La missione del giovane cavaliere

La missione del giovane cavaliere – VI Capitolo

di Marino Miccoli

Breve riassunto dei capitoli precedenti.

A Settentrione della Contea di Puglia, Regione del Regno di Sicilia, (regnante Guglielmo II “il buono” nella splendida capitale del regno: Palermo) si svolge la nostra vicenda. E’ la fine del mese di novembre dell’Anno del Signore 1187 quando alle pendici dei monti Frentani, in un piccolo villaggio, avviene l’incontro tra i due protagonisti del romanzo: un cavaliere di nobile stirpe chiede indicazioni sul suo itinerario ad un giovinetto (orfano di entrambi i genitori) di nome ADALBERTO che si offre di accompagnarlo. Il primo, dopo una breve riflessione, acconsente e getta le redini del suo pregiato cavallo al ragazzo che, assai contento, raccoglie sùbito le redini e inizia in tal modo il viaggio. I due, dopo aver pernottato in riva al fiume Trigno, rimangono privi di Caligine, il superbo destriero del cavaliere. Tuttavia, imperterriti, proseguono a piedi in direzione Sud. Durante il cammino Adalberto apprende che il suo cavaliere (del quale non conosce ancora il nome) è partito da Perugia ed è diretto a Otranto, per compiere una misteriosa missione. Dopo alcune miglia di cammino, effettuano un’altra tappa presso la casa di Raffaele, un contadino che li accoglierà calorosamente nella sua umile ma dignitosa dimora. Qui il cavaliere rivela la sua età: 28 anni e il suo nome: fratel Pietro da Mola. Svela pure la denominazione dell’antica Fraternitas a cui appartiene: il potente quanto autorevole ordine dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. Dopo essersi sfamati, lavati e riposati, riprendono il loro cammino. Il ragazzo, proprio prima della partenza, si avvede che il cavaliere cela nella sua bisaccia uno scrigno di legno nero assicurato da legacci… in esso vi è custodita una pergamena  chiusa da alcuni sigilli, l’integrità dei quali il cavaliere ha controllato meticolosamente. I due attraversano un fitto bosco di lecci e seguendo un sentiero giungono ai limiti di una radura; è qui che hanno una gradita sorpresa: ritrovano il pregiatissimo destriero del cavaliere, Caligine che stava pascolando congiuntamente alla sua nuova compagna, una bella giumenta bianca che Adalberto adotterà immediatamente imponendole il nome di Candida. Cavalcando i due preziosi quanto utili quadrupedi, i nostri due protagonisti riprendono di buona lena il loro viaggio in direzione del Mezzogiorno. Proprio nel momento in cui stanno per fare un’altra tappa, in riva al fiume Celone, sono attaccati improvvisamente da quattro soldati normanni; il ragazzo, atterrito ma lesto come uno scoiattolo, fugge e si nasconde nel canneto, sull’argine del fiume. Pietro, il nobile cavaliere, riesce a malapena ad estrarre la sua spada dal fodero e ad incrociarla con uno dei soldati che viene subito sopraffatto! Infatti, colpito non mortalmente da tergo, stramazza al suolo. Si rialza e richiama Adalberto, il quale, obbedendo al suo signore fuoriesce ancora terrorizzato dal suo nascondiglio. Il cavaliere mostra l’oggetto della sua missione al sergente normanno, il quale, nel riconoscere i sigilli del suo connestabile Ruggero d’Andria e quelli del Regno della Chiesa apposti sulla pergamena, esterna il suo rispetto. Non solo, ma Goffredo De Berck dà la sua disponibilità a scortare Pietro (qualificato e riconosciuto come “LEGATO MISSI” del sommo Pontefice) e il suo giovane scudiero per una parte del viaggio…

VI CAPITOLO
Era sorto il sole da circa un’ora quando i sei cavalieri ripresero il cammino; individuato un punto laddove era possibile attraversare in sicurezza il Celone effettuarono il guado. In testa al gruppo vi erano Goffredo e Pietro che di tanto in tanto discorrevano nell’idioma normanno. Per Adalberto quei colloqui erano quasi del tutto incomprensibili e ad un certo punto chiese a Pietro:
– “Perdonate la mia curiosità, signore, ma dove avete imparato a parlare la lingua dei Franchi?”
– “A San Giovanni d’Acri, una città portuale della Galilea, laddove vi è una solida fortezza presidiata dai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni, dei quali mi onoro far parte.”
Poi, notando l’interesse del ragazzo, riprese:
– ”Devi sapere, Adalberto, che in Terra Santa vi sono diverse fortezze cristiane, una in particolare, denominata Crack, situata sugli argini del fiume Oronte in Siria, è così ben costruita da essere considerata inespugnabile! Pensa che è munita di ben nove cisterne di acqua dolce al fine di poter resistere a lunghi assedii. Colà è costume di fare uso della lingua d’Oil nei dialoghi tra i numerosi cavalieri cristiani provenienti da diversi regni d’Europa, è la medesima che adopero per dialogare con Goffredo”.
– “E di cosa stavate parlando con il sergente Normanno? “ lo incalzò nuovamente il ragazzo.
– “Goffredo de Berck mi stava riferendo di aver saputo da un suo parente navigatore che la fortezza di San Giovanni d’Acri, il nostro più importante porto in Terra Santa, è capitolata i primi di luglio di quest’anno. Il governatore cristiano, tale Jocelin di Courtenay, ha trattato la resa della sua guarnigione con il sultano “Saladino” ottenendo da questi la salvezza dell’intera popolazione cristiana.”
– “Questo Saladino, sempre lui, dev’essere proprio un diavolo, allora! “esclamò il ragazzo.
-“Più che un diavolo il principe Salah ad-Din è un abilissimo stratega. Astuto e furbo come una volpe egli è il capo carismatico e indiscusso di una forte armata mussulmana costituita da Arabi, Siriani, Egiziani, Turchi e Persiani. Egli è anche uno spietato condottiero; ti basti pensare, Adalberto, che fino ad oggi, ogni volta che in battaglia sono stati catturati dei miei fratelli Ospitalieri oppure dei cavalieri Templari, questi non hanno mai avuto la benché minima speranza di salvarsi. Il feroce Saladino ha decretato che per i cavalieri cristiani appartenenti a quegli Ordini non ci deve essere alcuna pietà e ne ha così ordinato la decapitazione immediata, là sul campo di battaglia…”.
Il cavaliere, dopo aver pronunciato queste parole, con gli occhi bagnati dalle lacrime per il triste ricordo dei suoi numerosi confratelli uccisi, non parlò oltre; si fece il segno della Croce e si discostò dal ragazzo. Cavalcarono ancora per circa due ore seguendo quella strada che portava a Sud.
Giunti sul fiume Ofanto al costo di due follari i nostri furono traghettati con un barcone sulla sponda destra e Pietro, sbarcando si mostrò contento nel preannunciare:
– “Tra non molto saremo in vista dell”Urbe Caput Regionii”, la magnifica città di Barletta, laddove vi è la sede di un Priorato del mio Ordine; quando saremo giunti colà vedrete quale sia la considerazione e l’accoglienza che ci verrà riservata dai miei diletti confratelli Ospitalieri”.
Detto questo diede di sprone a Caligine che si avviò al galoppo portandosi in testa al gruppo che a sua volta aumentò l’andatura. Giunti sotto le mura di quella bella e ben munita città, il sergente normanno, affiancato da Pietro, si presentò al corpo di guardia che presidiava la porta principale e chiese delle informazioni sull’itinerario da percorrere per raggiungere il Palazzo dei Cavalieri di San Giovanni.
Il capo-posto, un alto e massiccio normanno, dalla fluente barba e con i capelli biondi raccolti in due lunghe trecce, dopo aver salutato Goffredo de Berck portando la mano alla visiera, si mostrò disponibile comandando a una delle sue guardie di far loro da guida. Quindi, salutandoli con un cenno del capo, si congedò dal gruppo e rientrò nella caserma. In breve giunse una sentinella normanna a cavallo che si mise in testa al gruppo e fece strada. Procedendo per le vie di quella popolosa città passarono dinanzi a una pregevole chiesa, in prossimità della quale vi era la statua gigantesca di un legionario che ostentava nella mano destra una croce e reggeva nella sinistra un globo. Adalberto era meravigliato e pareva essere quasi intimorito nell’ammirare quel gigante che si ergeva in tutta la sua imponenza…
– “Chi raffigura questo colosso? ” domandò.
– “Eraclio è il nome del gigante che protegge questa bella città; egli è grande ed è forte come i difensori della nostra santa Fede! ” esclamò Pietro, il quale fissando negli occhi il ragazzo continuò:
– “Con la sua imponente mole vuole testimoniare la solidità della nostra fede in Cristo! Per merito della nostra santa Fede siamo nella Verità; per questo mai e poi mai la nostra amatissima terra di Puglia diverrà un califfato islamico!“.
Il ragazzo, notando il fervore del suo signore, assentì con un cenno del capo e comprese da quelle parole che anch’egli era di origine pugliese. Poco dopo i nostri s’imbatterono in una processione; fermatisi ai margini della strada smontarono dai cavalli e si scoprirono il capo in segno di rispetto. L’odore dell’incenso asperso si poteva percepire sempre più intenso per quella contrada; udendo il tintinnìo di una campanella suonata da un giovane chierichetto che apriva quel lungo corteo gli abitanti fuoriuscivano dalle loro case.
I mercanti tacquero, il frastuono prodotto dalle botteghe degli artigiani e il vociare proveniente dalle locande cessò. All’improvviso un rispettoso silenzio scese su tutta la via. Mentre passava dinanzi a loro il crocifero che era in testa al capitolo
dei diaconi e dei presbìteri, videro Pietro correre verso i due anziani vescovi che precedevano di pochi passi l’icona della santa Madre di Dio; si accostò ad uno di essi, si mise in ginocchio e gli baciò la mano.
Quel canuto prelato nel riconoscerlo sorrise e gli pose la mano sul capo in segno di benedizione; quindi lo fece rialzare e lo abbracciò. I due si scambiarono poche brevi frasi, poi, dopo averlo benedetto con il segno della croce, il vecchio Vescovo salutò Pietro. Indi fece un cenno ai chierici e così la processione si riavviò in direzione del Duomo. Pietro tornò sorridente e radioso dai suoi compagni di viaggio, riferendo di essere stato molto contento di aver riabbracciato Letardus, il venerabile vescovo di Nazareth che egli aveva avuto modo d’incontrare in Terra Santa proprio l’anno precedente.
Per la prima volta Adalberto scorse una grande gioia negli occhi del suo cavaliere; difatti Pietro da Mola era emozionato e al contempo felice; la sua esultanza era stata tale da farlo commuovere; pareva come se egli avesse appena riabbracciato suo padre.
Quando fu terminato il passaggio della solenne processione, i cavalieri ripresero lesti il cammino. Dopo aver percorso circa mezzo miglio, giunsero al palazzo degli Ospitalieri, un elegante edificio di tre piani che era anche la sede del Priorato, adornato da un rigoglioso giardino piantumato di palme, agrumi e circondato da un alto muro. Adalberto suonò la campanella situata nei pressi del massiccio portone
e, poco dopo, aprì loro un giovane servente. Questi li accompagnò all’interno della ampia sala sita al piano terreno. Qui i nostri furono accolti calorosamente dai cavalieri presenti. Quegli Ospitalieri, quando ebbero riconosciuto nel “Legato missi” il loro confratello Pietro da Mola, si prodigarono nel provvedere a tutto quanto essi abbisognavano: per prima cosa ricoverarono i loro cavalli nelle stalle per alimentarli, strigliarli e ferrarli.
Intanto quello che sembrava essere il più anziano dei cavalieri si fece incontro a Pietro da Mola il quale ancor prima di salutarlo fece una genuflessione in segno di riverenza e gli baciò l’anello; quegli lo esortò a sollevarsi e lo abbracciò. Ebbero un breve colloquio nel corso del quale Pietro spiegò lo scopo della sua missione e mostrò la pergamena recante i sigilli papali che egli custodiva gelosamente nella sua bisaccia.
Il vecchio cavaliere esaminò i sigilli pontifici attentamente indi la rese a Pietro; poi chiamò con un battito delle mani i serventi che prontamente accorsero: ordinò loro di preparare un lauto pranzo per gli ospiti e si premurò di accompagnare personalmente Pietro nel suo alloggio. Fu sùbito fornito loro un cambio d’abiti e fu predisposto per ciascuno, cavalieri Normanni compresi, un bagno caldo e un letto per riposare.
Più tardi, all’ora sesta, per il pranzo, all’interno del salone erano presenti tutti i cavalieri Ospitalieri di Barletta, in numero di sedici. Anch’essi, come Pietro, indossavano una casacca nera con una croce bianca ad otto punte sul petto.
I nostri appresero che quell’anziano cavaliere dalla barba bianca che li aveva accolti al loro arrivo, era Paolo De Sanctis, il potente Priore dell’Ordine. Egli ora sedeva a capotavola e invitò tutti gli ospiti a sedere. Chiamò Pietro e lo fece accomodare alla sua destra; alla sua sinistra sedeva quale altro ospite d’onore l’ammiraglio “Margarito di Brindisi” (1), astuto e valoroso comandante di una temibile flotta che si diceva essere costituita da ben 60 galee normanne.
Il priore si alzò in piedi e a voce alta pronunciò le seguenti parole:

– ”Illustre Ammiraglio Margarito, Nobili Cavalieri di Giustizia, diletti Cappellani Conventuali e prodi Serventi d’Arme, Ospitalieri tutti ascoltate”: questo nostro confratello Pietro da Mola sta svolgendo una delicata quanto importante missione per sua santità Papa Gregorio VIII, guida illuminata di tutta la Cristianità. Desidero che a questo prode cavaliere, nella sua seppur breve permanenza tra di noi, sia offerto da voi tutti il supporto, l’assistenza e tutti i conforti di cui dovesse aver necessità, poiché egli è foriero di una grande speranza… quella speranza legata alla possibilità che il sogno serbato nel cuore di ciascuno di noi riguardante la Città Santa, si possa un giorno avverare. Altro non posso dirvi, miei diletti fratelli! Preghiamo ordunque tutti insieme, affinché il Legato Missi Pietro da Mola possa portare felicemente a termine la sua missione, recitando l’invocazione che Nostro Signore Gesù Cristo ci ha insegnato: Pater noster qui es in coelis….”.

Quando ebbero recitato quella preghiera e fattisi il segno della Croce tutti i cavalieri si sedettero a mensa per consumare un buon pasto costituito da diverse pietanze a base di pesce fresco. Del pane fragrante appena sfornato e un eccellente vino bianco di malvasia di Alessano furono serviti per tutta la durata del banchetto che si concluse, come era in uso, con la degustazione di mandorle e noci.
Allora Pietro si alzò per ringraziare sentitamente tutti i suoi commensali i quali, nel levare i calici per brindare risposero coralmente ad alta voce:
– “Deus le volt! ” ossia Dio lo vuole!
Pietro spiegò ad Adalberto che quello era il motto dei Cavalieri che avevano partecipato alla prima crociata per la conquista della Terra Santa.
Si alzò in piedi il barbuto Ammiraglio Margarito e levando nuovamente il calice volle dedicare un brindisi al Re pronunciando con voce stentorea le seguenti altisonanti parole:
-“Brindiamo tutti alla salute del nostro amato sovrano che proprio quest’anno ha superato due decenni di illuminato regno. Lunga vita a re Guglielmo II il Buono!”
– “Lunga vita al Re!” risposero coralmente tutti gli invitati.
In tal modo terminò il banchetto.

FINE DEL VI CAPITOLO.

(1) Margarito da Brindisi
di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

Margarito, soprannominato Margaritone, nacque a Brindisi intorno al 1149. Amò da ragazzo così tanto il mare che, divenuto coraggioso viaggiatore marino, volle dedicare la sua vita a pulire il Mediterraneo dalle frequenti piraterie che si verificavano continuamente a danno dei Crociati che si recavano in Terra Santa. Guglielmo il  Buono lo fece suo ammiraglio, gli affidò 40 galee e lo mandò in Siria per difendere i Cristiani perseguitati dal feroce Saladino. Egli li difese eroicamente riuscendo a condurne moltissimi in Sicilia.
Dopo la morte di Guglielmo il Buono, il Regno di Sicilia passò a Tancredi, figlio naturale di Ruggero, duca di Puglia.Fu proprio Margaritone che gli agevolò l’ascesa al trono, contrastatogli dalla zia Costanza. Si racconta, infatti, che trovandosi l’imperatrice Costanza  in una piccola barca, fu fatta prigioniera da Margaritone e condotta a Palermo.
Enrico VI, marito di Costanza, saputa la notizia, chiese aiuto alle Repubbliche di Genova e di Pisa che, mandate le loro flotte nel Golfo di Castellammare di Stabia, presero la fuga non appena Margaritone si presentò alla loro vista. Tancredi, per i tanti servigi da lui ricevuti, lo colmò di onori, nominandolo non solo primo ministro della Monarchia e poi Conte di Malta, ma anche lo scelse “paraninfo” (nell’antica Grecia era colui che conduceva la sposa in casa del marito) nelle nozze celebrate dal figlio Ruggero con Irene, figlia dell’imperatore Isacco. La morte di Tancredi però fu fatale per Margaritone. EnricoVI, che non aveva dimenticato l’offesa arrecata alla moglie, sceso in Italia, mise in prigione la vedova di Tancredi e fu così malvagio verso Margarito che lo privò degli occhi. Margaritone non dimenticò mai la sua città e come ricordo del suo enorme affetto, destinò gli averi di sua proprietà alla Madre chiesa in suffragio dei suoi defunti e di se stesso e, poi, fece costruire un monastero che doveva curare l’istruzione dei suoi concittadini brindisini.

7 commenti

  • Roberto Cannia

    Grazie Marino! Aspettavo trepidante di leggere il continuo del tuo bellissimo romanzo…! Grazie Ezio per avermi fatto conoscere la storia dell’Ammiraglio Margarito da Brindisi!

  • Marino Miccoli

    Caro Roberto, sono io ad essere gratificato dalla tua attenzione.Proprio come fai tu, con i tuoi stupendi componimenti poetici, anch’io nel mio piccolo, cerco di contribuire in forma romanzata alla vita del blog più marinaro che ci sia!!!
    A presto e grazie per il tuo apprezzamento.
    Marino.

  • Marino Miccoli

    Rispondo con piacere a Magi Pela che ha avuto la costanza di leggermi fin qui.
    Il romanzo è composto di 12 capitoli, e nel prossimo vi è un colpo di scena…
    buona lettura!

  • Rossana Tirincanti

    ….anche se i miei commenti risultano saltuari , per una sola questione di tempo ….continuo a seguire le avventure di un romanzo che diventa sempre più ricco di avventure che seguo con vero piacere !
    Ti ringrazio Ezio ..riguardo le notizie dell’ammiraglio Margarito ….del quale sono anche andata ad approfondire l’argomento….
    Alcuni storici ritengono che sia morto in Germania nel 1197……dopo come tu dici aver subito l’accecamento! Fu così che ormai cieco si mise al servizio del re di Francia Filippo !!!!!!

  • Marino Miccoli

    Ringrazio Pippo per il suo positivo commento.
    Grazie anche a Rossana la quale dimostra di essere una persona che ama approfondire la conoscenza dei personaggi citati nel mio romanzo. Anche ciò mi fa piacere. A tal proposito desidero sottolineare come gran parte dei suddetti personaggi siano corrispondenti a quelli veri. Essi sono, cioè, proprio coloro che hanno vissuto e caratterizzato quell’epoca, che io considero affascinate e per molti versi misteriosa, quale è stato l’alto Medio-evo.

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