Racconti

In riva al mare

di Gianfranco Jannuzzo

In riva al mare i bambini ci vanno a giocare, le famiglie a prendere il sole, le coppiette a tenersi teneramente per mano ed io, io quando posso, ci vado a pensare, non alla mia vita, sarebbe troppo presuntuoso, preferisco pensare alla vita di tutti, preferisco pensare agli intrecci che ci legano, alle assurdità che ci separano, al presente che a volte ci circonda e ci assedia, al passato che è talmente passato da essere quasi fuori dal tempo. Interrogo questo mare, faccio domande e, se nessuno mi ci vede, faccio pure finta che le onde mi rispondano. Su questo mare è passato tutto, in partenza e in arrivo: i romani in Libano, i turchi in Jugoslavia o in quelle che ne resta, gli arabi in Sicilia, prima, molto prima che a San Leone spuntassero case come funghi…

Torno a dialogare con il mare, con questo Mediterraneo, e in nome della mia curiosità chiedo “che cos’è il Mediterraneo?” Mille cose insieme, mille paesaggi, mille giorni di navigazione su questa vastità che si estende fino all’orizzonte, fino alla linea di confine, fino al “Tagr”…. i musulmani chiamavano così la Sicilia allo scoccare dell’anno mille, Tagr… linea di confine, dunque porta, passaggio ed infine meta…

E noi? Noi siamo i figli dei figli dei figli di Empedocle, di Annibale, di Postumio e Memmio, di Ibn Zafer, dei Banu Kalb… e poi ancora di Ruggero e di Federico. Noi sospesi, galleggianti in questa immensità omnipresente, che ci portiamo dentro quasi ossessiva anche lontano da qui, magnifica, quando alba e tramonto si scambiano tra loro i riflessi, enigmatica, perché ogni cosa che ci guardava viene da lei e si nutre delle sue profondità, profondità enormi, abissali nel tempo e nello spazio, che lasciano inebetiti, ma generano incanto, meraviglia, stupore. Questa è la terra dello “stupor mundi”:

Cosa c’è di supremo dietro questi mille cieli che non smettono mai di cambiare colore? Quale magia combina insieme acque salate e fiamme di crateri? Ma al tempo stesso quale condanna costringe i rantoli dei “tori di Falaride” ad essere ancora qui, presenti nelle lamiere contorte sull’asfalto di Capaci e Via D’Amelio?

E’ lo stupore che si macchia di orrore, di memoria tradita, di riscatti violati, di guerre bianche che non fanno rumore, di santi impassibili, si assoluzioni, di condanne di fuga…

E sono ancora qui, davanti a questo mare, dove immergersi è come riavvolgere una catena di attimi fino al liquido del grembo materno e più su fino agli uomini che in tempi lontani lo solcarono o ne coltivarono le terre, i campi. Qui, proprio qui, tra Maddalusa e Cannatello riesco a vedere, in tutta la loro potenza, fortune e maledizioni di questa mia terra…

Tratto dall’opera teatrale “Girgenti amore mio” di
Gianfranco Jannuzzo e  Angelo Callipo per la regia
di Pino Quartullo.

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