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    24.5.1944, in ricordo di Luigi Mascherpa e Inigo Campioni

    di Antonio Cimmino e Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    I Marinai e la Guerra di Liberazione…quelli che non si arresero.

    Luigi Mascherpa
    Il Contrammiraglio Luigi Mascherpa, nato a Genova il 16 aprile 1893, aveva 51 anni quando fu giustiziato.
    Il suo incarico era quello di osservatore aeronautico nella Prima Guerra Mondiale dove fu decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare.
    Comandante nel settembre 1943 della base navale di Lero (Egeo), dopo l’armistizio italiano ne organizza la difesa e assume il comando delle isole dell’Egeo.
    I massicci bombardamenti tedeschi, iniziati su Lero il 26 settembre, e l’attacco navale tedesco del 12 novembre successivo con la conseguente resa, avvenuta il 14 novembre 1943, lo rendono prigioniero dei tedeschi che lo deportano in Polonia.
    Nel Gennaio 1944, viene tradotto a Verona nelle carceri Gli Scalzi e, successivamente a Parma nelle carceri San Francesco (semidistrutte in seguito a bombardamento aereo) assalite dai da partigiani che che ne liberano i detenuti politici.
    Mascherpa rifiuta, con l’ammiraglio Inigo Campioni, di sottrarsi all’imminente processo (sommario).
    Processato il 22 maggio 1944 dal Tribunale Speciale di Parma viene fucilato dai fascisti il 24 maggio 1944 al poligono di tiro di Parma con l’ammiraglio Campioni.
    Fu decorato Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
    Ufficiale Ammiraglio di eccezionali doti morali e militari, assumeva, in circostanze estremamente difficili, il comando di un’importante base navale nell’Egeo. Attaccato da schiaccianti forze aeree e navali tedesche, manteneva salda, in oltre cinquanta giorni di durissima e sanguinosa lotta, la compagine difensiva dell’isola. Dopo una strenua ed epica resistenza protrattasi oltre ogni umana possibilità, ormai privo di munizioni e con gli effettivi decimati, era costretto a desistere dalla lotta. Catturato dal nemico e condannato a morte da un tribunale di parte asservito ai tedeschi, coronava fieramente col sacrificio della vita una esistenza nobilmente spesa al servizio della Patria.” (Zona Operazioni, settembre 1943 – maggio 1944).
    Le sue ultime parole davanti al plotone di fucilazione furono le seguenti:
    “Il mio ultimo pensiero va alla nostra Italia. Ricordatevi sempre dell’Italia. Viva L’Italia”.

    Inigo Campioni
    Cadeva comandando lui stesso il plotone di esecuzione, dopo avere dichiarato che « bisogna saper offrire in qualunque momento la vita al proprio Paese, perché nulla vi è di più alto e più sacro della Patria ».

    Lettera alla Madre scritta nella notte fra il 22 e il 23 maggio 1944
    Mamma adorata,
    è il mio ultimo saluto nel quale c’è tutto il mio cuore e la mia anima. Ti lascio, ma per ritrovarci più tardi lassù riuniti per sempre. Questa racconsolante certezza ti dia la forza di continuare a vivere sino a che il buon Dio vorrà che torniamo accanto l’una all’altro, come mai purtroppo lo potemmo a lungo durante la vita. È il rimorso più vivo che sento oggi nell’intimo quello di aver dato troppo al mio dovere e tanto poco a voi.
    Io sono sereno e forte come mi hai visto qui l’ultima volta, dopo due anni di separazione; e molta forza mi viene appunto dal ricordo e dalla felice commozione di averti potuto allora abbracciare. La giustizia o, meglio, la condanna degli uomini non mi tocca, perché la mia coscienza non ha assolutamente nulla da rimproverarsi, e questo fa sì che io sia così meravigliosamente tranquillo e rassegnato ad una fine ingiusta e immeritata.
    Del mio nome siate sicuri che non dovrete mai vergognarvi, perché mai, lo giuro, sono venuto meno alle leggi dell’onore. Non ne voglio a coloro che in un tempo di così tragiche vicende mi hanno condannato; ma un giorno, sicuramente, la mia memoria tornerà in quella luce vera che mi circondò per tutta la vita, e che te, mamma, rendeva così fiera di questo tuo figlio. E quel il giorno sarà quello nel quale questa nostra povera Italia uscirà da questi tormenti, supplizi e rovine che non meritava.
    Il buon Dio non ha voluto concedermi di vedere quel giorno tanto ardentemente sperato; ma ci sarai tu, mamma adorata, a vederlo per me. L’unico tormento ed angoscia in queste ore nasce dal pensiero di tutte le tristezze e le pene dolorose che tu, Vittorina e Hilda avete avuto per mia colpa involontaria in questi ultimi mesi, e per quelle che ancora più avrete da questo momento al pensiero che me ne sono andato. Perdonatemi!
    Mamma adorata, io ti ringrazio di tutto il bene e la gioia che con la tua affettuosità mi hai dato nella vita. Di lassù io ti seguirò, ti sarò sempre accanto in spirito per darti forza e coraggio.
    Ti serro forte forte al mio cuore con una affettuosità che supera qualsiasi amore, ti stringo a me come quella mattina che ci vedemmo qui. Arrivederci, mamma buona, mamma adorata.
    Inigo tuo.

    Nato a Viareggio (Lucca) il 14 novembre 1878, iniziò la carriera militare nel 1893 come allievo dell’Accademia Navale.
    Nel novembre del 1941 fu nominato governatore delle Isole dell’Egeo e comandante di tutte le forze armate operanti in quel settore. Dopo l’8 settembre 1943 guidò la resistenza ai tedeschi fino alla resa dell’Isola di Rodi l’11 settembre. Catturato, fu deportato dapprima in Germania e in seguito consegnato dai tedeschi ai fascisti di Salò insieme all’ammiraglio Luigi Mascherpa. Campioni e Mascherpa furono processati e condannati a morte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, convocato a Parma il 22 maggio 1944 e presieduto dal generale Griffini.
    I due condannati chiesero di restare in piedi e di non essere bendati. Conservarono un contegno calmo e dignitoso.
    Davanti al plotone d’esecuzione Campioni dichiarò:
    “Auguriamoci che questa nostra Italia ritorni unita e bella come prima. Viva l’Italia!”.
    Solo il 9 novembre 1947 gli fu assegnata la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria con la seguente motivazione:
    Governatore e comandante delle Forze Armate delle isole italiane dell’Egeo si trovava, nel cruciale periodo dell’armistizio, a capo di uno degli scacchieri più difficili, lontani e vulnerabili. Caduto in mano al nemico in seguito ad occupazione della sede del suo comando, rifiutava reiteratamente di collaborare con esso o comunque di aderire ad un Governo illegale. Processato e condannato da un tribunale straordinario per avere eseguito gli ordini ricevuti dalle Autorità legittime e per avere tenuto fede al suo giuramento di soldato, manteneva contegno fiero e fermo, rifiutando di firmare la domanda di grazia e di dare adesione anche formale alla repubblica sociale italiana, fino al supremo sacrificio della vita“.

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    24.5.1941, la tragedia del transatlantico Conte Rosso

    a cura Francesco Carriglio
    tratto da: http://www.augusta-framacamo.net/inserti-framacamo/insert22.asp

    Il Transatlantico “Conte Rosso”, requisito alla compagnia di navigazione Leoyd Trentino per motivi bellici, era stato adibito insieme ad altri piroscafi italiani al trasporto delle truppe militari e dei loro equipaggiamenti. Le unità mercantili requisite dalla Regia Marina mantenevano lo stesso equipaggio, mentre il comandante della nave veniva affiancato da un ufficiale superiore militare, inoltre venivano imbarcati militari specialisti con il ruolo di segnalatori e radiotelegrafisti.

    Il Conte Rosso aveva già fatto parte di un convoglio per il trasporto delle truppe e per la sostenuta velocità e un pizzico di fortuna la missione era terminata con successo. Il Canale di Sicilia era costantemente sorvegliato da aerei ricognitori inglesi di base a Malta e in agguato nel quadrante di crocevia tra l’Italia, la Grecia, e l’Africa vi erano i micidiali sommergibili inglesi anch’essi di stanza a Malta. Il 24 maggio 1941 un convoglio, che trasportava armamenti e truppe, composto dalle seguenti navi: Piroscafo Conte Rosso, alzante l’insegna di capo convoglio, Nave Esperia nelle quale vi era imbarcato un numero rilevante di soldati del Regio Esercito, la Motonave Victoria e il Mercantile misto Marco Polo, scortato dalle Unità della III Divisione Navale, da un cacciatorpediniere e da tre torpediniere, partiva da Napoli diretto a Tripoli. Contemporaneamente il sommergibile britannico Upholder salpava dal porto Malta con rotta lo stretto di Messina. Al convoglio, giunto a Messina, si aggiunsero due incrociatori, tre caccia e tre torpediniere per aumentare la vigilanza ed ampliare il raggio di difesa, sapendo che quella zona era battuta dai sommergibili nemici. Le Unità italiane all’imbrunire giunsero all’estremo sud della Sicilia mantenendo la velocità di crociera di 18 nodi con rotta 171° Sud-Est ma il destino del Conte Rosso era segnato.

    Alle ore 20:41 circa, in prossimità di Capo Murro di Porco di Capo Passero, l’incontro del convoglio con il sommergibile Upholder fu fatale, il sommergibile colpì il Conte Rosso con un primo siluro che distrusse la zona macchine, rallentandone così la velocità, un siluro successivo colpì la stiva provocando una grande esplosione; il Conte Rosso si inclinò su un fianco, gli uomini sopravvissuti all’esplosione cercarono di mettersi in salvo adoperando mezzi di salvataggio e di fortuna, ma il tempo fu tiranno per alcuni di essi, dopo solo 8 minuti dal secondo siluro il piroscafo si inabissò trascinando con esso molti uomini, adagiandosi su un fondale di 2.000 metri. Le navi di scorta coordinarono subito una azione offensiva nei confronti del sommergibile lanciando delle bombe di profondità, ma ben presto alcune di esse dovettero interrompere l’azione per dare soccorso alle moltissime persone che chiedevano, o meglio imploravano aiuto, il resto del convoglio, scortato da alcune Unità, proseguì per il porto di destinazione. Il Comando Marina di Augusta in allarme predisponeva l’organizzazione dei soccorsi, il prezzo di vite umane fu altissimo, al momento della tragedia sul piroscafo Conte Rosso vi erano 2.727 persone di cui 1.430 si salvarono e 1.297 morirono, di esse solo 290 salme furono recuperate dai mezzi di soccorso. La notizia non tardò a diffondersi tra la popolazione augustana. Alle ore 05:00 del mattino successivo alcuni superstiti del Conte Rosso giunsero nel porto di Augusta. Le banchine del porto si affollarono improvvisamente di persone che si volevano prodigare nell’aiuto agli sventurati naufraghi sopravvissuti all’immane tragedia. La cittadinanza diede il suo aiuto ai naufraghi offrendo ad essi cure, ospitalità, vestiario, vitto, alloggio ed affetto. Una cittadina che prese a cuore la sventura di questi uomini che nel tempo non hanno mai dimenticato l’affetto e la simpatia per questa città.

    Nota: COORDINATE PUNTO DELL‘ AFFONDAMENTO.
    Notizia tratta dall’Estratto Notiziario Storico di Augusta N° 24 Edizione 2001.
    Il volume Navi Mercantili Perdute Edito dall’Ufficio Storico M.M.I. precisa il punto di affondamento in 36°41′ Nord / 15°33′ Est. – Corretto nel 1977 in 37°01′ Nord / 15°33’ Est. Confermato anche dall’individuazione del relitto.

    PONTE di COMANDO
    Capo convoglio: Contrammiraglio Francesco Canzoneri.
    Comandante Civile: Capitano di lungo corso Giovanni Fabris.
    Comandante Militare: Capitano di Vascello Enrico Ruggero de Bellegarde de Saint Lary.

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    24.5.2012 – 24.5.2023, mi chiamo Alessandro Nasta, sono morto due volte


    A MAMMA MARISA TORALDO

    Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
    Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
    Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
    Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
    Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
    Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
    Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
    Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli »
    (Matteo 5,3-12)

    Ciao a tutti ero il Sottocapo Nocchiere di 3ª classe della Marina militare Alessandro Nasta e sono morto il 24 maggio 2012 sulla nave Amerigo Vespucci precipitando dall’albero di maestra, quello più alto. Avevo solo 29 anni quando caddi da una altezza di circa 15 metri urtando la testa sul ponte di coperta.
    La signora dei mari, la nave più bella del mondo, era in navigazione al largo dell’Argentario, 40 miglia a Nord di Civitavecchia. Mi trasportarono in elicottero e sono morto per la prima volta nell’ospedale di Civitavecchia a seguito delle numerose fratture riportate.
    Mi dicono che sull’accaduto  la Procura della Repubblica di Civitavecchia ha ultimato le indagini, che ci sono dei rinviati a giudizio e che forse si potrebbe giungere ad una conclusione e stabilire se, nella mia prima morte, siano state rispettate le regole di sicurezza e quant’altro.

    Nel frattempo il Ministero terreno ha negato alla mia famiglia lo status di vittima del dovere respingendo l’istanza prodotta e pensare che i suoi servi si erano dichiarati vicino al dolore dei miei familiari. Forse qualcuno pensa che ero sull’albero di maestra a godermi il panorama e nessuno dei miei Frà terreni, presenti a bordo, parla dell’accaduto ed io così sono morto due volte, sulla nave più bella del mondo.

    Come una mamma per il suo bambino
    di Marisa Toraldo (Pubblicato il 3 agosto 2013)

    Le persone temprate dalla sofferenza hanno affinato una sensibilità speciale. Sanno essere dolci e non sdolcinate, sanno essere dure senza far male, sanno dosare la rabbia distinguendola dall’odio, sanno il significato del silenzio, sanno distinguere l’essenziale dal superfluo, conoscono il peso delle lacrime e il valore di un brivido e soprattutto sanno che nulla ti è dovuto e ciò che hai puoi sempre perderlo. Sono persone così fiere delle proprie cicatrici da potersi permettere di fare a meno di qualsiasi maschera…libere di essere vulnerabili, di provare emozioni e soprattutto libere di correre il rischio di essere felici come una madre che ha concepito il suo bambino.

    



    Sostieni il gruppo Alessandro Nasta: “L’acrobata del mare”
    https://www.facebook.com/groups/283939205079777/?fref=ts

    Si consigliano le seguenti letture:
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2012/05/addio-alessandro/
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2010/05/i-marinai-e-lo-stress-a-bordo/

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    24.5.1915, l’Italia entra in guerra

    La leggenda del Piave
    (E. A. Mario)

    Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
    dei primi fanti il ventiquattro maggio;
    l’esercito marciava per raggiunger la frontiera
    per far contro il nemico una barriera!
    Muti passaron quella notte i fanti,
    tacere bisognava andare avanti.
    S’udiva intanto dalle amate sponde
    sommesso e lieve il tripudiar de l’onde.
    Era un presagio dolce e lusinghiero.
    il Piave mormorò: Non passa lo straniero!
    Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento
    e il Piave udiva l’ira e lo sgomento.
    Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto,
    poiché il nemico irruppe a Caporetto.
    Profughi ovunque dai lontani monti,
    venivano a gremir tutti i suoi ponti.
    S’udiva allor dalle violate sponde
    sommesso e triste il mormorio de l’onde.
    Come un singhiozzo in quell’autunno nero
    il Piave mormorò: Ritorna lo straniero!
    E ritornò il nemico per l’orgoglio e per la fame
    volea sfogare tutte le sue brame,
    vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora
    sfamarsi e tripudiare come allora!
    No, disse il Piave, no, dissero i fanti,
    mai più il nemico faccia un passo avanti!
    Si vide il Piave rigonfiar le sponde
    e come i fanti combattevan l’onde.
    Rosso del sangue del nemico altero,
    il Piave comandò: Indietro va, o straniero!
    Indietreggiò il nemico fino a Trieste fino a Trento
    e la Vittoria sciolse l’ali al vento!
    Fu sacro il patto antico, tra le schiere furon visti
    risorgere Oberdan, Sauro e Battisti!
    Infranse alfin l’italico valore
    le forche e l’armi dell’Impiccatore!
    Sicure l’Alpi, libere le sponde,
    e tacque il Piave, si placaron l’onde.
    Sul patrio suolo vinti i torvi Imperi,
    la Pace non trovò né oppressi, né stranieri!

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    Luciano Minchio (Zimella, 5.3.1920 – Mare, 24.5.1941)

    di Lorenzo Longo e Luciano Crestan

    (Zimella, 5.3.1920 – Mare, 24.5.1941)

    Tratto dal libro “De Maris Profundis – Dagli abissi del mare le vicende di tre marinai di terraferma

    Da quel 24 maggio 1941 di Luciano Minchio non si seppe più nulla. Ma il suo nome non è stato dimenticato. Per tutti quelli che lo conoscevano era “Cesare della Sunta” ma nel Comune di Zimella risultava registrato come Luciano Minchio di Fortunato e Assunta Dittonghi.
    Nacque il 5 marzo 1920 e trascorre l’infanzia non diversamente dai suoi coetanei forse un po’ più esuberante, insomma un’infanzia vivace e serena vissuta in quella povertà materiale condivisa dalla stragrande maggioranza della gente del paese. Povertà certamente, ma non miseria, perché non mancava il necessario a vivere con dignità e lo spettro della fame restava lontano dalla porta di casa.
    Un’infanzia tutto sommato felice quella di Luciano, vissuta nell’affetto dei cinque fratelli, dei genitori, dei nonni, di una zia paterna e nell’allegria della banda dei tanti compagni di scuola e di giochi.
    A Luciano piace studiare ma è limitato dalle ristrettezze delle risorse economiche ma viene ospitato nel collegio dei padri Comboniani a Thiene dove frequenta il seminario per diventare prete missionario in Africa. Cresce nella rigidità dello studio e della preghiera, finalizzata alla formazione spirituale ma anche per permeare un carattere forte e di solida cultura. Il ragazzo torna in famiglia un paio di volte all’anno. Qualche volta è la famiglia che va a trovarlo. Ci va anche la sorella Giulietta che ricorda:
    “Mi facevo 50 chilometri in bicicletta. Sedere in fiamme per le strade sconnesse e la rigidità del mezzo. E poi la polvere. Ma ne valeva la pena. Ritrovavo mio fratello con quel sorriso che non dimentico. Lui mi faceva sedere accanto a sé vicino al pianoforte e suonava arie incantevoli. Che straordinario pianista era mio fratello”.

    A 17 anni Luciano interrompe gli studi. La notizia è accolta in famiglia come un fulmine a ciel sereno, qualcuno sostiene che fu una scelta dettata dall’impellenza economica ma non si ha conferma che avvalorino questa ipotesi.
    E’ certo che in quell’epoca avere 17 anni imponeva scelte già chiare e precise e Luciano anziché gravare sul magro bilancio familiare coglie l’opportunità di arruolarsi nella Regia Marina. Poco dopo infatti lo troviamo a Pola, in Istria, che allora era territorio italiano.
    Grazie agli studi praticati nella cittadina istriana frequenta il corso di Segnalatore di Marina.
    A 19 anni è in Africa con l’incarico di Segnalatore presso il porto di Massaua, in Eritrea allora facente parte della Colonia d’Africa Orientale Italiana (AOI). Qui operavano, all’inizio del conflitto, 90.000 soldati delle tre Armi.
    Nel marzo del 1939 Luciano si imbatte in Mario Martello suo vicino di casa che sta svolgendo il servizio militare nell’Aeronautica che sta per imbarcarsi su una motonave per rimpatriare. Luciano si rende immediatamente disponibile indicandogli il piroscafo “Francesco Crispi”, l’ora della partenza è mezzanotte. I due non si rivedranno mai più.
    Ma l’intreccio dei loro pur diversi destini è invece appena iniziato. Di lì a poco infatti Martello inizierà a frequentare la sorella di Luciano, Giulieta, e nel 1948 i due si uniranno in matrimonio.

    Nel 1940 Luciano Minchio è richiamato in Italia per essere destinato a bordo della nave da crociera “Conte Rosso”. Con l’entrata in guerra la Marina Militare requisisce le più importanti unità del naviglio mercantile per rifornire il Nord Africa e le Colonie dell’Africa Orientale di truppe e materiali. Molti di queste navi coleranno a picco in quella che gli storici definiscono la “Battaglia
    Il transatlantico Conte Rosso fa la spola tra Napoli e Tripoli e il 24 maggio 1941 è pronta per espletare il suo servizio di routine. Non sarà così…
    La nave ospita 2729 fra soldati e membri dell’equipaggio (fra i quali Luciano Minchio). Salpata dal porto partenopeo, il destino attende il bel piroscafo poco oltre il passaggio dello Stretto di Messina. Qui un singolo sommergibile inglese, di ritorno della base di Malta, ha nei tubi gli ultimi due siluri.
    Sono le ore 20.30, incomincia a far buio. Sul nero mare si accendono due lampi, sono i due siluri che sono andati a segno, che hanno centrato il Conte Rosso mandandolo a picco.
    Tutto avviene in 15 minuti, la prua del piroscafo colpito a morte si inabissa come una lama gigantesca che penetra i flutti. Appena il tempo di impartire l’ordine di abbandonare la nave…
    Ci si affolla attorno le scialuppe, ci si aggrappa al primo oggetto che galleggia a mo’ di zattera, si afferrano le cime che pendono dalle mura della nave in attesa che qualcuno ti venga a salvare.
    Gran parte dei soldati trasportati non sa nuotare e per loro la sorte sarà ancora più crudele…
    In quei momenti di drammatica frenesia Luciano Minchio riesce a mantenere la freddezza necessaria per calare in acqua le scialuppe di salvataggio, aiutare i naufraghi a salirvi e raccomandare loro di allontanarsi il più possibile dal transatlantico. All’ultima barca manca il tempo. Il Conte Rosso inabissandosi genera un gorgo gigantesco nel quale è risucchiata la lancia sulla quale sono saliti Luciano e altri poveri soldati. Due volte naufraghi. Nel disastro qualcuno vicino a Luciano si salva e ci potrà narrare l’operato eroico del nostro Marinaio.
    Quello che per la Marina Italiana è una tragedia, per quella inglese è invece una vittoria. Questo vuole la regola perversa della guerra; un costume peraltro comune a tutti i belligeranti. Per questo successo il comandante del sommergibile inglese fu decorato co la Victoria Cross.
    Per i naufraghi del Conte Rosso la guerra è appena iniziata: infatti furono in seguito mandati a combattere su tutti i fronti, dall’Africa alla Russia dove patirono altre drammatiche prove…
    L’atto eroico di Luciano Minchio fu segnalato al Ministero della Guerra. Qualche tempo dopo il Re d’Italia, con proprio Decreto del 15 gennaio 1942, conferiva alla memoria del Sottocapo segnalatore Luciano Minchio, la Medaglia d’Argento al Valor Militare.

    La notizia della sua scomparsa non tarda molto ad arrivare a casa Minchio a Zimella, il cugino Luigi Smeraldi è fra i pochi in paese a possedere una radio. Attorno all’apparecchio si raccolgono la sera alcune persone di scarsa fede fascista, per ascoltare Radio Londra, che informa sull’andamento delle operazioni belliche con trasmissioni anche in lingua italiana. Il 25 marzo vengono a conoscere dall’emittente inglese dell’affondamento del Conte Rosso e dei numerosi scomparsi in mare.
    Non tarda neanche la notizia ufficiale alla famiglia che viene data direttamente dal Potestà ingegner Luciano Corain: Luciano Minchio è scomparso in mare e può considerarsi deceduto.

    Il padre Fortunato affronta il lutto con rassegnato fatalismo. Lui ha fatto la Grande Guerra. Ha visto la morte passargli accanto mille volte ed ha imparato a conviverci.
    La madre no. Per lei la ferita non si sarebbe più rimarginata. E quando arrivava la stagione dei cavalieri più che foglie di gelso, distribuiva sospiri e lacrime sulla lettiera dei bachi da seta.

    Testimonianza tratta dal sito web www.trentoincina.it

    Ecco come racconta l’agonia del transatlantico Conte Roso il sopravvissuto radiotelegrafista Angelo Padello:

    “Mi imbarcai assieme ai miei compagni sulla bellissima nave Conte Rosso che svolgeva servizio per trasporto truppe. Purtroppo la sera del 24 maggio 1941 alle ore 20,41 circa, due siluri di un sommergibile inglese la colpirono e la mandarono a fondo in brevissimo tempo. Annegarono 1297 ragazzi in pochi minuti.
    La nave quando è stata colpita si vedeva a colpo d’occhio che si sarebbe inabissata in poco tempo. Quindi si può immaginare la mia paura dal momento che non sapevo nuotare.
    Si vedevano gruppi di ragazzi inginocchiati a pregare e il cappellano che li benediva. Ad un tratto si sentì la voce del capitano che gridò: “Si salvi chi può!”.
    Io non volevo morire dato che mio fratello era già morto durante la Grande Guerra del 15-18. Quando fecero scendere in mare l’ultima scialuppa carica di ragazzi, senza pensarci due volte, tra pugni, calci e spintoni riuscii ad avvicinarmi alla ringhiera e saltandola mi ci buttai sopra e come me fecero tanti altri ragazzi. Ad un tratto la calata si bloccò e la barca non andava né giù né più su. Mi guardai attorno e vidi una corda penzolare dalla nave e calarsi in mare; mi gettai nel vuoto per aggrapparmi e prima di fermarmi, scivolai per alcuni metri scorticandomi le mani, tanto era ruvida quella corda. Riuscii comunque a calarmi e a gettarmi nell’acqua, ma non essendo legato al salvagente, cominciai a bere e a gridare a squarcia gola “Aiuto!”. Ad un certo punto, vidi un ufficiale staccarsi da uno zatterone e venirmi incontro dicendomi: “Calma ragazzo … ti tengo io…”.
    Con me attaccato come un peso morto, il mio salvatore non poteva più ritornare alla zattera poiché si era trasformata in un formicaio di persone che si spintonavano per salvarsi la pelle. Cercò di portarmi al largo il più possibile. Intanto l’acqua non era più acqua, ma bensì un mare di nafta perché i serbatoi della nave furono colpiti e distrutti dai siluri. In quel momento ci terrorizzava il fatto che tutto il mare intorno a noi potesse incendiarsi e finire così tutti quanti arrostiti. In quelle condizioni siamo rimasti fino alle 05.00 del mattino seguente, quando ci raccolsero altre navi di soccorso che ci hanno portato al porto più vicino, cioè ad Augusta in Sicilia”.