqua celeste-verde chiara, emanano un profumo incredibile di fiori tropicali. Entriamo in porto, affiancati a un’altra barca a vela canadese; una ragazza sta spazzando la coperta. Ci sorride. Torno a vivere.

Note
[1] Il tambucio è una sorta di finestra orizzontale, situata sul tettuccio (“roof”) della tuga. Ovviamente, in condizioni normali, la guarnizione in gomma che lo completa lo rende assolutamente stagno ed impermeabile.

[2]Quando le condizioni del mare rendono rischiosa la permanenza in coperta, si applica su quest’ultima la draglia salvavita, costituita da una sagola normalmente in acciaio intrecciato, che corre sia a dritta che a sinistra in senso longitudinale (da poppa a prora), ed alla quale i membri dell’equipaggio si assicurano mediante un moschettone posto all’estremità di una cima, allacciata alla cintura di sicurezza che essi hanno nel frattempo indossato.

[3] Coffee grinder (macinacaffè) è il nomignolo di una sorta di grosso argano con manovella a doppia impugnatura, azionato sempre da due membri dell’equipaggio, che serve per cazzare – o comunque per mettere in trazione- le manovre della velatura quando si eseguono le virate o le strambate. Ciò si verifica assai spesso quando si è costretti a cambiare più volte direzione, o a “fare bordi”: manovra difficile e faticosa, che si esegue allorché – come nell’occasione narrata- il vento viene dritto da prora e costringe a procedere a zigzag per consentire almeno di procedere in bolina, ora su un lato ora sull’altro.

[4] Si tratta di una sorta di binario metallico, una guida all’interno della quale scorre la randa quando viene issata, e che ne assicura l’aderenza all’albero sia durante la manovra che nel corso della navigazione.

[5] I garrocci sono gli agganci metallici della randa alla drizza e la sostengono quando essa viene issata; la penna è il vertice della vela (sia essa la randa o altra), ed è il punto sul quale si esercita la trazione nell’issare la vela stessa.

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