Racconti,  Storia

La barca, antico simbolo iniziatico

di Gabriella Fogli

La barca nel pensiero egiziano è il veicolo degli dei o degli esseri in corso di divinizzazione. È l’attrezzo per avanzare e non ci sono mai rituali senza barca, è al centro del rito e si nomina “navetta”, che nella dinamica fluida del fiume tesse ad ogni passaggio il nostro destino in un mondo inafferrabile come l’acqua. Gli Egiziani, andando in pellegrinaggio a Abydos, non usavano il termine di pellegrinaggio, ma “navigavano” verso Abydos, la cui radice vuol dire “pesce” in altre parole si comportavano come il pesce che risale alla sua fonte.

La barca è l’immagine della potenza acquisita che permette di agire. È la dinamica della vita, del desiderio della volontà di essere, di trasformarsi e controllare il proprio destino. Pagaiando, gli Egiziani mettevano in guardia dicendo: “se tu non fai nulla, nessuno farà nulla per te”.
Il marinaio nella sua barca è deciso a raggiungere la propria mèta nella consapevolezza che tocca a lui remare perché a nessun altro è concesso prendere il suo posto, ma se non ha coscienza di dove e come condurre la propria barca non approderà a nessun porto, cioè se non sei consapevole di dove e come dirigere la tua coscienza e di prenderne consapevolezza, nulla può accadere, anzi, rischi di perderti nell’infinità del mare o di approdare ad un porto sbagliato lungo il fiume.
In alchimia la navigazione lungo il fiume, il Nilo,è una navigazione sulla via umida e diventa pericolosa in quanto il Nilo era un fiume pericoloso, in piena, con banchi di sabbia su cui potevi arenarti chiamati “I dorsi di Set“, occorreva riuscire ad intuire e prevederne le anse, rappresentazione allegorica delle trappole che la vita ci riserva, fissare dei punti di riferimento per non perdersi perché non c’era una seconda possibilità, la pericolosità del fiume non te la concedeva.
In Alchimia i due attrezzi da lavoro sono il “Vaso” e l'”Athanor“. La barca rappresentava il “Vaso” dell’Opera ed a volte era soprannominato “Vascello”. Vengono indicate “due Vie” per giungere alla meta, la “Via Secca” e la “Via Umida“. La “barca” naviga nell’acqua, ma l’acqua in questo caso è nera perché il Duat è un mondo oscuro, e più avanzi, più affondi perché la luce, qui, la trovi solo dopo aver attraversato il “nero più nero”, devi, volente o nolente, passare attraverso quello stato denominato “Nigredo“, intriso di pericoli, di fetore, avanzi lentamente per non arenarti sui “dorsi di Seth”.
Non esistevano rituali che non comprendessero la barca, sia sotto forma di gioiello che di vero e proprio mezzo di navigazione. Nell’epoca Tolemaica, a maggio, Iside veniva portata in processione sulla sua “navetta” e navigava nel porto ed era questo un momento iniziatico-spirituale che rappresentava il viaggio da compiere per partire e recarsi “altrove”…
Gli egiziani adoperavano numerose formule per rappresentare il “morire”, una delle più utilizzate era “Meni“che significa “abbordare”, fermarsi ed acquisire stabilità. Il grande corpus funerario dell’Egitto era il libro dei Morti, “Il libro d’uscita verso la Luce”, infatti il defunto iniziava un altro viaggio verso “L’oltre”, ma questo viaggio, come in vita,era irto di pericoli, motivo per cui aveva la necessità di possedere delle vere e proprie carte di navigazione.
“La parte più conosciuta è, nell’ambito della terza sezione, il momento in cui il defunto, accompagnato dalla sua guida Anubi, entrava nella “sala delle due Maat” del tribunale di Osiride, per affrontare, alla presenza di 42 giudici, la “psicostasia”, la pesatura del cuore. Il cuore, infatti, per gli antichi Egizi era il luogo in cui si concentravano tutte le facoltà intellettive e di coscienza. Ciascuno dei 42 giudici aveva il compito di punire una data colpa (o peccato). Anubi, che fino a quel momento aveva fatto da guida e consigliere al defunto, poneva su un piatto della bilancia il cuore del defunto, mentre sull’altro veniva posta un’immagine di Maat, dea della rettitudine, o la piuma di struzzo che ne era il simbolo. Il dio Thot, con la testa di Ibis (Anubi aveva la testa di cane), sorvegliava la pesatura e registrava, al pari di un cancelliere, il risultato del giudizio. Nel frattempo il defunto recitava una lunga confessione negativa, assicurando i presenti di non aver commesso, in vita, alcun peccato (di solito li enumerava tutti con la formula “non ho peccato di…”). Se il cuore era puro non pesava, e la bilancia rimaneva in equilibrio. Il defunto veniva, a questo punto, proclamato da Osiride “retto” o “giusto di voce” e poteva accedere ai “Campi dei Giunchi”. Se, malauguratamente, il cuore era più pesante perché carico di peccati, la bilancia mostrava un peso maggiore dalla parte del cuore. Il defunto, allora, veniva divorato da un mostro ibrido, annullato per sempre egli cade nel “Luogo dell’annientamento”. Un vero percorso iniziatico che consegna i suoi segreti soltanto attraverso il simbolismo e l’alchimia, che sono alla base di qualsiasi comprensione dei testi sacri di questo pensiero infinitamente sottile.
Il viaggiatore “bambino di ieri sulla strada di domani,” è consegnato a Sé stesso. Nessuno remerà per lui; dovrà iniziarsi nell’al di là e per ciò aprire il suo cuore, eliminare ogni traccia d’impurità, ed incontrare l’essenza che corrisponde al mondo attraversato. Secondo questo viaggio simbolico, le etichette si animano di una vita spirituale verso un pensiero che non è fondato su credenze ma su Conoscenza, il cui solo interesse è il risveglio.
Ogni capitolo è un insegnamento per “i vivi”, ogni passaggio tesse il destino del rematore attraverso le acque nere della DOUAT, in una navigazione sapiente ed avventurosa.
Vivere non è indispensabile, ma navigare si, è indispensabile”.

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