Velieri

  • Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Per Grazia Ricevuta,  Pittori di mare,  Recensioni,  Storia,  Velieri

    28.2.1850, il brigantino Prudente

    a cura Sergio Pagni

    PER GRAZIA RICEVUTA

    Ex voto custodito nel Civico museo marinaro Gio Bono Ferrari di Camogli (*).
    Sul quadro si legge:
    Brigantino Il Prudente comandato dal capitano Francesco Chiega. Trovandosi il giorno 28 febbraio 1850 nelle vicinanze di Capo d’Orso, con un temporale di vento alla bora, alla distanza di un quarto di miglio, fu dalla Beata Vergine miracolosamente salvato”.

    (*) se ne consiglia la visita.

  • Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Per Grazia Ricevuta,  Pittori di mare,  Recensioni,  Storia,  Velieri

    24.2.1848, il brigantino Gran Duca Leopoldo viene sorpreso da fortunale

    a cura Sergio Pagni

    PER GRAZIA RICEVUTA

    Su questo Ex voto, custodito nel santuario di Nostra Signora del Monte Allegro nei pressi di Rapallo, la scritta sul retro del quadro recita:
    Brigantino Gran Duca Leopoldo, capitano Filippo Campodonico, nella longitudine 59,29 e latitudine 37,8 uragano fortunale sofferto il 24 febbraio 1848″.

  • C'era una volta un arsenale che costruiva navi,  Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Racconti,  Recensioni,  Storia,  Velieri

    22.2.1931 – 22.2.2024, buon compleanno nave Amerigo Vespucci

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra, Antonio Cimmino, Marisa Toraldo, Roberta Ammiraglia88, Giuseppe Alfano, Claudio Vergano

    Buongiorno ai naviganti,
    la Patria non ha padri, ma solo figli: noi che vi siamo nati e che l’amiamo!
    Tutto il resto è noia… 

    Buon compleanno nave Amerigo Vespucci.

    Elena Cerio
    di Antonio Cimmino

    e Augusta Perone Pacifico.

    Il 22 febbraio 1931 la signorina Elena Cerio, figlia diciannovenne del colonnello del Genio navale Oscar Cerio, direttore del cantiere navale di Castellammare di Stabia, ebbe l’onore di essere la madrina del varo della regia nave scuola Amerigo Vespucci.
    A distanza di anni, e più precisamente il 22 ottobre 2016 nel corso del raduno degli ex caserma San Rosa La Storta, la signora Augusta Perone Pacifico, figlia di Elena Cerio, con il marito ammiraglio Andrea De Micheli, ci ha fatto dono di una gioia immensa partecipando al sopra menzionato raduno per testimoniare l’affetto che accomuna la gente di mare ai Marinai per sempre.

    Nota di Piero Carpani sui commenti
    Ci sono alcune inesattezze: Oscar Cerio era il Comandante Marittimo del porto di Napoli in divisa con i gradi da Capitano di vascello accanto alla figlia (gradi con il giro di bitta) mentre dall’altro lato c’è il Tenente Colonnello Francesco Rotundi progettista della nave, in divisa con i gradi senza giro di bitta. Il direttore del Cantiere di Castellammare era il Colonnello del Genio Navale Odoardo Giannelli e suoi collaboratori i Ten. Col. del Genio Navale D’Esposito e Di Nola.

    Nota Ing. Luca  Dal Canto sui commenti
    Buonasera,
    Le scrivo in riferimento alla foto presente a questo link del suo sito.

    La persona a destra di Elena Cerio è Oscar Cerio, mentre a sinistra della signorina è scritto che sia il tenente colonnello Francesco Rotundi.
    Nelle cronache del varo tuttavia non è scritto mai che sia presente Francesco Rotundi.
    Io credo che la persona a sinistra di Elena Cerio sia il direttore del cantiere navale Odoardo Giannelli che ovviamente era presente alla cerimonia.
    Per me sarebbe molto interessante sapere chi sia davvero questa persona. Siete proprio sicuri che si tratti di Francesco Rotundi?
    Vi ringrazio infinitamente della disponibilità e vi faccio molti complimenti per il blog.
    Cordiali saluti.
    9.12.2022

    Buonasera,
    mi permetto ancora di disturbarla, ma la questione mi interessa perchè sono un concittadino di Odoardo Giannelli.
    Ho trovato in internet una foto di Francesco Rutundi che le allego. Anche vedendo questa foto non mi torna molto l’identificazione della foto nell’articolo con lui.
    Grazie per il suo interessamento.
    Cordiali saluti
    Luca Dal Canto
    10.12.2022

    Buonasera dott. Luca Dal Canto,
    grazie della segnalazione. Crediamo che Lei abbia ragione in merito
    Abbiamo fatto ulteriori ricerche e ci creda, non è facile risalire alle fonti.
    Per opportuna doverosa informazione a Lei e ai lettori del blog pubblichiamo, di seguito, ulteriori foto.
    Pancrazio “Ezio” Vinciguerra
    15.12.2022
    Il giovane Ufficiale non si vede nella foto

    C’era una volta un arsenale che costruiva nave, e adesso?
    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra e A.N.M.I. STABIA

    …c’era una volta un’arsenale che costruiva navi, oggi nel tuo giorno più importante c’è chi, nell’ufficialità, si è dimenticato di te Signora dei mari e degli oceani.
    Noi no! E lo sai il perché?
    Perché siamo marinai di una volta, quelli che ci siamo arruolati non per carriera ma per vocazione.
    …Non chi comincia ma quel che persevera. Intelligenti pauca!

    amerigo vespucci - www.lavocedelmarinaio.com22.2.1931 Castellammare di Stabia a Nave Vespucci - www.lavocedelmarinaio.com

    Varo nave Vespucci: esaltiamo un simbolo o facciamo finta di niente
    di Marisa Toraldo
    https://www.facebook.com/marisa.toraldo

    Che cosa è diventato più importante in questo Paese? Esaltare un simbolo (e sappiamo benissimo cosa siamo diventati agli occhi del mondo) o non parlare e far finta di niente, di una tragedia avvenuta proprio su questo veliero?
    E che cosa diciamo a coloro che l’hanno resa così bella, che continuano a mantenerla in ottima forma e che per superficialità e negligenza hanno causato la morte di un membro del suo equipaggio?

     

    Le attenzioni che l’hanno portata a questa veneranda età, avrebbero dovuto indirizzarle, soprattutto sulla sicurezza del proprio personale, per dare loro la possibilità di godere della propria vita. La vita umana, è diventata così banale che nessuno le da’ più il giusto valore.

    Alessandro Nasta 13/04/1983 – 24/05/2012, precipitato dai pennoni di nave Vespucci e deceduto per le fratture riportate. Anche questa, è una data da ricordare.

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    Buon compleanno Signora dei Mari
    di Roberta – Ammiraglia 88
    www.ammiraglia88.it
    www.mondovespucci.com

    Il varo
    La nave scuola Amerigo Vespucci fu varata il 22 febbraio 1931.
    Il varo di una nave, nel 1931 in particolare, è sempre un avvenimento molto importante, che rispetta rigorosamente tutta una sua ritualità. Oltre ad essere un fatto economicamente rilevante, e che rende orgogliosi gli uomini del cantiere (qui si mostra la loro bravura), era anche motivo di festeggiamento di tutta la popolazione locale, un evento a cui tutta la città partecipa e che è strettamente collegato alla religiosità, alle superstizioni, alle tradizioni. Ad esempio è molto importante che ci sia una Madrina della cerimonia, che la bottiglia di spumante si rompa contro lo scafo, che venga celebrata una Santa Messa propiziatoria, che lo scafo venga benedetto, ecc..
    La data del varo del Vespucci è significativa. Il 22 febbraio 1522 morì il navigatore Amerigo Vespucci, dal quale prende il nome.
    Le pagine di cronaca di quel giorno (del 1931) raccontano che alla importante e festosa cerimonia erano presenti diverse autorità e, naturalmente, tutta la cittadinanza di Castellammare di Stabia.
    Alle 8.00 del mattino si trovavano già in cantiere il comandante marittimo Oscar Cerio ed il direttore ing. Odoardo Giannelli e nella cappella del cantiere si celebrò una Santa Messa.
    Un’ora e mezza più tardi attraccò la nave Brenta, dalla quale sbarcarono più di cento giovani marinai che provenivano, appositamente per l’evento, da Napoli. Sulla stessa nave erano stati imbarcati, sempre a Napoli, anche il Comandante Roberto Filangieri di Candida, Presidente della Sezione napoletana della Lega Navale, unitamente ad un folto gruppo di soci della stessa.
    Subito dopo arrivò anche S. E. Ragosta, il vescovo della città, era suo compito impartire la benedizione. Tutta la popolazione aveva preso posizione per assistere all’avvenimento. La folla era impaziente, ed ammirava la sagoma svelta e potente della nave Vespucci, maestosa sullo scalo e palpitante di bandiere.
    Il vescovo, dopo aver benedetto la nave dal palco appositamente posizionato, fece il giro intero della nave e per finire rivolse la benedizione anche a tutta la folla presente alla cerimonia.
    La Madrina del varo fu la signorina Elena Cerio, figlia del Comandante Cerio, che infranse la bottiglia di spumante seguita dai forti applausi di tutti gli spettatori.
    Prima che fosse ultimata la rimozione degli scontri, il col. Giannelli fece un commosso discorso, a cui seguì l’atteso grido: “In nome di Dio, taglia!”.
    La scure si abbatté sulle trinche e la nave, per qualche istante, fu circondata da un assoluto silenzio. Mentre sventolavano festose le bandiere, si innalzarono il suono delle bande e delle sirene delle navi in porto, che la accompagnarono nei suoi “primi passi”, nella sua discesa verso il mare e … la vita.
    Tra le autorità c’erano anche l’Alto Commissario di Napoli sen. Castelli, il comandante del Basso Tirreno S.E. Nicastro, il delegato provinciale dell’O.N.B. conte Filangieri, il segretario federale avv. Schiassi, il Preside della Provincia S.E. Foschini in rappresentanza di S.E. Albricci, e molte altre personalità di prestigio locali.
    La nave scuola Amerigo Vespucci venne impostata il 12 maggio 1930 e venne ultimata in soli dieci mesi. La direzione fu quella del colonnello Odoardo Giannelli, che si avvalse della collaborazione dei due tenenti colonnelli del Genio Navale ing. D’Esposito ed ing. Di Nola.

    Il cantiere dove è nata: Castellammare di Stabia
    Il comune di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, è stato costruito sopra la storica Stabia, la città che rimase sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
    Il Regio Cantiere dove fu costruita la Regia Nave Scuola Amerigo Vespucci è situato a Castellammare di Stabia (Na) ed è un cantiere navale storico.
    In quella zona precedentemente sembra ci sia stato un convento, trasformato poi in bagno penale ed infine, in quello stesso luogo, fu costruito un moderno scalo per costruzioni navali.
    Nel 1783 venne varata la nave da guerra napoletana “Minerva”; la nave sulla quale, nel 1799, venne impiccato, ad uno dei suoi alberi, l’ammiraglio Caracciolo.
    Negli anni successivi al 1780 vennero intrapresi, per volere di Ferdinando I, i lavori di costruzione del cantiere navale, gli stessi furono poi seguiti da Giovanni Edoardo Acton, ministro di Ferdinando IV di Borbone, con l’aiuto dell’ing. Bianchini.
    Il cantiere venne fondato il 20 giugno 1783 e diventò il maggiore stabilimento navale d’Italia e del Mediterraneo. Si trovava nelle vicinanze dei boschi che gli garantivano la continua fornitura di legname pregiato, ed inoltre aveva un buon rifornimento di acqua minerale, grazie alle sue 28 sorgenti, senza con questo dimenticare la competenza e l’esperienza del personale che ci lavorava! Pensate che, addirittura, sarebbe stato possibile, all’occorrenza, costruire tre vascelli in contemporanea.
    Il 13 maggio 1786 venne varata la prima nave, una corvetta che prese il nome di “Stabia” in onore dell’antica città. Nello stesso anno furono varate altre due navi: la corvetta “Flora” e il vascello “Partenope”.
    Dieci anni dopo fu costruito lo Stabilimento Produzione Cordami nei pressi del cantiere, tutt’oggi esistente, e fu creata la Scuola di Applicazione del Genio Navale. Da questa scuola uscirono i maggiori artefici dell’architettura navale della marina borbonica.
    Navi varate fino al 1795:
    – 1787 corvetta Galatea;
    – 1788 fregata Sibilla, corvette Aurora e Fortuna, vascello Ruggero;
    – 1789 fregate Sirena e Aretusa, vascelli Tancredi e Guiscardo, corvetta Fama
    – 1792 vascello Sannita;
    – 1795 vascello Archimede.
    L’attività cantieristica fu sospesa poi fino al 1810.
    In quegli anni, a seguito dell’occupazione francese di Napoli, e dell’esilio dei Borboni in Sicilia e della Repubblica Partenopea, lo scalo non fu più frequentato da navi. Ma nel 1810, con il regno di Murat, vennero riprese, anche se limitatamente, le costruzioni.
    Le nuove unità furono i due vascelli Capri e Gioacchino.
    Dal 1824 al 1860 ricominciarono e vennero intensificate le costruzioni, che proseguirono quasi senza lunghe interruzioni e che si integravano con quelle previste nella darsena di Napoli.
    Vennero così varati i brigantini Aquila (1824), Zeffiro (1832), la fregata Urania (1833) e la goletta a vapore Flavio Gioia (1841).
    Nel 1824 vennero riprese le lavorazioni, e il varo del Vesuvio costituì un esempio di celerità in quanto lo stesso avvenne nel giro di pochi minuti, per merito dell’ing. Mugnai.
    Un altro varo particolare fu quello della fregata Isabella (1827) effettuato con la presenza del re Francesco I e di tutta la Corte.
    Si ebbero poi anche:

    – 1828 brigantino Principe Carlo e della nave Francesco I (destinata ad eventuali imbarchi della famiglia reale);
    – 1830 scorridora Etna;
    – 1834 fregata Partenope;
    – 1835 goletta Venefrido (la prima nave a vapore uscita da questo cantiere);
    – 1837 brigantini Intrepido e Valoroso.
    Napoli era un porto importante: il primo battello a vapore, il Ferdinando I, fu costruito qui (1839) ed anche il primo tronco ferroviario d’Italia raggiungeva questa città (Napoli – Portici). Ma non era l’unico, infatti tale scalo ferroviario fu ben presto prolungato fino a Castellammare, proprio per l’importanza che questo cantiere rivestiva, che nel frattempo era anche stato ampliato e migliorato.
    Tra il 1840 e 1846 vennero varate ben 11 navi a vapore: la goletta Sfinge, il brigantino Generoso, le fregate Ercole, Archimede, Carlo III, Sannita, il bastimento Delfino, la goletta Argonauta e le draghe e cavafondi Finanza, Erebo, Tantalo. Le ultime tre furono anche le prime costruite di quel genere.
    Tra il 1850 e 1860 furono costruite:
    – 1850 il vascello Monarca, la fregata a vapore Ettore e il brigantino Maria Teresa
    – 1855 le draghe Finanza (una seconda nave) e Vulcano;
    – 1856 fregata a vapore Torquato Tasso e brigantino Aquila;
    – 1859 brigantino a vapore Sirena;
    – 1860 corvetta a vapore Borbone e fregata a vapore Farnese.
    Nel 1860, dopo l’entrata a Napoli di Garibaldi, venne emesso un decreto provvisorio inerente il passaggio degli stabilimenti militari e marittimi e dei Bastimenti del Regno delle Due Sicilie all’ammiraglio Persano, capo della squadra sarda. Il decreto definitivo ha la data del 17 novembre 1860.
    Vennero quindi cambiati i nomi ad alcune navi borboniche: il Monarca diventò Re Galantuomo, la Borbone divenne la Garibaldi. La nave che a quella data si trovava ancora in cantiere, la Farnese, venne completata e varata, con il nome Italia, nel 1861.
    Il cantiere di Castellammare di Stabia si avvaleva della collaborazione di quello di Napoli; il primo provvedeva alla costruzione, mentre il secondo si occupava dell’attrezzamento e delle riparazioni delle navi.
    Questo cantiere aveva annessa una grande corderia unica nel suo genere. Ha continuato intensamente ed eccellentemente la sua attività, tanto che dal 1861 al marzo del 1931 ha messo a mare una sessantina di navi di ogni tipo e grandezza. Tra queste ci sono 17 scafi di corazzate (Messina, Principe, Amedeo, Duilio, Italia, Lauria, Re Umberto, Marco Polo, Pisani, Filiberto, Brin, Napoli, Vittorio Emanuele, San Marco, San Giorgio, Dante, Duilio (seconda) e Caracciolo), il Miseno (1886) e il Palinuro (1887), oltre ad incrociatori, cannoniere, navi scuola, navi reali, torpediniere, esploratori, piroscafi e trasporti.
    La sua centesima costruzione è stata la nave scuola Cristoforo Colombo (1928), il veliero simile all’Amerigo Vespucci.
    E’ considerato un cantiere navale storico, perché qui si sono sviluppate, durante la sua lunga esistenza, le principali iniziative e fasi tecniche del moderno sviluppo della marineria militare italiana. Nel 1876 ad esempio scende in mare la corazzata Duilio (dodicimila tonnellate), su progetto di Benedetto Brin, una novità per questo cantiere, il maggiore degli scafi interamente metallico costruito fino a quel momento, era quasi tre volte più grande delle normali stazze. Quattro anni dopo vengono varati i primi due esemplari di grandiose corazzate, quattordicimila tonnellate di stazza, del tipo Italia. Altre costruzioni importanti furono:
    – 1850 Monarca (prima unità borbonica con propulsione ad elica);
    – 1871 Audace (prima nave costruita interamente in ferro);
    – 1876 corazzata Duilio (la nave più grande dell’epoca);
    – 1880 – 1884 corazzate Italia e Lauria (prime del gruppo);
    – 1885 incrociatore protetto Etna (primo del gruppo);
    – 1886/1887 Tripoli, Goito, Folgore e Saetta (primi incrociatori e avvisi torpedinieri, da cui derivarono le cacciatorpediniere);
    – 1888 corazzata Re Umberto (prima del gruppo);
    – 1892 Marco Polo (primo incrociatore corazzato);
    – 1895 incrociatore corazzato Vettor Pisani;
    – 1899 Agorda e Coatit (primi esploratori della Marina Militare);
    – 1908/1909 incrociatori San Giorgio e San Marco;
    – 1910 Dante (prima corazzata da quasi ventimila tonnellate).
    A causa della Prima Guerra Mondiale la produzione del cantiere si fermò, ma riprese nel 1928 con il varo della nave scuola Cristoforo Colombo, a cui seguì, nel 1931, l’Amerigo Vespucci.
    Ai tempi del varo della nave Vespucci lavoravano in questo cantiere 1.200 persone ed un altro migliaio avrebbero poi partecipato poi all’allestimento del veliero.
    Nel 1939 il Regio Cantiere fu assorbito dalla Navalmeccanica S.p.a..
    Durante la Seconda Guerra Mondiale furono varati l’incrociatore Giulio Germanico (nel 1941) e numerose corvette antisommergibile.
    A seguito della distruzione da parte dei tedeschi, avvenuta l’8 settembre 1943, venne ricostruito. Riprese la produzione con la Salernum, una nave posacavi, e con il batiscafo Trieste (1953) dello scienziato Auguste Piccard. Seguirono il varo degli incrociatori Caio Duilio e Vittorio Veneto (rispettivamente nel 1962 e 1967) per la Marina Militare e numerose altre unità mercantili e passeggeri.

    Vi do appuntamento alla prossima puntata per le notizie relative all’Arsenale dove ora vive: l’Arsenale Militare Marittimo di La Spezia. Si tratta di uno storico arsenale, nel quale vengono ancora eseguite antiche lavorazioni, lavori molto particolari svolti da personale specializzato che si trovano ormai solamente qui.

    Ho appena letto nel sito della nostra Marina Militare che c’è un importante appuntamento televisivo: martedì 22 febbraio 2011 alle 08.00.

    “Il veliero Amerigo Vespucci, la nave scuola della Marina Militare dove si sono formate tante generazioni di Ufficiali, compie 90 anni. Sull’emittente Rai Uno un servizio giornalistico ci parlerà di quest’evento.”

    Ecco dove vive: Arsenale Militare Marittimo di La Spezia
    Nella città di La Spezia ha sede il Comando in Capo del Dipartimento Militare Marittimo dell’Alto Tirreno. E’ una Base Navale Principale che comprende il Comando Servizi Base, la Stazione elicotteri di Luni, il raggruppamento subacquei ed incursori, gli Enti del Supporto logistico navale, il Centro addestramento e Reclutamento, il Comando Zona Fari e l’Arsenale Militare Marittimo.
    Nei pressi dell’Arsenale è situato anche il Museo Tecnico Navale.
    La nave scuola Amerigo Vespucci ha la sede presso questo Arsenale. Quando non è impegnata nella Campagna Addestrativa, o in altre crociere o in avvenimenti e cerimonie di rappresentanza, vive qui. E’ qui che vengono anche svolti tutti i necessari, e spesso particolari, lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria a questo veliero (oltre che a molte altre navi), basti vedere per esempio gli ultimi interventi eseguiti, quando (a febbraio 2006) si è dovuto sostituire l’albero di trinchetto con non poche difficoltà.
    L’Arsenale di La Spezia dà lavoro sia a personale militare che civile, per un totale di circa 2.100 persone di cui 200 militari e 1.900 tra impiegati ed operai. Lo stabilimento è diretto da un Ammiraglio Ispettore del Genio o delle Armi Navali della Marina Militare.
    Si sviluppa su 85 ettari di superficie totale; ci sono 18 ettari di superficie coperta, 6 bacini di carenaggio e muratura, 2 bacini di carenaggio galleggianti, 2.600 metri di banchine e … 13.000 metri di rete stradale!
    Nel marzo del 2000, durante una straordinaria apertura al pubblico, ho potuto visitarlo ed è stato molto interessante. Consiglio sempre a tutti di andarci, perché si può scoprire un mondo affascinante che non ho mai pensato potesse esistere; è un mondo terreno a cui le navi sono tutte legate, indispensabile per farle vivere nel loro ambiente naturale: il mare.
    L’Arsenale di La Spezia di solito, per tradizione, è aperto ai civili solo in due occasioni: San Giuseppe (patrono di La Spezia) e Santa Barbara (patrona dei marinai).
    Io ci sono stata nel 2000 perché, dopo anni che desideravo vedere da vicino la nave che mi affascina tanto, era l’unica occasione che finalmente mi si presentava, per ammirarla dal vivo. Tra l’altro sono stata fortunata perché era anche visitabile! Così ho incontrato il Vespucci per la prima volta e me ne sono innamorata. Purtroppo era in manutenzione e così ho potuto calpestare solo un terzo del ponte esterno, il resto era chiuso per i lavori in corso, inoltre non si presentava in perfette condizioni, mancavano ancora diverse parti degli alberi ed erano ancora montati i ponteggi per la loro manutenzione. Si è presentata comunque come una signora che, pur avendo una certa età (69 anni), che assolutamente non dimostrava, si stava facendo bella per ripartire per il giro del Mondo.
    L’Arsenale di La Spezia nacque con l’obiettivo di costruire Navi Militari.
    Attualmente però l’attività principale è quella della manutenzione e dell’ammodernamento delle Unità Navali.
    E’ curioso vedere come accanto a questo ammodernamento vivano però anche tutte le vecchie professionalità artigianali. C’è ancora un forte legame con il passato, basti pensare anche solo al Vespucci, con i suoi 80 anni! E’ da notare che si tratta di lavorazioni artigianali, e maestranze, che sono presenti ormai solo in questo Arsenale. Queste lavorazioni riguardano vari settori, tra cui veleria, falegnameria, cordami.
    Ma il passato e la tradizione si vedono ovunque: la monumentale Porta Principale, i bacini di carenaggio di conformazione ottocentesca, le antiche officine ancora efficienti. Sono presenti infatti 6 bacini in muratura (quelli con il vecchio sistema a “gradoni”, non i drydock moderni) e due darsene, oltre alle officine dei calderai, dei tubisti, alla veleria e alla fonderia, nella quale si colano i metalli e vengono preparate le leghe per le chiodature usate nella congiunzioni delle lamiere delle navi. E’ stato Bonaparte all’inizio del 1800, quando La Spezia era solo un piccolo borgo di circa 3.000 persone sotto l’impero napoleonico, ad avere l’intuizione dell’importanza che avrebbe potuto avere il Golfo di La Spezia. Della sua idea di costruire un grande Arsenale si arrivò però solo al progetto, e non alla costruzione, a causa delle sconfitte subite nel frattempo a Lipsia e Waterloo.
    L’idea di Napoleone fu messa in pratica però da Camillo Benso Conte di Cavour.
    Nel 1857 riuscì a far trasferire la Marina Militare da Genova a La Spezia ed a ottenere il finanziamento per la costruzione dell’Arsenale. I lavori iniziarono nel 1861, su progetto del Maggiore del Genio Militare Domenico Chiodo, modificando quello di Napoleone.
    L’inaugurazione avvenne, con una cerimonia, il 28 agosto 1869 alla presenza delle autorità civili e militari e di centinaia di persone. Si attese il colpo di cannone di mezzogiorno e poi il Generale Domenico Chiodo dette il segnale per la demolizione dell’argine artificiale, che era stato posizionato all’imboccatura della Darsena. Circa 600.000 metri cubi di acqua defluirono tra gli applausi della folla.
    I lavori proseguirono anche negli anni seguenti, fino al 1900 circa, apportando vari ampliamenti.
    Grazie all’Arsenale si crearono nuovi posti di lavoro e La Spezia si sviluppò sia economicamente, sia demograficamente raggiungendo i 31.500 abitanti nel 1881, 60.000 nel 1901 e 123.000 nel 1940.
    Il compito principale dell’Arsenale fu quello di costruire unità navali per la Marina Militare.
    Tra il 1871 e il 1923 furono varate 8 corazzate, 6 incrociatori, 2 torpediniere, 2 cannoniere, 9 sommergibili e numerose altre navi minori in appoggio a queste.
    L’Arsenale era in grado di costruire gli scafi, ed anche i macchinari, le armi e le apparecchiature necessarie sia alla propulsione che ai sistemi di combattimento.
    Nel luglio del 1931 nel piazzale dell’Arsenale fu sistemato un apparecchio ricevente; erano infatti i primi tempi degli esperimenti sull’utilizzo delle onde corte nelle comunicazioni radio. Un radiofaro venne invece posizionato sulle colline di Sestri Levante. Tutto questo sarebbe servito per radioguidare le navi nell’entrata in porto con condizioni meteo non favorevoli.
    Nel frattempo la nave Elettra, utilizzata da Guglielmo Marconi, era già stata attrezzata presso questo Arsenale sia con l’installazione di radio trasmittenti e riceventi, sia con gli alberi … utilizzati però per le antenne, anziché per le vele!
    Successivamente, grazie ai brevetti concessi da Marconi, proprio presso l’Arsenale di La Spezia nacquero le prime officine di costruzione radio e le scuole per l’addestramento del personale.
    Durante la Seconda Guerra Mondiale l’intera struttura subì numerosi e violenti bombardamenti con gravissimi danni. Conseguentemente, negli anni che vanno dal 1945 al 1950, si dovette procedere alla ricostruzione degli edifici e delle attrezzature.
    Attualmente in questo complesso non vengono più costruite le navi, ma si svolge principalmente l’attività di manutenzione, ed a volte quella di trasformazione, il tutto finalizzato al mantenimento in efficienza delle Unità Navali dell’Alto Tirreno. E’ per questo motivo che l’Arsenale ha ultimamente subito dei cambiamenti per essere adattato ai nuovi scopi. Tra queste modifiche ad esempio c’è la trasformazione della zona scali, dove avvenivano i vari delle navi, in una moderna banchina per la Base Navale.


    All’interno dell’Arsenale

    La porta monumentale è stata costruita nel 1883.
    A fianco dell’entrata dell’Arsenale si trova il Museo Tecnico Navale che occupa l’antica Caserma dei Pompieri.
    Le ancore sono quelle della Corazzata austriaca “Viribus Unitis”, affondata a Trieste nel 1918. Le palle per cannoni che si trovano sui pilastri sono quelle usate nel 1850 dai cannoni navali ad avancarica.
    Il piazzale all’interno della Porta Principale è Piazzale Bergamini, intitolato appunto alla medaglia d’oro Ammiraglio di Squadra G.C. Bergamini.
    Il ponte sul canale Lagora era girevole ed è stato fatto nel 1885. Fu distrutto nella Seconda Guerra Mondiale ed in seguito fu ricostruito fisso.
    La Porta Ferrovia Nord permetteva l’accesso del treno. Il ponte ferroviario girevole si apriva al passaggio delle imbarcazioni che erano dirette dalle navi alla fonda in porto alla Porta Principale dell’Arsenale. La linea ferroviaria fu in uso dal 1870 al 1950.
    La prima darsena ha queste dimensioni: metri 200 x metri 420. Gli scavi a secco furono effettuati tra il 1863 e 1865.
    La seconda darsena è: metri 200 x metri 600. Inizialmente era metri 200 x metri 390 ma venne modificata tra il 1888 e 1890.
    Il ponte girevole in ferro venne fatto nel 1914 e andò a sostituire quello distrutto nel 1869 a causa dell’allargamento del canale.
    Si possono vedere 6 bacini di carenaggio con diverse dimensioni a seconda delle necessità (vedi il dettaglio a fianco).
    In Arsenale si trovano, come detto sopra, molti laboratori; tra questi ad esempio ci sono l’officina congegnatori, per riparazioni meccaniche, l’officina motori, l’officina calderai, per tutti gli impianti a vapore, l’officina costruzioni navali, l’officina elettronica, quella elettroacustica, quella delle telecomunicazioni, l’officina siluri, l’officina armi ed armamenti, quella marinaresca, varie sale prove e collaudi e molti altri laboratori.

    I sei bacini nel dettagli
    N. 1
    lung. m. 100, larg. m. 23, capacità mc 21.000. Gli scavi vennero effettuati dal 1863 al 1865; è operativo dal 1870 ed ospita unità tipo Sommergibili e Dragamine.
    N. 2
    lung. m. 132, larg. m. 24, capacità mc 29.000. Gli scavi risalgono al periodo dal 1864 al 1866; è operativo dal 1870 e può ospitare Naviglio Ausiliario.
    N . 3
    lung. m. 132, larg. m. 24, capacità mc 29.000. Gli scavi vennero effettuati dal 1864 al 1866; è operativo dal 1870 ed ospita unità tipo Fregate.
    N. 4
    lung. m. 110, larg. m. 23, capacità mc 21.000. Gli scavi vennero effettuati dal 1863 al 1865; è operativo dal 1870 ed ospita unità tipo Sommergibili e Naviglio Ausiliario.
    N. 5
    lung. m. 220, larg. m. 33, capacità mc 78.000. Gli scavi vennero effettuati dal 1884 al 1891; è operativo dal 1891 ed ospita unità tipo Incrociatori e Cacciatorpedinieri.
    Fino al 1914, con una barcaporta intermedia sarebbe stato possibile dividerlo in due.
    N. 6
    lung. m. 220, larg. m. 28, capacità mc 53.000. Gli scavi vennero effettuati dal 1886 al 1899; ospita unità tipo Incrociatori.

    Un GRAZIE lo rivolgo a tutti coloro che si occupano delle manutenzioni e della cura della “signora dei mari”, il Vespucci, e delle altre navi (anche loro interessanti anche se in modo diverso); un grazie va a tutti coloro che, sia a terra, sia a bordo, prima, durante e dopo la Campagna Addestrativa, si dedicano alla regina dei mari, sempre splendente ed affascinante come al momento del varo, e così facendo le permettono di salpare, ad ogni primavera, per solcare i mari di tutto il mondo.

    Cuoco su nave Vespucci
    di Giuseppe Alfano

    Mi chiamo Giuseppe Alfano e sono nato a Gragnano (NA) il 29 novembre 1968, facendo parte del Compartimento Marittimo di Castellammare di Stabia, nel 1988 con il 2° contingente, fui inviato a Maricentro Taranto ove, essendo diplomato all’Istituto Alberghiero e con precedente esperienza come cuoco nei ristoranti, mi fecero frequentare il corso di cucina conseguendo l’attestato MCM (maestro di cucina e mensa). Dopo il corso fui trasferito a Livorno all’Accademia navale e destinato alla mensa allievi ufficiali. Il 17 luglio ebbe la fortuna di imbarcare sulla nave scuola Amerigo Vespucci, comandata dal C.V. Gianluca Assettati. Quell’anno, per la prima volta, non furono impiegati cuochi civili, mai noi che avevamo frequentato il corso. La cucina a bordo del veliero si trova sotto il castello di prora e serviva indistintamente tutto l’equipaggio con menù diversi ma con le stesse materie prime. Noi cuochi dell’Accademia cucinavamo sulla destra del locale, presso la scala di prua, prima del locale argano. Mi ricordo di una ripida scaletta che scendeva in cambusa e nelle celle frigorifere; qui, otto l’occhio vigile del nostro Capo, si suddividevano e stivavano le diverse tipologie di alimenti comprati al mercato.

    I miei commilitoni di cucina erano: Roberto Galuffo di Genova, Giovanni Tufano di Ischi, Salvatore Ficarra di Messina, Benito Ingraudo di Agrigento e Gennaro Sfaceli di Portici; ci alternavamo a turno in cucina e al servizio impiattamento. Eravamo i cuochi degli allievi, gli stessi che avevano cucinato per loro in Accademia. I piatti giornalieri era più di 200.A bordo ci dissero che dovevamo intraprendere una campagna addestrativa nel Nord Europa, toccando i porti di Malaga, Brest, Bremerhaven, Leningrado, Helsinki, Gutenberg, Edimburgo, Cadice per poi ritornare a Livorno. Prima di iniziare la crociera facemmo scalo a La Spezia per imbarcare i viveri che sistemammo in cambusa e nelle celle frigorifere, le bottiglie di vino le collocammo in un locale sottostante denominato locale vineria. Il primo giorno della crociera cucinammo un piatto unico composto da una bistecca alla fiorentina con contorno di patatine e spinaci, il tutto innaffiato da un Chianti. I menù erano preparati dal nostro superiore Capo 1° Cl z/ch Dedoni, un sottufficiale di provata esperienza.

    Al largo di Malaga gettammo in mare una cassetta di legno che aveva contenuto verdure, il Comandante ci fece una lavata di testa.
    Durante la navigazione, si faceva cucina tipica italiana, semplice, non tanto elaborata. Tra i primi piatti: gnocchi alla sorrentina, spaghetti alla carbonara, pennette alla siciliana, rigatoni alla bolognese, pasta al forno e zuppe di legumi. I secondi piatti erano: cotolette alla milanese, spezzatino di carne con piselli, ombrina al forno con patate, pollo al forno, fettine di carne alla pizzaiola. Di solito quando attraccavamo, nei porti, preparavamo menu speciali, per gli eventi e le feste a bordo e partecipavano anche le autorità civili e militari del luogo.

    Tra i piatti tipici regionali che preparavamo vi erano:spaghetti con la colatura di aliciTrofie con pesto, soffritto di stoccafisso con odori, patate e pomodori e ancora, stocco all’anconitana con soffritto di sedano, cipolla, carota, aglio ed un rametto di rosmarino aggiungendo pomodoro, olive e patate ma anche orecchiette pugliesi con cime di rapa, aglio, olio e acciughe e spolverate conricotta dura di pecora.

    Sempre durante la navigazione, nel pomeriggio, si preparavano i panini con affettati e formaggio per i nocchieri e gli allievi dopo cena si preparavano focacce, pizze e termos di caffè, per la notte alle guardie di plancia.La pizza di mezzanotte mi dissero che era una vecchia tradizione in Marina e si preparava su ogni unità. Il buon odore delle pizze focacce, attirava spesso anche altro personale. Quando durante la navigazione c’era mare forte, si preparavano solo panini, anche se erano in pochi a mangiare perché i più raccavano. Di solito il comandante in seconda, invece del panino gradiva spaghetti aglio e olio, al dente, e prosciutto cotto alla piastra, con senape; ero sempre io a prepararglielo e a fine crociera mi regalo un quadretto che custodisco gelosamente. Quando eravamo nei porti, si scendeva per comprare cibo fresco, frutta e verdura, mi ricordo che a Leningrado non ne trovammo una grande varietà per le condizioni climatiche.

    Il lavoro era interessante seppur faticoso per i turni e il poco spazio a disposizione così come la disciplina; il Capo pretendeva, giustamente, ordine e massimo rispetto dell’igiene.
    Una volta noi cuochi dimenticammo di scongelare del pesce per il giorno seguente, il Capo venne a svegliarci di notte e c’è lo fece prendere dalle celle.
    Quando attraccavamo nei porti, a bordo si organizzavano feste da ballo e noi cuochi preparavamo apertivi e stuzzichini di ogni specialità. Ogni marinaio aveva tre biglietti di invito da dare alle ragazze “agganciate” e la sera le si aspettava sul pontile nei pressi dell’ormeggio per accompagnarle a bordo. Per la bellezza della nave e il fascino della divisa, spesso le ragazze si autoinvitavano.

    Della campagna mi ricordo due episodi. Era il 21 di settembre, il mare mosso come non mai, la tempesta superava forza otto; a bordo tanta tensione e paura. Suonò l’allarme rosso, si chiusero tutti gli oblò, portelloni e boccaporti; rollio e beccheggio costrinsero molti di noi a legarci sulle brande. Per tre volte si cercò di mantenere la rotta, alla terza, uno schioppo, molti cavi si spezzavano o sganciavano e schizzavano sul ponte come fruste. Il comandante decise di invertire la rotta e di puntare su Edimburgo. Il fortunale causò anche la rottura del bompresso che, però fu riparato giorni dopo dal falegname di bordo. Naturalmente niente cucina per tutti.
    In genere durante il mare mosso, presi l’abitudine di reggermi vicino al tavolo di lavoro, alzando le punte dei piedi sotto lo stesso; diventava pericoloso quando nei tegami avevamo delle fritture, l’olio bollente schizzando, poteva causarci belle scottature. Una volta, nonostante la barra di sicurezza, una pentola con il sugo sbalzò dal piano di cottura e il ponte divenne rosso di salsa di pomodoro.

    L’altro episodio riguarda quattro allievi ufficiali iracheni, questi quando approdammo a Bremerhaven, scesero in franchigia e non fecero più ritorno a bordo. Tutti pensarono che la loro diserzione fosse connessa alla guerra che da alcuni anni contrapponeva l’Iraq all’Iran. Tra gli allievi ufficiali c’erano diversi stranieri, alcuni provenienti anche dall’America Latina.


    Una cosa simpatica: gli allievi a fine corso ci chiesero di preparare una torta con sopra scritto “Indomiti”, il nome che si erano scelti per l’anno accademico e la campagna addestrativa. Noi cuochi preparammo la torta ma, scherzosamente, sopra scrivemmo ‘’I veri indomiti siamo noi”. Lo scherzo fu sportivamente accettato e brindammo tutti insieme.

    A fine campagna, preparammo una cena speciale composta da antipasti di mare, risotto alle mandorle, cernia al forno, filetto all’arancia, frutta di stagione e dolce; l’ammiraglio si congratulò con noi e volle stringerci la mano. Conservo una fotografia mentre l’ammiraglio si complimenta con me. Per tutto il periodo della leva sono stato in Accademia, salvo gli ultimi quattro mesi trascorsi al Q.G.M. di Roma. Congedato ripresi la mia professione di chef, forte anche dell’esperienza maturata in Marina. Ora sono anche iscritto al Gruppo A.N.M.I. di Castellammare di Stabia intitolato alla M.O.V.M. Luigi Longobardi di Lettere, cittadina nella quale lavoro in un famoso ristorante.

    La mia nave Vespucci
    di Claudio Vergano

    …chi, come me, è tossicodipendente della lettura ha provato, almeno una volta nella sua esistenza, a scrivere, a cercar di mettere su carta le emozioni, i momenti della sua vita. Anch’io sono caduto in questo peccato, peraltro veniale. Anch’io mi sono scritto addosso. Qualche anno fa, in occasione del mio secondo imbarco sulla Amerigo Vespucci ho voluto lasciare traccia delle mie emozioni, anzi delle nostre emozioni, perché sono convinto che quanto da me provato è comune a tanti, tantissimi colleghi “vespucciani”.

    Eccomi qui, ormai superati gli ‘anta, di fronte alla “Nave più bella del Mondo” cercando di esprimere, senza retorica, quello che provo. Quando si parla o si scrive del Vespucci è troppo facile scivolare in uno stile d’altri tempi, pericolosamente simile ad una poesia. Sembra che questa nave ti porti a riscoprire valori e concetti ormai “fuori moda”. Diventa difficile non usare parole e frasi che, in altri contesti, parrebbero artificiose o stereotipate. Cerco invano di essere il più sobrio possibile. Provo ad usare le parole più comuni, i toni più misurati ma è impossibile non scivolare nell’emozione. Eppure, dopo tanti anni di servizio, dopo aver visto nel mio ruolo di istruttore transitare generazioni di marinai, dopo aver sofferto e gioito per la Patria, sono ancora qua ad emozionarmi per una nave, per un’armonia di ferro e legno che galleggia sul mare.

    Di colpo mi trovo di vent’anni più giovane, con una sottile emozione che mi stringe la gola, come un calore che sale dal cuore verso gli occhi e li fa pizzicare. Per “ammazzare” il magone devo parlare a te, Nave Amerigo Vespucci, perché in te vive ancora l’emozione di tutti coloro che, come me, sui tuoi ponti hanno sudato e gioito, cantato e pianto, insomma in te hanno vissuto per lunghi mesi o addirittura anni, catturati dalla magia di quelle vele che, sì, sono dure da alzare, ma che gonfiate dal vento riempiono il cuore di orgoglio.

    Dopo anni di vita vissuta, ho lasciato un bel pezzetto del mio cuore. Eccomi qua mia “vecchia” Signora dei Mari, per la seconda volta salgo il tuo barcarizzo e mi appresto a salutare quella Bandiera che ho già visto sventolare in cento porti. Con te mi preparo ad affrontare nuovamente, con amore e rispetto, quel “Grigio Creatore di vedove” come impietosamente Kipling definì il mare.

    Protetto dai tuoi fianchi d’acciaio non mi devo certo preoccupare, già in tutti i mari hai dimostrato la tua forza. Ora sei tornata un po’ stanca ed appannata dopo una lunga fatica.

    Un giorno, per definirti ti ho paragonato ad una bellissima Signora, forse non più nel fiore degli anni, ma proprio per questo dotata di un fascino che nessuna teen-ager può sperare di eguagliare. Come questa bellissima Signora, ogni inverno, ti prendi cura di te stessa, affidandoti alle mani esperte di chi ti ama e rispetta e ti prepari a sfilare, come una regina, attraverso i mari del mondo, destando ammirazione e un po’ d’invidia. Sembra quasi che, nei tuoi viaggi, tu sia approdata alla mitica Bimini ed abbia trovato la magica fontana cercata invano da Ponce de Leòn.

    Eccomi qua, pronto a fare la mia piccola parte per prepararti a nuove avventure, ad altri cento, mille porti pieni di gente ammirata, ansiosa di poter toccare, anche solo per un momento, il ponte di legno che nasconde, inaspettatamente, la forza dell’acciaio. La forza di un acciaio reso ancor più tenace dalla dedizione e dall’affetto di mille e mille anime che, con te, hanno avuto il vero battesimo del mare. Non quello fatto di grigie paratie e tenui luci su uno schermo, ma quello che nasce dal sudore su una cima o dallo schiaffo dell’acqua salata mentre attraversi il ponte, la consapevolezza di essere parte della forza di una nave e non utilizzatore dei suoi strumenti tecnologici.

    Dicono che questa è la nave dei cadetti. Certamente la sua maggiore ragione d’essere è condurre verso il mare chi il mare ha scelto come lavoro e vita. Eppure è anche la nave di ogni uomo e donna del suo equipaggio passato, presente e futuro.

    È la nave di chi la elegge a simbolo di un modo diverso di vivere il mare, nel quale si sente il vento come propria forza e non come un avversario.

    È la nave di chi vede realizzato un sogno dopo aver visto mille immagini di vascelli e velieri solcare mari di carta e celluloide. Ma soprattutto è anche la mia nave. Una nave che non ha solo una storia, ma un’anima, ed un po’ di quell’anima è anche mia. Come lo è anche di tutti quelli che si fermano ad ammirarla e trattengono per un attimo il fiato, quasi avessero timore d’interrompere quel breve momento di magia. Spezziamo la magia e torniamo alla fredda realtà. Sicuramente molti, leggendo queste righe, penseranno che tutte queste parole sono solo retorica, una raccolta di luoghi comuni e frasi fatte. Niente di più sbagliato. Sfido chiunque sia stato imbarcato a negare di aver detto, almeno una volta, la frase “la Mia Nave” con le maiuscole che aleggiano nella voce. Del resto ciò che ci rende “veri” è il non essere solo dei “meccanismi” che producono efficienza, ma anche cuori e menti che, in fondo, amano il mare e che sono, comunque, orgogliosi di essere parte della nave su cui operano.

    Forse sono stato troppo tempo fermo davanti al barcarizzo, il Sottocapo di guardia si starà chiedendo cosa fa quel 1° Maresciallo, un po’ appesantito dagli anni, con gli occhi persi verso un orizzonte lontano. Bando alle ciance, è ora di salire a bordo e darsi da fare, me lo devo pur meritare questo imbarco sulla “Nave più bella del mondo”. Un’ultima considerazione.

    Essere “innamorati” di un simbolo, di un oggetto che esprime un qualche valore più alto e più universale è, purtroppo, considerato da molti futile e fine a se stesso. Orbene questo è un gravissimo errore. Ci rende più deboli come Nazione e come società. Rifiutare quei simboli che esprimono la nostra cultura e la nostra storia è come negare la memoria di coloro che, a vario titolo, hanno sacrificato la loro vita o quantomeno il loro “quieto vivere” per difendere ciò che è alla base di questi simboli. Che sia una Croce, una Bandiera o una Nave è importante sapersi emozionare davanti ad essi per sentire anche con il cuore che è nostro dovere difendere i valori che sono origine e crescita della nostra Nazione.

    P.s. se hai voglia e tempo di continuare la navigazione e conoscere l’amore per questa Signora dei Mari, digita sul motore di ricerca il suo nome e cognome.

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    L’affondamento del brigantino Aosta

    di Orazio Ferrara (*)

    Era stato requisito nel porto di Genova in data 8 giugno 1940, due giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, dalla Regia Marina ed iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario (matricola V87) dello Stato italiano come vedetta foranea. Si trattava del motoveliero da carico (brigantino goletta) Aosta, dalla linea elegante e fascinosa come solo la cantieristica italiana d’anteguerra era in grado di produrre.
    Questo motoveliero era stato costruito nei Cantieri Officine Savoia di Cornigliano Ligure (Genova) ed aveva 340 tonnellate di stazza netta, 494,45 di stazza lorda e 700 tonnellate di portata lorda, inoltre era lungo 55,80 metri, largo 8,80 e un’immersione di 3,70 metri.

    Fin dall’inizio del conflitto l’Aosta, armato di una sola mitragliera da 20/70 Oerlikon, fu adibito al trasporto veloce di carichi bellici strategici verso il nostro teatro di guerra dell’Africa Settentrionale. Per ben due volte riuscì a sfuggire ai siluri dei sommergibili britannici. La prima volta, il 22 dicembre 1940, quando fu oggetto di lancio di siluri da parte del sommergibile HMS Regent (N41) del comandante Hugh Christopher Browne. La seconda, in data 16 maggio 1941, quando evitò i siluri dell’HMS Unbeaten (N93) del tenente di vascello Edward Arthur Woodward.
    Dall’inverno 1941/1942 l’Aosta operò, sempre con carichi di materiale bellico, sulla rotta più defilata (si fa per dire) Pantelleria/Tripoli. In quel tempo ne era comandante il nocchiere di prima classe (militarizzato, matricola 2265) Sesto Franceschi fu Giuseppe e fu Maria Coccoluto, nato a Porto Santo Stefano (Grosseto) il 30 dicembre 1888, quindi di anni 53. Aveva ai suoi ordini un equipaggio di 34 uomini.
    Il Franceschi era un tipo risoluto e determinato, tanto da aver ricevuto in precedenza la croce di guerra con la seguente lusinghiera motivazione:
    Imbarcato su motoveliero requisito, durante un violento attacco di bombardieri nemici, apriva prontamente con spirito aggressivo e noncuranza del pericolo il fuoco c. a. con le armi di bordo, riuscendo a colpire ed abbattere un aereo attaccante” (Determinazione del 1° novembre 1942-XX1). Nell’occasione erano stati insigniti della croce di guerra anche il Sotto Capo Cannoniere Carlo Torriello da Bossoli (Genova) e il Sotto Capo Cannoniere Giovanni De Maria da Acireale (Catania).
    Il 21 dicembre 1941, alle ore 21:30,  il brigantino Aosta, carico di munizioni, salpò da Pantelleria con destinazione Tripoli, dove giunse alle 10:00 circa del mattino del 25 dicembre 1941, dopo aver effettuato un sosta a Zuara. Terminata questa missione l’Aosta rientrò a Pantelleria per ulteriori carichi da trasportare in Tripolitania.
    Alle ore 19:00 circa della sera del 7 febbraio 1942 l’Aosta, sempre al comando di Franceschi, lasciò il porto di Pantelleria alla volta della Libia. Trasportava un prezioso e grosso carico di munizioni per Rommel. Il comandante Franceschi faceva affidamento nel buio dell’incombente notte per sfuggire all’occhiuta sorveglianza inglese nel Canale di Sicilia. Nel frattempo erano salpati dal porto di Malta i cacciatorpediniere HMS Zulu (F18, capo sezione) e HMS Lively (G40, sezionario) in caccia (sempre bene informati i britannici!) della motonave Monviso, che rientrava da Tripoli verso l’Italia.

    Ma quella notte il Canale di Sicilia era decisamente movimentato, infatti in quelle stesse ore aveva lasciato gli ormeggi del porto di Lampedusa, con rotta su Pantelleria, il motopeschereccio militarizzato Grongo (F37), che era solito trasportare uomini e materiali tra le guarnigioni delle due isole. Intanto la caccia dello Zulu e del Lively si stava rivelando infruttuosa. Della motonave Monviso nessuna traccia.
    Alle ore 22:16 del 7 febbraio, a 45 miglia nautiche a sud di Pantelleria, da bordo dei cacciatorpediniere inglesi fu individuata la sagoma di un piccolo naviglio. Si trattava dell’indifeso Grongo, che in men che non si dica fu attaccato e affondato. Dieci marinai dell’equipaggio restarono uccisi sotto le cannonate nemiche, mentre gli altri sette trovarono scampo in mare, aggrappandosi a relitti galleggianti. Più tardi questi superstiti furono tutti tratti in salvo dal MAS 577.
    Già perché in quella notte era in mare anche l’intera XVII Squadriglia MAS (560, 563 e 577) di stanza a Pantelleria. Solo che per la buona sorte dei caccia inglesi gli stessi non furono mai intercettati dalle motosiluranti italiane, mentre per la malasorte degli italiani il nemico, indisturbato, intercettò e affondò prima il Grongo e poi, come vedremo, l’Aosta.
    Proseguendo  nel loro rastrellamento in quel tratto di mare lo Zulu e il Lively, alle ore 01:30 dell’8 febbraio, intercettarono anche il brigantino Aosta, che procedeva verso sud a tutta velocità. Lo scontro era, come per il Grongo, impari e già scontato. Solo che questa volta, come era suo costume, il comandante Sesto Franceschi decise di vendere cara la pelle e diede ordine di controbattere alla continua gragnuola dei proiettili avversari con la mitragliera da 20/70 Oerlikon.

    To the enemy fire the Aosta reacted valorously with its only 20 mm. cannon and succeeded also to put some hits, but it was set afire and therefore exploded because it was loaded with ammunitions” (Al fuoco nemico l’Aosta reagì valorosamente con il suo solo cannone da 20 mm e riuscì anche a mettere dei colpi a segno, ma fu dato alle fiamme e quindi esplose perché carico di munizioni), così una fonte inglese.

    Le fiamme già avvolgevano tutto lo scafo ligneo dell’Aosta, con l’imminente rischio da un momento all’altro dell’esplosine del carico di munizioni, quando il comandante Franceschi ordinò all’equipaggio l’abbandono nave. Lui restò a bordo, volendo seguire l’antica, bella e tragica tradizione marinara per cui il comandante di una nave, che affonda, deve seguire quest’ultima anche negli abissi marini. E così accadde.

    Alla memoria dell’eroico nocchiere di prima classe Sesto Franceschi da Porto Santo Stefano, di anni 53, comandante del brigantino Aosta, fu conferita la medaglia d’argento al valor militare sul campo con la seguente bella motivazione:
    Comandante di motoveliero requisito, destinato al rifornimento munizioni del fronte libico, attaccato nottetempo da siluranti nemiche, reagiva decisamente con elevato spirito combattivo, incurante delle fiamme che alte si levavano dal locale macchine colpito minacciando di estendersi rapidamente.
    Resosi vano ogni tentativo di salvare la nave, si dedicava con vivo senso di abnegazione al salvataggio del personale, dirigendo le operazioni dal ponte di comando, fermo e sereno di fronte al pericolo sempre più incombente.
    Rimaneva al suo posto con incrollabile saldezza d’animo e incondizionato attaccamento al dovere anche quando, respinta l’offesa nemica ma irrimediabilmente compromessa l’unità, avrebbe potuto mettersi in salvo, preferendo scomparire con la sua nave, che di lì a poco esplodeva col carico, nella suprema dedizione alla consegna. Mediterraneo Centrale, notte sull’8 febbraio 1942”. (Determinazione del 9 agosto 1942).
    Oltre al Franceschi, nell’attacco e affondamento dell’Aosta persero la vita altri 8 uomini dell’equipaggio.  Se ne salvarono 25, di cui molti feriti, raccolti successivamente in mare dai MAS di Pantelleria 560, 563 e 577, giunti anche questa volta in ritardo sul luogo dello scontro. Tutti gli 8 caduti riceverono la croce di guerra al valore, tra essi i valorosi serventi della mitragliera da 20 mm.
    Così recita, tra l’altro, la motivazione della concessione della croce di guerra alla memoria ai cannonieri Salvatore Caroli da Carovigno (Brindisi), Raffaele Vitale da Napoli, Luigi Bolpagni da Ghedi (Brescia), Gerlando Ferlini da Agrigento e Guido Colzi da Signa (Firenze) “Imbarcato su motoveliero, attaccato nottetempo e incendiato da siluranti nemiche, assolveva il proprio compito con serenità e noncuranza del pericolo, contribuendo a ribattere l’offesa nemica” (Determinazione del 9 agosto 1942-XX).
    Gli affondamenti dei quasi indifesi Grongo e Aosta non dovevano portare bene ai cacciatorpediniere britannici Zulu e Lively, che non dovevano vedere la fine dell’anno 1942 e sprofondarono anch’essi negli abissi del Mediterraneo per mano delle forze dell’Asse. Per primo toccò all’HMS Lively che fu affondato l’11 maggio 1942 a 100 miglia nord-est di Tobruk, perdendo ben 77 membri del suo equipaggio. Poi toccò all’HMS Zulu affondato il 14 settembre 1942 durante l’Operazione Agreement nei pressi di Tobruk, con 39 perdite tra il suo equipaggio.

    (*) per conoscere gli altri suoi articoli digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome.

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    11.2.1871, il bastimento Sinay del capitano Giovanni Daddero

    a cura Sergio Pagni e Luigi Griva

    PER GRAZIA RICEVUTA

    Ex voto conservato nel santuario-basilica Nostra Signora del Monte di Genova.
    Ecco ciò che si legge sul retro del quadro:
    Il bastimento Sinay, capitano Giovanni Daddero, l’11 febbraio 1871 alle ore 4 pomeridiane, sorpreso da un improvviso e impetuoso uragano, trovandosi nella latitudine 48,00 e longitudine 10,55 (Inghilterra). Il vento ci portò via il parocchetto basso, la trinchettina, il giz di trinchetto e quello di maestro e randa di poppa. Il bastimento, sommerso dalle onde, dopo aver fatto tutto quanto insegna l’arte, il detto cominciò per la sua rotta dopo un intervallo di tempo di due ore che era sommerso.
    Per grazia ottenuta dalla Nostra Signora del Monte l’intero equipaggio dona il presente”.

    Dal mio Archivio 
    di Luigi Griva
    Il capitano Michele Dodero comanda nel 1856, al tempo della Guerra di Crimea, un veliero tipo “nave” noleggiato a Camogli per trasporto di rifornimenti per il contingente italiano.
    E’ iscritto alla Mutua Marinara di Camogli col n°18 .
    Anton Giulio Barrili ha scritto un romanzo intitolato “Capitan Dodero”: dovrei andare a rileggerlo per vedere se ci sono riferimenti. Sicuramente era una famiglia di capitani e di armatori.

  • Marinai,  Naviglio,  Recensioni,  Storia,  Velieri

    L’affondamento del brigantino Aosta

    di Orazio Ferrara (*)

    Era stato requisito nel porto di Genova in data 8 giugno 1940, due giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, dalla Regia Marina ed iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario (matricola V87) dello Stato italiano come vedetta foranea. Si trattava del motoveliero da carico (brigantino goletta) Aosta, dalla linea elegante e fascinosa come solo la cantieristica italiana d’anteguerra era in grado di produrre.
    Questo motoveliero era stato costruito nei Cantieri Officine Savoia di Cornigliano Ligure (Genova) ed aveva 340 tonnellate di stazza netta, 494,45 di stazza lorda e 700 tonnellate di portata lorda, inoltre era lungo 55,80 metri, largo 8,80 e un’immersione di 3,70 metri.

    Fin dall’inizio del conflitto l’Aosta, armato di una sola mitragliera da 20/70 Oerlikon, fu adibito al trasporto veloce di carichi bellici strategici verso il nostro teatro di guerra dell’Africa Settentrionale. Per ben due volte riuscì a sfuggire ai siluri dei sommergibili britannici. La prima volta, il 22 dicembre 1940, quando fu oggetto di lancio di siluri da parte del sommergibile HMS Regent (N41) del comandante Hugh Christopher Browne. La seconda, in data 16 maggio 1941, quando evitò i siluri dell’HMS Unbeaten (N93) del tenente di vascello Edward Arthur Woodward.
    Dall’inverno 1941/1942 l’Aosta operò, sempre con carichi di materiale bellico, sulla rotta più defilata (si fa per dire) Pantelleria/Tripoli. In quel tempo ne era comandante il nocchiere di prima classe (militarizzato, matricola 2265) Sesto Franceschi fu Giuseppe e fu Maria Coccoluto, nato a Porto Santo Stefano (Grosseto) il 30 dicembre 1888, quindi di anni 53. Aveva ai suoi ordini un equipaggio di 34 uomini.
    Il Franceschi era un tipo risoluto e determinato, tanto da aver ricevuto in precedenza la croce di guerra con la seguente lusinghiera motivazione:
    Imbarcato su motoveliero requisito, durante un violento attacco di bombardieri nemici, apriva prontamente con spirito aggressivo e noncuranza del pericolo il fuoco c. a. con le armi di bordo, riuscendo a colpire ed abbattere un aereo attaccante” (Determinazione del 1° novembre 1942-XX1). Nell’occasione erano stati insigniti della croce di guerra anche il Sotto Capo Cannoniere Carlo Torriello da Bossoli (Genova) e il Sotto Capo Cannoniere Giovanni De Maria da Acireale (Catania).
    Il 21 dicembre 1941, alle ore 21:30,  il brigantino Aosta, carico di munizioni, salpò da Pantelleria con destinazione Tripoli, dove giunse alle 10:00 circa del mattino del 25 dicembre 1941, dopo aver effettuato un sosta a Zuara. Terminata questa missione l’Aosta rientrò a Pantelleria per ulteriori carichi da trasportare in Tripolitania.
    Alle ore 19:00 circa della sera del 7 febbraio 1942 l’Aosta, sempre al comando di Franceschi, lasciò il porto di Pantelleria alla volta della Libia. Trasportava un prezioso e grosso carico di munizioni per Rommel. Il comandante Franceschi faceva affidamento nel buio dell’incombente notte per sfuggire all’occhiuta sorveglianza inglese nel Canale di Sicilia. Nel frattempo erano salpati dal porto di Malta i cacciatorpediniere HMS Zulu (F18, capo sezione) e HMS Lively (G40, sezionario) in caccia (sempre bene informati i britannici!) della motonave Monviso, che rientrava da Tripoli verso l’Italia.

    Ma quella notte il Canale di Sicilia era decisamente movimentato, infatti in quelle stesse ore aveva lasciato gli ormeggi del porto di Lampedusa, con rotta su Pantelleria, il motopeschereccio militarizzato Grongo (F37), che era solito trasportare uomini e materiali tra le guarnigioni delle due isole. Intanto la caccia dello Zulu e del Lively si stava rivelando infruttuosa. Della motonave Monviso nessuna traccia.
    Alle ore 22:16 del 7 febbraio, a 45 miglia nautiche a sud di Pantelleria, da bordo dei cacciatorpediniere inglesi fu individuata la sagoma di un piccolo naviglio. Si trattava dell’indifeso Grongo, che in men che non si dica fu attaccato e affondato. Dieci marinai dell’equipaggio restarono uccisi sotto le cannonate nemiche, mentre gli altri sette trovarono scampo in mare, aggrappandosi a relitti galleggianti. Più tardi questi superstiti furono tutti tratti in salvo dal MAS 577.
    Già perché in quella notte era in mare anche l’intera XVII Squadriglia MAS (560, 563 e 577) di stanza a Pantelleria. Solo che per la buona sorte dei caccia inglesi gli stessi non furono mai intercettati dalle motosiluranti italiane, mentre per la malasorte degli italiani il nemico, indisturbato, intercettò e affondò prima il Grongo e poi, come vedremo, l’Aosta.
    Proseguendo  nel loro rastrellamento in quel tratto di mare lo Zulu e il Lively, alle ore 01:30 dell’8 febbraio, intercettarono anche il brigantino Aosta, che procedeva verso sud a tutta velocità. Lo scontro era, come per il Grongo, impari e già scontato. Solo che questa volta, come era suo costume, il comandante Sesto Franceschi decise di vendere cara la pelle e diede ordine di controbattere alla continua gragnuola dei proiettili avversari con la mitragliera da 20/70 Oerlikon.

    To the enemy fire the Aosta reacted valorously with its only 20 mm. cannon and succeeded also to put some hits, but it was set afire and therefore exploded because it was loaded with ammunitions” (Al fuoco nemico l’Aosta reagì valorosamente con il suo solo cannone da 20 mm e riuscì anche a mettere dei colpi a segno, ma fu dato alle fiamme e quindi esplose perché carico di munizioni), così una fonte inglese.

    Le fiamme già avvolgevano tutto lo scafo ligneo dell’Aosta, con l’imminente rischio da un momento all’altro dell’esplosine del carico di munizioni, quando il comandante Franceschi ordinò all’equipaggio l’abbandono nave. Lui restò a bordo, volendo seguire l’antica, bella e tragica tradizione marinara per cui il comandante di una nave, che affonda, deve seguire quest’ultima anche negli abissi marini. E così accadde.

    Alla memoria dell’eroico nocchiere di prima classe Sesto Franceschi da Porto Santo Stefano, di anni 53, comandante del brigantino Aosta, fu conferita la medaglia d’argento al valor militare sul campo con la seguente bella motivazione:
    Comandante di motoveliero requisito, destinato al rifornimento munizioni del fronte libico, attaccato nottetempo da siluranti nemiche, reagiva decisamente con elevato spirito combattivo, incurante delle fiamme che alte si levavano dal locale macchine colpito minacciando di estendersi rapidamente.
    Resosi vano ogni tentativo di salvare la nave, si dedicava con vivo senso di abnegazione al salvataggio del personale, dirigendo le operazioni dal ponte di comando, fermo e sereno di fronte al pericolo sempre più incombente.
    Rimaneva al suo posto con incrollabile saldezza d’animo e incondizionato attaccamento al dovere anche quando, respinta l’offesa nemica ma irrimediabilmente compromessa l’unità, avrebbe potuto mettersi in salvo, preferendo scomparire con la sua nave, che di lì a poco esplodeva col carico, nella suprema dedizione alla consegna. Mediterraneo Centrale, notte sull’8 febbraio 1942”. (Determinazione del 9 agosto 1942).
    Oltre al Franceschi, nell’attacco e affondamento dell’Aosta persero la vita altri 8 uomini dell’equipaggio.  Se ne salvarono 25, di cui molti feriti, raccolti successivamente in mare dai MAS di Pantelleria 560, 563 e 577, giunti anche questa volta in ritardo sul luogo dello scontro. Tutti gli 8 caduti riceverono la croce di guerra al valore, tra essi i valorosi serventi della mitragliera da 20 mm.
    Così recita, tra l’altro, la motivazione della concessione della croce di guerra alla memoria ai cannonieri Salvatore Caroli da Carovigno (Brindisi), Raffaele Vitale da Napoli, Luigi Bolpagni da Ghedi (Brescia), Gerlando Ferlini da Agrigento e Guido Colzi da Signa (Firenze) “Imbarcato su motoveliero, attaccato nottetempo e incendiato da siluranti nemiche, assolveva il proprio compito con serenità e noncuranza del pericolo, contribuendo a ribattere l’offesa nemica” (Determinazione del 9 agosto 1942-XX).
    Gli affondamenti dei quasi indifesi Grongo e Aosta non dovevano portare bene ai cacciatorpediniere britannici Zulu e Lively, che non dovevano vedere la fine dell’anno 1942 e sprofondarono anch’essi negli abissi del Mediterraneo per mano delle forze dell’Asse. Per primo toccò all’HMS Lively che fu affondato l’11 maggio 1942 a 100 miglia nord-est di Tobruk, perdendo ben 77 membri del suo equipaggio. Poi toccò all’HMS Zulu affondato il 14 settembre 1942 durante l’Operazione Agreement nei pressi di Tobruk, con 39 perdite tra il suo equipaggio.

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