Racconti

Le confessioni aiutano a guarire le ferite dell’anima?

di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra”

Me ne stavo sdraiato su quella lettiga in un angolo al freddo, lungo la corsia dell’ospedale, nell’attesa che qualcuno del personale sanitario si accorgesse di me. Erano trascorsi ormai parecchi minuti ed ero intirizzito dal freddo. La testa mi faceva male, molto più male della ferita che mi ero procurato tagliandomi accidentalmente due dita della mano destra mentre ero di corvèe. Odiavo sbucciare quelle maledette patate e loro si erano prese beffa di me portandomi lontano dalla mia nave, la Vespucci, che tra quattro giorni salpava per circumnavigare il mondo con a bordo i giovani cadetti del 1° anno dell’accademia navale.

Pensavo tra me e me che non avrei fatto in tempo a ritornare a bordo: addio mare, addio crociera, addio posti esotici, addio belle ragazze. Che peccato!

D’un tratto si avvicina un giovane dall’aspetto gioviale avrà avuto si e no una trentina d’anni. In modo cordiale e con un sorriso rassicurante mi dice che è il dottore. Mentre analizza la ferita cerca di tranquillizzarmi con discorsi di circostanza, quelli per intenderci che servono ad accorciare le distanze tra medico e paziente.

Il dottore ha un eloquio così brillante e scorrevole che non mi accorgo nemmeno che in un battibaleno mi ha già medicato, ricucito la ferita e che adesso la mano non sanguina più. Mi piace ascoltarlo mentre mi fascia la mano con quella  lunghissima garza.

Alla fine dell’intervento, mi punta fisso negli occhi e mi dice: “tutto a posto marinaio, pronto per la partenza!”. Rimango esterrefatto e, mentre i miei occhi si incrociano con le sue pupille, gli rispondo seccamente di rimando: “mi scusi dottore ma lei come fa a sapere che sono marinaio e che sono pronto per la partenza se non ho nemmeno fiatato e perlopiù in quest’ospedale non conosco nessuno?”. Lui di rimando mi risponde: “gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli dei marinai lontano dal mare sono tutti uguali: lucidi e tristi”. E ancora: “deve sapere marinaio che nell’estate del 1989 mi trovavo a Livorno per seguire i corsi velici estivi all’accademia navale organizzati per i neo diplomati. Lì conobbi un giovane guardiamarina istruttore dalla pelle chiara, dai capelli biondi, esile nell’aspetto ma molto signorile nel tratto che cercava in tutti i modi possibili ed immaginabili di insegnarci ad andare per mare e, soprattutto, ad amare il mare.

Il guardiamarina era piuttosto pignolo nella disciplina e ci sfiniva in lunghe marce intorno al brigantino allocato nella piazza centrale dell’accademia. Noi giovani corsisti quando lui si girava di spalle lo prendevamo in giro. Quel giorno di torrido sole, l’avevamo fatta grossa si accorse che lo deridevamo ma sentì soprattutto quella sonora pernacchia che riecheggiò nel piazzale. Lui si avvicinò al plotone, diede l’alt march e, ponendosi dirimpetto a noi, sentenziò con un tono di voce fermo e deciso: “voglio vedere se il vigliacco che è in mezzo a voi fa un passo avanti per farsi riconoscere”.

Io lo feci quel passo in avanti per sfidare la sua autorità, per fargli sapere che in fondo aveva qualche anno in più e non poteva mica trattarci come dei bambini.

Lui non si adirò, rimase  impassibile. Sciolse il plotone e mandò i miei compagni corsisti a fare la ricreazione. Appena fummo soli, a tu per tu, mi disse con un tono di voce fermo e deciso: “Lei non sarà mai un marinaio né, tanto meno, potrà comandare un equipaggio se dà esempi come questo davanti a tutti. Mi hanno riferito anche che l’altra sera, in refettorio, è stato ripreso dal sottufficiale di controllo mentre faceva la cosiddetta “scarpetta” al suo piatto che abbondava d’olio. Lei a quel sottufficiale anziché chiedergli scusa gli ha risposto sarcasticamente: “così come le barche galleggiano sul mare, il mio panino può benissimo galleggiare sul piatto” scatenando l’ilarità dei presenti. Con questi gesti lei  manca di rispetto a chi le sta vicino e, soprattutto, perde quella dignità di persona civile che ci contraddistingue come esseri umani rispetto al mondo animale. Senza il rispetto delle regole, senza il rispetto della dignità umana, le ribadisco che non sarà mai un marinaio né tanto meno potrà comandare un equipaggio se lei, per primo, non è capace di dare il buon esempio ai discenti”.

Poi il dottore proseguendo mi confessa: “Le ho mentito dicendo che leggevo negli occhi del marinaio. In verità ho visto la richiesta di ricovero firmata dal suo comando. Adesso che torna a bordo riferisca al suo comandante che grazie a quelle parole, che mi hanno aperto il cuore e toccato l’anima, adesso sono un ufficiale medico pronto a servire con amor patrio e dignità sia il mio Paese che i pazienti che hanno bisogno di cure.

Rimasi paralizzato, quasi impietrito dall’outing del dottore.

Gli risposi imbarazzato e laconicamente: “ambasciatore non porta pene, riferirò quanto da Lei richiesto …Dottore Comandante”.

P.S.: ci tengo a sottolineare che sono stato testimone di un fatto realmente accaduto. Per ovvie ragioni di privacy e rispetto nei confronti dei due protagonisti, ho volontariamente omesso l’identità dei personaggi (Pancrazio “Ezio” Vinciguerra).

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