Storia

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    Angelo Cabrini (Pavia, 14.2.1917 – Roma, 1.12.1987)

    a cura Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    (Pavia, 14.2.1917 – Roma, 1.12.1987)

    Nacque a Pavia il 14 febbraio 1917. Ultimati gli studi superiori ed ottenuta la maturità classica presso il Liceo Ugo Foscolo di Pavia nel 1936, nello stesso anno entro all’Accademia Navale di Livorno; al termine dei regolari corsi conseguì la nomina a Guardiamarina ed imbarcò, nel febbraio 1940, sull’incrociatore Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi.
    L’8 giugno 1940 alla vigilia del 2° conflitto mondiale, con il grado di Sottotenente di Vascello, chiese ed ottenne di essere assegnato, quale Operatore del Mezzi d’Assalto, alla 1a Flottiglia MAS di La Spezia, sottoponendosi ad un duro addestramento sui motoscafi speciali (barchini) con i quali parteciperà poi alla esecuzione del piano di forzamento del porto inglese di Suda (Creta), che era stato concepito e pianificato dal comandante Vittorio Moccagatta e diretto dal Tenente di Vascello Luigi Faggioni. L’azione, condotta alle prime luci del giorno 26 marzo 1941, culminò con l’affondamento dell’incrociatore pesante inglese York e con il grave danneggiamento della petroliera Pericles da 8.324 tsl.

    Fatto prigioniero, rimpatrio nel marzo 1945 nel grado di Tenente di Vascello, conseguito nel luglio 1942, mentre si trovava in prigionia. Partecipò brevemente alla guerra di liberazione con il Gruppo Mezzi d’Assalto e successivamente ebbe il comando di dragamine con i quali partecipò al dragaggio e bonifica delle acque di Monfalcone e Grado. Fu imbarcato sull’incrociatore Montecuccoli e poi sulla nave scuola Amerigo Vespucci nell’incarico di Aiutante di Bandiera e, dopo la promozione a Capitano di Fregata nel 1952, passò all’Accademia Navale di Livorno nell’incarico di Direttore dei Corsi.
    Nel 1956 venne destinato presso lo Stato Maggiore della Marina e nel 1960 ebbe il comando della 10a Squadriglia Corvette della Scuola Comando e poi del cacciatorpediniere Artigliere. Nel 1961 fu Addetto Navale a Madrid e nello stesso anno conseguì la promozione a Capitano di Vascello. Rimpatriato, ebbe prima il comando dell’8° Gruppo Navale, poi del Comando Subacquei ed Incursori del Varignano e delle Scuole C.E.M.M. di Taranto.


    Nel grado di Ammiraglio ebbe, tra gli altri, i seguenti incarichi: Comandante dell’Accademia Navale di Livorno (1969-1972); Vice Comandante in Capo del Dipartimento Militare Marittimo di La Spezia (1972); Comandante del Comando Militare Marittimo Autonomo della Sardegna (1973) e Comandante della 3a Divisione Navale. Promosso Ammiraglio di Squadra il 15 febbraio 1977 fu posto in ausiliaria per limiti di età.
    Fu insignito della Medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione:
    Coraggioso e tenace operatore di mezzi d’assalto di superficie, con altri valorosi – già compagni nei rischi e nelle fatiche di un durissimo addestramento – dopo difficile navigazione forzava una ben munita base navale avversaria, superando un triplice ordine di ostruzioni.
    Nella rada violata, quando già era imminente l’alba, con freddezza pari al coraggio, attendeva riunito ai compagni che il Comandante della spedizione procedesse al riconoscimento ravvicinato degli obiettivi e li assegnasse all’audacia dei suoi uomini. Una volta ottenuto il via, si lanciava con saldo animo all’assalto contro un incrociatore pesante nemico (York) affondandolo e coronando così del successo, con l’alto spirito aggressivo, la concezione teoricamente perfetta dell’impresa.
    Degno in tutto delle più alte tradizioni di eroismo della Marina italiana.
    Acque di Suda, 26 marzo 1941
    Morì a Roma il 1 ° dicembre 1987.
    (fonte Marina Militare)

    Ad Angelo Cabrini la Marina Militare ha dedicato una nave.

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    Ulisse, Penelope e la zattera

    Questo articolo è dedicato a tutte le donne, in modo speciale a quelle dei marinai, che in ogni istante della loro esistenza si armano di santa pazienza, di buona volontà e di amore per l’unità della famiglia. Esse, come Penelope, amano semplicemente, come sempre e per sempre (Pancrazio “Ezio” Vinciguerra)

    Ulisse il mitico personaggio omerico rappresenta una metafora del viaggio di ogni individuo, quello che conduce alla conoscenza del mondo e di se stessi. Eroe antico e moderno allo stesso tempo, è un navigatore esperto che sa governare una nave ed un regno. Con il suo desiderio di avventura, il suo coraggio, la determinazione nel perseguire l’obiettivo, la capacità di leadership, la capacità di saper offrire sicurezza al proprio equipaggio, rappresenta la massima possibile espressione delle aspirazioni e delle qualità che un uomo di mare si pone e di cui desidererebbe poter disporre per realizzare i propri traguardi. D’altra parte l’uomo di mare è molto concreto per scelta e per necessità, dovendosi confrontare con un elemento che, in alcuni momenti, non lascia molto spazio alla fantasia e che richiede in ogni istante di dover risolvere il problema contingente prima di approntarsi alla soluzione di quello successivo. In questo senso ciascuno di noi marinai deve essere pienamente consapevole delle proprie capacità, frutto dell’esperienza e di un duro lavoro, per applicarle al meglio, avendo a riferimento i valori che la figura di Ulisse emblematicamente rappresenta. In una parola nessun marinaio può presumere di sentirsi come Ulisse. Ma identifica in questo mitico eroe la possibilità di raggiungere anche le mete più impegnative. Le reincarnazioni dell’eroe omerico sono decine e decine, e coloro che inaugurano il modernismo, Erza Pound, T.S. Eliot e James Joyce, lo aprono tutti significativamente, con l’ombra e le tracce di Ulisse. Un meccanismo che si ripete puntualmente dopo l’Ulisse dantesco, in romanzi come “Il vecchio e il mare”, “Il capitano Achab”, racconti coinvolgenti che nascono dallo stupore che l’uomo prova dinanzi a ciò che non conosce. In estrema sintesi, quando ciascuno di noi viene a contatto con le meraviglie del nuovo e dell’ignoto.

    La storia ci narra che oltre ad essere un indomito guerriero, fu un abile ingegnere, ne è testimonianza la prodigiosa invenzione del cavallo di Troia che ancora oggi ci sorprende per la genialità. La guerra tra troiani e greci fu vinta, da quest’ultimi, grazie a questo espediente, frutto della sua intelligenza. Oltre ad essere un abile artigiano, costruttore della zattera e del talamo nuziale, è il simbolo di chi sperimenta, ricerca, stupisce e si stupisce, di chi va alla scoperta del perché delle cose e delle ragioni di ciò che prova o incontra. Quando gli altri ritornano dalla guerra lui continua a navigare con i suoi amici per il Mediterraneo malgrado a Itaca, sua amata patria, abbia lasciato la fedele e innamorata moglie Penelope ed il figlio Telemaco. Penelope non è una donna torbida e intrigante come la malevola Circe che trasforma gli uomini in maiali. Sebbene altre donne innamorate e generose come Calipso e Nausica abbiano tentato di sedurlo, Ulisse non ha che un pensiero fisso: come ogni marinaio pensa alla sua amata, a suo figlio e alla propria terra. Prima di approdare nella sua Itaca, deve però affrontare uragani e divinità avverse; i mostri marini Scilla e Cariddi, resistere ai canti ammalianti delle sirene facendosi legare all’albero della nave. Perde i compagni nei naufragi. Si misura con il ciclope Polifemo: il gigante con un solo occhio che nell’Etna fabbrica i fulmini di Giove. Scende persino nell’Ade. Quando finalmente raggiunge la sua Itaca, malgrado Minerva lo ha trasformato in un mendicante per renderlo non identificabile, viene riconosciuto dal suo fedele cane Argo e dalla nutrice d’infanzia Euriclea. Si vendica dei Proci che tentano invano di rubargli la moglie e il regno e li uccide aiutato dal figlio. Fin qui l’epica storia del più ammirato dei marinai. Nonostante siano passati millenni dalle vicende raccontate nell’Odissea ancora oggi l’angelo del focolare resta la donna. Anzi negli ultimi tempi le donne sono diventate più forti e, pur avendo conquistato importanti posizioni nel lavoro e nella società contemporanea, rimangono, per la loro dedizione e generosità, la vera anima della famiglia, il punto di riferimento per i loro cari, il porto sicuro dopo le battaglie a cui la vita moderna ci sottopone.

    Ognuno di noi marinai sa che in fondo al proprio cuore c’è sempre una “Penelope” ad aspettarlo: la propria amata. La donna del nostro destino; la tessitrice di quel filo che, come Penelope, non finisce mai di raggomitolare, di quel filo, simbolo del legame e della continuità dell’amore eterno, che genera la vita (Pancrazio “Ezio” Vinciguerra).

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    Ruggero Alfredo Micheli

    a cura Roberto Tento (*)

    (Volterra, 14.11.1847 – Roma, 20.2.1919)

    Ruggero Alfredo Micheli nacque a Volterra il 14 novembre del 1847, figlio del tenente generale del Corpo del genio navale Giuseppe Micheli, fu allievo nel Corpo del genio navale nel 1865 e, a seguito del corso presso la Scuola di applicazione di Castellammare di Stabia, nel 1869 fu nominato sottoingegnere di 3″ classe.
    Sottoingegnere di 2ª classe nel 1871, insegnò costruzione navale agli allievi del corso complementare di Castellammare; fu promosso sottoingegnere di 1″ classe nel 1877; due anni dopo fu inviato in Francia presso i cantieri navali Forges et Chantiers di Grensot per sorvegliare la costruzione e la consegna di materiale ordinato dalla Marina, rimanendovi fino al 1882, già nominato (1880) ingegnere capo di 2ª classe. Nel 1884 e fino al 1891, ingegnere capo di 1″ classe, ricoprì la carica di direttore delle costruzioni navali del cantiere di Castellammare, quindi fu direttore dell’ufficio tecnico della Marina a Genova, mantenendo l’incarico, anche nel grado di direttore del Corpo del genio navale, fino al 1893. Nominato nel 1894 membro del Comitato dei disegni delle navi, fu direttore delle costruzioni navali nell’arsenale di Spezia e quindi si trasferì a Roma, dove nel 1896 fu promosso ispettore del Corpo del genio navale, operando attivamente nel campo della progettazione di nuove unità fino al 1903, quando a domanda fu posto in ausiliaria.
    In questo periodo elaborò il progetto delle corazzate classe “Regina Margherita”, costruite in due esemplari nel periodo 1898-1905, che riuscirono ben bilanciate, con uno scafo caratterizzato da buone doti di tenuta al mare e manovrabilità, munite di notevole armamento e giudicate le migliori unità nel loro genere costruite in Italia all’inizio del XX secolo.
    Equiparato al grado di maggiore generale nella riserva nel 1904 e promosso tenente generale nel 1906. Fu deputato al Parlamento dal 1901 al 1904.
    Morì a Roma il 20 febbraio 1919.
    Tratto da Uomini della Marina 1861-1946 – U.S. Marina Militare.

    (*)
    per conoscere le altre sue ricerche digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome.

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    Amelio Cardone (Vico Equense, 13.2.1919 – Rodi, 11.9.1943)

    a cura Antonio Cimmino

    (Vico Equense, 13.2.1919 – Rodi, 11.9.1943)

    Nasce a Vico Equense il 13 febbraio 1919.
    Dopo l’8 settembre 1943 le truppe italiane presenti a Rodi (34.000 soldati, 3.000 dell’aviazione e 2.100 marinai), combatterono contro i tedeschi). Nella cosiddetta Battaglia di Rodi, riuscirono a conquistare l’isola.

    Morirono 447 italiani, 300 furono feriti e 30.000 furono fatti prigionieri.
    Amelio Cardone risultò disperso.

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    13.2.1861, le vittime e i caduti dell’assedio di Gaeta

    foto Carlo Di Nitto

    GAETA, 13 FEBBRAIO 1861 – Quando la Patria Napolitana 
    aggredita e sconfitta non si arrese (segnalato da Antonio Ciano)

    Dopo novantaquattro giorni di duro assedio compiuto esclusivamente con un continuo ed estenuante bombardamento che comportò lo sparo su Gaeta di oltre 160.000 colpi, di cui molti a granate con spolette esplodenti a massima carica; dopo l’avvelenamento delle condotte idriche di Monte Conca, situate al di là delle linee piemontesi, e la conseguente epidemia di tifo scoppiata tra le truppe e la popolazione assediata, nonostante la determinazione di militari e cittadini di proseguire comunque nella resistenza, S.M. il Re Francesco II decise di porre fine all’eroica difesa militare del Regno.
    Resistere ancora alla devastante guerra mossa senza scrupoli e con disonore da quell’armata di invasori che senza alcuna dichiarazione di guerra aveva assaltato come predoni uno stato ricco, indipendente e pacifico, avrebbe solo accresciuto le sofferenze di quegli uomini e di quelle donne che, comunque, avrebbero difeso fino all’estremo sacrificio la loro antica Patria Napolitana.
    D’altronde l’incredibile pioggia di bombe che giorno e notte martoriava i contrafforti, i palazzi, le chiese e le case dell’antica e splendida città di Gaeta, era il “naturale effetto” della nuova concezione di guerra, introdotta dalla “rivoluzione ateo-liberale”, fedelmente rispettata dalla soldataglia del Savoia.
    Non aveva senso secondo gli assedianti piemontesi, scomunicati portatori di un’etica militare aberrante, fare una guerra basata sulle antiche regole cavalleresche che impedivano agli eserciti di coinvolgere la popolazione civile.
    L’ordine era di prendere Gaeta, al di là dell’onore militare, delle “linee di avanzamento” o di assalti alle mura, costi quel che costi alla città ed ai suoi abitanti. E così fu.
    In quei tre mesi di inferno Gaeta subì una devastazione senza misura e senza precedenti da parte di un nemico che mai osò spingersi fin sotto le mura della Piazzaforte né, tanto meno, cercò di conquistare attraverso una leale battaglia. Gli “eroi” scesi dal nord a depredare e saccheggiare preferirono mettersi al sicuro dietro le colline e bombardare alla cieca, giorno e notte, la nostra gente, la nostra Patria, la nostra civiltà uccidendo, bruciando e distruggendo tutto.
    La ferocia e l’odio di chi veniva a spogliarci in nome di una falsa unità, raggiunse l’apoteosi durante le trattative per la capitolazione di Gaeta.
    Mentre gli ufficiali dei due schieramenti stavano espletando le procedure di firma del documento di resa, il Cialdini ordinò di fare fuoco a volontà e senza sosta accrescendo all’inverosimile l’intensità del bombardamento. La risposta che egli freddamente diede a chi gli faceva notare l’inutilità e le responsabilità di fronte a Dio ed agli uomini di quella strage senza senso fu: “Sotto le bombe si tratta meglio”. E a chi ancora riferiva del tragico coinvolgimento di civili inermi, ospedali e feriti egli replicava: “Le mie bombe non hanno occhi”. Fu così che il 13 febbraio del 1861 un’immensa ed infernale pioggia di proiettili di ogni calibro e potenza investì la città, le case, le strade, gli ospedali, le chiese, i monumenti, la gente e l’intera linea di resistenza di terra dove ormai ogni difesa si era mitigata in attesa degli ambasciatori.
    Tale evenienza consentì agli invasori di esporsi al di fuori dei loro trinceramenti e di meglio puntare le loro potenti artiglierie rigate. In una salve infernale colpirono in pieno la piccola Batteria Transilvania, tenuta dai giovanissimi eroi della Nunziatella, e fu strage. La violenta esplosione travolse anche la vicina Batteria Malpasso, con il contiguo deposito delle polveri da sparo, uccidendo tutti i militari, compresi i giovanissimi eroi.
    Finalmente alle 18.30 dello stesso giorno le batterie degli assedianti improvvisamente si tacitarono per consentire agli ambasciatori borbonici di rientrare nella Piazzaforte a notificare l’atto di resa.
    A questo punto sembrava tutto compiuto, ma non è così. Nuovi elementi stanno oggi emergendo nella faticosa e difficile ricerca storica sull’Assedio di Gaeta che, pertanto, appare tutt’altro che scontata.
    Come si potrà notare, l’art. 2 dell’atto di capitolazione entra in forte contraddizione con l’evenienza che la mattina del 14 febbraio le truppe di assedio fossero ancora impegnate nella costruzione di una nuova e possente batteria a 6 canoni rigati tipo “cavalli” nei pressi di Montesecco, a meno di 800 metri dalla Fortezza.
    Se, poi, si analizzano alcune stampe e foto di quei giorni si notano combattimenti anche nei pressi della Torre di Orlando, posta sulla sommità di Monte Orlando, che, secondo il citato art. 2 della capitolazione, doveva essere consegnata ai piemontesi senza colpo ferire.
    Il compianto Don Paolo Capobianco, citando il regolamento delle Piazze militari del Regno delle Due Sicilie, che accreditava la potestà di resa delle stesse esclusivamente al Re, sosteneva la tesi di una illegittimità di firma nel documento di resa da parte degli ufficiali borbonici.
    In pratica, quanto sottoscritto dai Comandanti della Piazzaforte di Gaeta, doveva essere firmato o, comunque, ratificato dal Re, cosa che di fatto non avvenne mai.
    Ciò dato, quasi sicuramente Torre d’Orlando non si arrese e per prenderla fu necessario conquistarla “metro per metro”. Certamente, per ovvi motivi di propaganda e per non alimentare le voci sull’illegittimità dell’intera spedizione, l’evento fu tacitato e cancellato dai giornali militari e dalle cronache.
    Solo così si spiega il perché degli spari anche nei seguenti giorni 14, 15 e 16 febbraio, il perché della presenza della bandiera Borbonica che, nonostante le “cronache militari piemontesi affermino altro”, il 16 ancora sventolava su alcuni spalti del colle e perché alcuni giornalisti e incisori del tempo ritraggono scene di guerra nei pressi di Torre di Orlando. Per non parlare di alcuni cronisti esteri che il 17 febbraio scrivono: “… si ode il fragore solitario del cannone”.
    Quanto accadde a Gaeta dopo la resa militare potrebbe sembrare di poco conto, ma in realtà è estremamente importante dal punto di vista del Diritto Internazionale ed avvalora l’illegittimità dell’intera operazione comandata dai Savoia.
    Se, infatti, l’invasione fu un’azione di pirateria internazionale in grande stile, ovvero un’aggressione militare ad uno stato libero ed indipendente con l’avallo delle potenze del tempo, ogni atto discendente senza l’accettazione del legittimo governo fu, di fatto, un atto illegittimo.
    Allora, che valore poteva avere un documento di resa con tali premesse? Chi e come avrebbe fatto rispettare quanto sottoscritto? Chi il giudice di un’azione di per se già fuori da ogni regola? L’Inghilterra, la vera mandante, oppure la Francia, la sua fiancheggiatrice?
    L’assedio certamente cessò, i militari si fermarono, anche se qualcuno, come abbiamo visto, probabilmente continuò fino alla fine, ma la Patria rappresentata dall’augusto Sovrano S.M. Re Francesco II di Borbone non si arrese. Mai.
    Nessun trattato o atto di capitolazione dispone una tale evenienza. Lo stesso Re nel lasciare Gaeta diede un arrivederci. E ciò è quanto basta.
    E’ questo in realtà il grande valore di Gaeta, questo il vero messaggio che la Città Martire porta inciso sulle sue mura ancora intrise del sangue dei nostri Eroi.
    Cap. Alessandro Romano
    ________________________________________
    A Gaeta, dove è indelebilmente marchiata la nostra identità di popolo, ogni anno è innalzata con amore la Bandiera del Regno delle Due Sicilie, così come avviene nel contempo in tutte le parti del mondo dove si trovano i figli più fedeli di una Patria immortale.
    Infatti, il 13 febbraio è il giorno dell’Orgoglio Identitario e si espone, ovunque ci troviamo, il Sacro Simbolo della Nostra Terra e della Nostra antica Civiltà, il Vessillo dinastico del Regno delle Due Sicilie.
    Il 12 febbraio del 2017, è stato inaugurato il GIARDINO DELLA MEMORIA, su proposta di Pino Aprile,l’autore di “ TERRONI” e di “CARNEFICI” dove a pag. 461 ha scritto:” Se l’Italia non farà il sacrario, qualcun altro lo farà a Gaeta, a Pontelandolfo, a Casalduni, ad Auletta, a Bronte,a Castellammare del Golfo, o ad un altro dei luoghi del nostro martirio. Arriveranno migliaia di terroni, ognuno con una pietra e con un fiore; e faremo da soli, se non si volesse fare insieme. E su ogni mattone, il nome di un paese distrutto o di Concetta Biondi, di Angelina Romano, di Ninco Nanco, di Nicolò Lombardi, di Michelina Di Cesare, di Matteo Negri…o di soldati morti a Fenestrelle.

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    13.2.1915, Francesco La Rosa

    di Franco La Rosa

    – S.O.S. RICHIESTA NOTIZIE –

    Ciao Ezio carissimo,
    ti faccio dono delle foto di quel che resta di mio zio Francesco La Rosa (mi sono state affidate da mio padre che mi ha voluto chiamare come Lui). Quello che so di mio Zio è che è nato a forse a Civitavecchia il 13.2.1915 e, di questo quadro con le decorazioni, non so nemmeno quali onorificenze gli siano state tributate e perché…


    Dal berretto si evince che sia stato membro del regio sommergibile Balilla, altro non so.
    Mi piacerebbe, col tuo aiuto e con l’aiuto dei lettori del tuo blog, conoscere la storia nella regia Marina di mio Zio e del regio sommergibile Balilla.
    Confido in te e in voi.
    Franco

    Da sinistra:
    – croce al merito di guerra (il gladio non è pertinente. Dopo la prima concessione veniva apposta una coroncina reale sul nastro per un massimo di tre).
    – medaglia commemorativa Francese della Grande Guerra.
    – medaglia commemorativa dell’unità d’Italia 1848-1918.
    – L’ultima è la medaglia commemorativa 1^Guerra Mondiale con due anni in territorio di guerra.
    Per quanto riguarda la quartultima non riesco a distinguerla perché il nastrino non mi sembra appropriato (lungo comando) e la medaglia non riesco a vederla bene. Comunque se vuole dati più esaustivi può rivolgersi all’Archivio di Stato della provincia di nascita dove conservano tutti i ruolini. In via subordinata all’Ufficio documentazione della Direzione del personale della Marina. È sempre un piacere leggerti!
    Francesco Prestipino (13.2.2019)

    Grazie Francesco Prestipino mi ha fatto cosa graditissima ricevere queste preziosissime informazioni che farò recapitare a Franco La Rosa
    Un abbraccio a voi tutti grande come il mare della Misericordia e grande come il vostro cuore caritatevole di Marinai per sempre.
    Ezio (14.2.2019)