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    Silvestro Iacovaccio (28.8.1943 – 14.2.2016)

    di Pietro Serarcangeli (*)

    (28.8.1943 – 14.2.2016)

    Il 14 febbraio 2016 il il Maresciallo di 1^ Classe Meccanico, Silvestro Iacovaccio, dopo una lunga e sofferente malattia dovuta all’esposizione all’amianto durante gli anni di servizio a bordo della navi della Marina Militare, salpava per la Sua ultima missione lasciando nel dolore la Sua adorata Famiglia.

    Silvestro era persona buona e altruista, come ben sanno tutti coloro che hanno avuto l’onore di conoscerlo. Riposa in Pace caro Silvestro, non sarai dimenticato…

    Dove e cosa cercare:

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    10 febbraio 2024 “Foibe”, noi non dimentichiamo

    a cura di quelli che non dimenticano mai

    Foibe, Auschwitz, la vita è odio o amore?
    A pagare sono sempre gli innocenti.

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Fino a pochi anni fa, quando si parlava di Foibe in Italia valeva quanto riportato in un celebre e diffuso dizionario della nostra amata lingua, che semplicemente usava la definizione di “dolina carsica”. Nulla che potesse richiamare una verità terribile e scomoda per la storiografia ufficiale, ovvero quegli eccidi compiuti dalle truppe titine a danno della popolazione italiana particolarmente tra il 1943 e il 1947, anche molto dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Barbarie tanto più odiosa, perché compiuta contro degli inermi, donne e bambini, anziani, colpevoli solo di essere italiani, in un clima di odio diffuso che prendeva rapidamente i contorni di una vera e propria pulizia etnica. Il dolore dei profughi, negli anni seguenti, è stato se possibile reso ancora più forte dal silenzio calato sull’intera vicenda, e chi è sopravvissuto ha dovuto anche sopportare, oltre alla perdita dei propri cari e ad atrocità di ogni genere, l’umiliazione di sentirsi straniero in Patria, testimone scomodo di una realtà che si voleva a tutti i costi rimuovere e dimenticare. 
“A pagare sono stati e sono sempre gli innocenti“
. L’uomo continua la sua strage degli innocenti, ammassandoli come rifiuti senza una degna sepoltura, ne una Prece, ne un ricordo…
    La barbarie umane compiute contro degli inermi, colpevoli solo di essere creduti dalla parte sbagliata, alimentano odio; un odio esteso subito anche dal mondo animale e vegetale.
    L’odio, perpetrato nell’omicidio, nella pulizia etnica, nell’inquinamento, nell’affannosa ricerca al benessere sfrenato, non ha colore o ideologia: è odio!
    L’amore è il contrario dell’odio.  Ma questo decantato amore è latente perché siamo peccatori, perché siamo sordi e non sappiamo più ascoltare col cuore, perché siamo pronti a giudicare e non sappiamo perdonare, perché ci professiamo  sempre innocenti e non conosciamo più vergogna, perché siamo i primi a scagliare le pietre pur sapendo di essere complici e colpevoli: complici dell’omertà del silenzio e colpevoli o correi di omissione alla verità.
    Perché non arrossiamo alla vergogne nostre e degli altri rendendoci  complici di fronte a quell’odio che è peccato? Che cos’è il peccato? E l’espiazione al peccato che cos’è? Siamo ancora credenti? La vita, la nostra, è odio o è amore?

    Foibe e infoibati
    di Ottaviano De Biase

    In occasione dell’istituzione nel febbraio 2004 della “Giornata del Ricordo” delle foibe e dell’esodo abbiamo assistito a tutta una serie di dichiarazioni, trasmissioni televisive e radiofoniche, interventi da parte dei media e dibattiti politici, tutte con l’intento di fare piena luce su un problema politicamente ignorato per troppi lunghissimi anni. Analogo discorso andrebbe fatto sul reale numero delle vittime. Sempre nel 2004, l’On. Fassino parlava di 2000 infoibati, viceversa l’allora Ministro dell’Informazione On. Gasparre riteneva che le vittime fossero addirittura milioni. Ricordiamo anche che già nella primavera del 2002 il Presidente Ciampi andò a Trieste per sostenere che le foibe furono un esempio di “pulizia etnica”, focalizzate a cancellare la presenza italiana in Istria, in Dalmazia e in tutta quell’area oggi chiamata Venezia Giulia.
    Ma come stanno oggi le cose? Non bene. La recente visita nel Friuli (Udine, Aviano, Monfalcone, Gorizia: città ove ho presentato il mio ultimo romanzo “Notti di veglia in guerra fredda”) mi ha dato la possibilità di confrontarmi con studiosi locali sullo scottante tema della pulizia etnica, attuata dall’esercito italiano, durante l’occupazione della Slovenia, della Dalmazia, e dell’Istria.
    Lo studioso Giacomo Scotti lo spiega parlando di interi paesi rasi al suolo, di 11606 internati civili sloveni e croati morti nei lager italiani tra il 1941 ed il 1943 che, secondo le direttive emanate dall’allora generale Gastone Gambara, sarebbero stati lasciati morire d’inedia e malattie varie. Seguì poi l’8 settembre 1943. Seguì cioè l’occupazione della Venezia Giulia, nonché parte del Friuli e la provincia di Camaro (Fiume), da parte dell’esercito germanico con l’annessione al Reich col nome di Adriatisches Kustenland (Litorale Adriatico). Sul versante opposto abbiamo i partigiani di Tito ed i primi scontri tra civili ed esercito invasore.
    Antun Giron, partigiano nonché storico di Fiume, nel 1945, a distanza di due anni dal suo ritorno da un campo di concentramento nel Friuli, ebbe a scrivere: All’inizio a nessun italiano è stato fatto nulla di male. I partigiani avevano diramato l’ordine che non doveva essere fatto del male a nessuno. Ma qualche giorno dopo lo scoppio della rivolta popolare, alcuni corrieri a bordo di motociclette sidecar hanno portato la notizia che i fascisti di Albona avevano chiamato e fatto venire da Pola i tedeschi in loro aiuto e questi avevano aperto il fuoco contro i partigiani. Poco dopo si è saputo che i tedeschi erano stati chiamati in aiuto anche dai fascisti di Canfanaro, Sanvincenti e Parendo, fornendogli informazioni sui partigiani (…) Pertanto partigiani e contadini hanno cominciato ad arrestare ed imprigionare i fascisti (…) i partigiano decisero di fucilarne solo alcuni, i peggiori. Purtroppo quando, alcuni giorni più tardi, cominciarono ad avanzare i reparti germanici, i partigiani vennero a trovarsi nell’impaccio, non sapendo dove trasferire i prigionieri fascisti per non farli cadere nelle mani dei tedeschi. In questo imbarazzo hanno deciso di ammazzarli. Ne hanno uccisi circa 200 gettando i corpi nelle foibe.
    Questa di Scotti, anche se di parte in quanto partigiano di Tito, è la prima vera, diretta tragica testimonianza. Particolarmente gravi ci sono sembrate le dichiarazioni fatte a suo tempo dal segretario del PCI Fausto Bertinotti che, in assenza di una reale conoscenza storica della materia, ebbe a dichiarare, riprendendo le tesi di due noti storici, anch’essi dichiarati comunisti, Pupo e Spazzali, che bisognava condannare il modo di fare informazione, ritenendolo, nei riguardi della verità storica, nocivo in particolar modo sotto l’aspetto politico. La realtà è che a partire dal 1945 la sinistra sapeva e tacque!

    La pulizia etnica jugoslava del 1945
    A tacere lo furono un poco tutti. Sul versante opposto, infatti, abbiamo la seguente situazione. Dopo la battaglia di Basovizza del 30 aprile 1945, la gente del posto gettò in una foiba detta “Pozzo della Miniera” un imprecisato numero di soldati italiani e civili. Il 1 maggio 1945 a Trieste e a Gorizia si insediò il potere popolare controllato dall’Esercito di Liberazione Jugoslavo, seguirono 40 giorni di inauditi massacri e vendette personali e retroattive.

    Molti dei militari arrestati nelle zone occupate di Trieste e Gorizia furono internati nei campi di lavoro di Borovnica, a qualche chilometro da Lubiana. In quello stesso campo furono pure internati i bersaglieri del battaglione “Mussolini”, catturati nella zona di Tolmino, e alcuni corpi appartenenti alla Guardia di Finanza, Polizia di Stato, Carabinieri, militari della X.ma Mas, ed altri. Circa 4500. Alcuni di loro, una volta riconosciuti essere gli esecutori dei vari rastrellamenti effettuati dal 1941 al 1943, furono immediatamente fucilati. In gran numero furono lasciati morire di tifo e di stenti.

    Testimonianze di prima mano
    Le foibe esplorate e censite sarebbero più di 60. La voragine nota come Foiba di Basovizza è in realtà il pozzo di una vecchia miniera abbandonata. Sui cui massacri, avvenuti tra il 2 e il 5 maggio 1945, vi è una nota del successivo 14 giugno del Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste, inviato alle autorità angloamericane appena insediatisi. Si legge in questa nota: Nelle giornate del 2-3-4- e 5 maggio numerose centinaia di cittadini vennero trasportate al cosiddetto POZZO DELLA MINIERA, in località presso BASOVIZZA, e fatti precipitare nell’abisso profondo circa 240 mt. Su questi disgraziati vennero in seguito lanciate le salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti e le carogne putrefatte di alcuni cavalli.
    Il 29 giugno, apparve su Risorgimento Liberale la seguente notizia: Grande e penosa impressione ha destato in tutta l’America la notizia, proveniente da Basovizza presso Trieste, circa il massacro di oltre 400 persone da parte dei partigiani di Tito.
    Scrive, al riguardo, don Flaminio Rocchi, nel suo libro di memorie: L’esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati, del 1971. Dal primo maggio al 15 giugno 1945 sono state gettate in questa voragine 2.500 tra civili, carabinieri, finanzieri e militari italiani, tedeschi e neozelandesi…”, a riprova che non tutta la verità era stata fatta emergere. Molte vittime,continua don Rocchi, erano prima spogliate e seviziate. E’ da notare che tra le vittime risultano moltissime donne e bambini. A volte intere famiglie, come il caso della postina di Sant’Antonio in Bosco, Pettirossi Andreina, che venne precipitata nella foiba insieme al marito ed alla figlioletta di due anni…
    Ma c’è anche chi da quelle viscere riuscì ad uscirne vivo. Racconterà Giovanni Radeticchio, sopravvissuto di Sirano. “…mi appesero un grosso masso, del peso di circa 10 kg, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Udovisi, già sceso nella foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell’acqua della foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l’ultima vittima gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più. Sono uscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella foiba per un paio di ore. Poi col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba…
    Molte sono le testimonianze che ci consentono di capire le reali difficoltà di quei giorni terribili. Claudia Cernigoi in “Operazione foibe” racconta tra l’altro di Giuseppe Cernecca, che, di ritorno da un viaggio a Trieste, fu arrestato da tre slavi mentre stava cenando in una osteria di Cittanova. Fu portato al comando, interrogato, bastonato, senza alcun valido motivo. Seguì il trasferimento a Cimino, sede del quartiere generale del temutissimo braccio destro di Tito, tal Ivan Motika, e da questi fu condannato a morte. In una cella accanto alla sua ritrovò la sorella con quattro suoi ragazzi: riuscì a trattenersi solo poche ore… Il mattino seguente fu lapidato e gettato in una fossa comune…
    In ordine al pietoso recupero delle salme nelle zone della Venezia Giulia rimasta all’Italia, anche in relazione del fatto che due tra le più grandi foibe: quella di Basovizza e di Monrupino, contenenti migliaia di cadaveri, furono rozzamente tappate con un solaio di cemento. L’allora Ministro della Difesa, On. Giulio Andreotti, incalzato dalla stampa nazionale ed estera, sull’argomento si espresse in questi termini: La chiusura è del tutto provvisoria. Essa è costituita da lastre di cemento poggiate su travi di ferro e munite di anelloni per il loro sollevamento. La chiusura non preclude quindi la possibilità del recupero delle salme giacenti nel fondo del pozzo, recupero che sarà effettuato quando sarà possibile superare le molteplici e serie difficoltà di ordine igienico e di sicurezza. Un decreto del Presidente della Repubblica, Luigi Scalfaro, datato 11 settembre 1992, dichiarò la foiba di Basovizza monumento nazionale.
    Altra foiba tristemente nota è quella di Plutone. Altra voragine che si apre sul Carso triestino, sulla strada che porta a Gropada. Segue la grotta di Sath, che si trova a circa 500 metri da Basovizza, sempre sul Carso, lungo la strada per il paese di Jezero. Anche in questa grotta furono scoperti un gran numero di corpi marcescenti di soldati italiani e civili. Anche qui, pur di nascondere ogni traccia, i partigiani di Tito vi gettarono esplosivo e nitroglicerina. Tra queste poche citazioni meriterebbero il giusto spazio quelle di tante altre persone scomparse o uccise a Trieste ed a Gorizia nel periodo dei tragici 40 giorni di amministrazione jugoslava o perché arrestate in base a denunce di privati cittadini, ritenutisi vittime del precedente governo fascista.

    I processi
    Quello di Trieste, il più importante, si aprì il 3 gennaio 1948. In seguito furono istituiti decine di altri processi tutti per foibe. Tra questi vi è quello altrettanto triste di San Sabba che andò in aula solo nel 1976. Molti conobbero il carcere; altri, per aver fatto perdere ogni traccia, furono condannati in contumacia. L’amnistia, concessa dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, pose la parola fine .

    Una polemica infinita
    L’uscente  Presidente della Repubblica, Napolitano, ha di recente accusato un poco tutti di aver tenuto nascosta la verità alla Nazione; tale presa di posizione, per quanto si è potuto leggere sulla stampa, sembra sia stata mal digerita dal protempore collega croato, Mesic. Come è possibile? A Gorizia ho avuto il piacere di discorrere con il Generale di Brigata, Sabatino Aufiero, mio conterraneo, il quale, riguardo l’aspetto foibe, mi confermava che tutto quanto ha avuto origine nel 1943 quando – ormai era chiaro a tutti che la guerra era persa – Tito, avuto l’appoggio di Togliatti, fece pressione per annettersi tutta la Venezia Giulia; al seguito poi della rottura con Mosca, l’allora segretario del PCI italiano scelse apertamente di stare al fianco di Stalin, non solo inimicandosi Tito quanto impedendo a tanti nostri soldati prigionieri in Russia, e a tutti quei comunisti italiani che erano andati in Jugoslavia a lavorare per una causa che credevano giusta, per favorire la ripresa economica in particolar modo di Pola e di Fiume, di fare rientro in patria. Altra chiave di lettura che spiega la vendetta cieca degli Slavi, tesa a colpire tutto quello che era italiano, anche per creare, come del resto abbiamo visto nell’ultimo conflitto balcanico, un regime di stragi e di terrore mirato a far migrare, come poi è successo, intere popolazioni.

    Una lezione di vita
    Molti sono gli intellettuali che hanno preso le distanze dai politici di sinistra e di destra del tempo. I primi, come sappiamo, avevano cercato di imbavagliare una realtà per molti scomoda, mentre i secondi avevano cercato in tutti i modi di ingigantirla. Tuttavia la strada che ci porta dritto verso la verità è tuttora in salita in quanto troppi lati oscuri sono circonfusi da una palpabile ipocrisia. Questo spiega il clima sospettoso delle varie etnie presenti in quell’area. La stessa Legge dello Stato che ha riconosciuto il 10 febbraio come il Giorno della Memoria, non è che il primo passo verso il definitivo riconoscimento di responsabilità di una politica sbagliata in quanto priva di ogni fondamento storico ed umano.

    Una lezione che vale per tutti. Quando l’umanità si lascia trascinare dalla febbre del potere, dalla voglia di primeggiare e di prevaricare sull’altro, quando ci si lascia andare alla violenza cieca, si finisce sempre per generare altra violenza. Un continuo per dire che chi crede di doversi difendere con la violenza, altra violenza si deve pure aspettare. Chiudo col prendere in prestito un pensiero di Brecht, che recita più o meno così: “…impari l’uomo; però, prima impari ad essere di aiuto all’uomo”.

    Foibe, per non dimenticare
    di Lidia Bellavia

    Lidia Bellavia per www.lavocedelmarinaio.comFino a pochi anni fa, quando si parlava di Foibe in Italia valeva quanto riportato in un celebre e diffuso dizionario della nostra amata lingua, che semplicemente usava la definizione di  “dolina carsica”. Nulla che potesse richiamare una verità terribile e scomoda per la storiografia ufficiale, ovvero quegli eccidi compiuti dalle truppe titine a danno della popolazione italiana particolarmente tra il 1943 e il 1947, anche molto dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Barbarie tanto più odiosa, perché compiuta contro degli inermi, donne e bambini, anziani, colpevoli solo di essere italiani, in un clima di odio diffuso che prendeva rapidamente i contorni di una vera e propria pulizia etnica.
    Il dolore dei profughi, negli anni seguenti, è stato se possibile reso ancora più forte dal silenzio calato sull’intera vicenda, e chi è sopravvissuto ha dovuto anche sopportare, oltre alla perdita dei propri cari e ad atrocità di ogni genere, l’umiliazione di sentirsi straniero in Patria, testimone scomodo di una realtà che si voleva a tutti i costi rimuovere e dimenticare.
    “A pagare sono stati e sono sempre gli innocenti”
    L’uomo continua la sua strage degli innocenti,  ammassandoli come rifiuti senza una degna sepoltura, ne una Prece, ne un ricordo…


    Abdon Pamich, il fiumano che correva più forte di tutti

    di Andrea Arena

    Con quel nome un po’ così e quelle due medaglie olimpiche sul caminetto verrebbe da pensare ad uno sciatore altoatesino. O a un bobbista. O a qualche altro sangue misto naturalizzato in fretta e furia per assicurare qualche medaglia in più alla vecchia italietta. Invece Abdon era più azzurro dell’azzurro del cielo, dentro si sentiva italiano, ed era nato in terra italiana, quando Rijeka si chiamava ancora Fiume e il tricolore sventolava sull’Istria.

    Ma poi ci fu la guerra, e dopo arrivarono i cattivi, e ai cattivi gli italiani non piacevano. Li facevano sparire nelle foibe, quando andava male, e quando andava bene invece li torturavano e basta. E allora il fratellone di Abdon decise che era meglio scappare dalla furia jugoslava, e di andare in Italia, dentro i confini di quella Patria che s’era spostata di qualche centinaio di chilometri a causa di patti scellerati e bottini di guerra. Scapparono, allora, due ragazzini a piedi per giorni e giorni, e chilometri e chilometri. Profughi, poveri, soli. Al freddo e alla fame nei centri per gli sfollati.
    Così crebbe Abdon, e si fece la scorza dura. E vent’anni dopo, a Tokyo ’64, quella pellaccia gli servì per andare più forte di tutti e regalare la medaglia d’oro nella marcia alla sua Patria, alla sua Italia.

    Io Francesco Ruggieri, emigrante di poppa e profugo istriano
    di Francesco Ruggieri e Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    Ciao Ezio,
    grazie per le foto ricordo complimenti, condivido il tuo operato su internet, W la Marina Militare Italiana orgoglioso di aver servito con onore come il Marinaio Fumarola di cui io ti ho già scritto tempo fa e il tuo sito mi ha dato le dritte nella ricerca storica.

    Hai ragione da vendere quando affermi “Marinai per sempre”.
    Io ero profugo a Fiume (Croazia ex Istria ), avevo 5 anni nel ’43. Questa foto l’ho avuta in eredità da mia madre Fumarola Isabella sorella del defunto. Nei miei ricordi, nella mia mente lo chiamavano Angelo, ma il vero nome è Paolo come l’Apostolo perciò il discorso fila … (*)

    Caro Ezio ti ringrazio anche perché io vivo a Milano, come emigrante di poppa, i miei parenti sono di Martina Franca.
    Ho letto il tuo libro e me lo sto divorando ancora una volta. Anch’io ho passato la guerra, i titini, l’Istria, le foibe di Fiume, proprio come il tuo papà Giorgio.
    E poi quei sapori dei dolci plumachelle che ti faceva la zia Sara, e il bottegaio che vi voleva fare u “culu russu”, la tua Sicilia la hai nel cuore…
    Ti chiamavano “u canterinu catanese”, lo sto rileggendo mentre mi imbarco per la Sardegna per doveri di famiglia (mia moglie è sarda).
    Sei veloce come un proiettile cal.6,5/ 91.
    Grazie a Dio di averti conosciuto solo mi devi scusare se sbaglio perché ho fatto le scuole Italo-Croate perché eravamo profughi giuliani. Mio padre era militare aggregato all’11° Reggimento Bersaglieri di Gradisca, poi ti racconterò la mia odissea: scappai dal campo profughi per venire in Italia ma al confine di Sezana i titini mi arrestarono. Avevo 12 anni eravamo nel 1950, poi se non ti stanco ti racconterò.
    Certo che per un meridionale come me aver fatto il profugo giuliano…
    Ciao Ezio, ti sono riconoscente a risentirci.

    Ciao Francesco,
    come ogni anni, ho deciso di pubblicare la tua mail il 10 febbraio… scusa per il ritardo ma sono certo di essere compreso e perdonato.
    La tua storia “giuliana”, le sensazioni di un marinaio di “confine come me” che ha provato col linguaggio del cuore il vero senso di “Emigrante di poppa”, si assomigliano.
    Quando scrivevo il libro, sotto la Sua dettatura, pensavo che gli emigranti di poppa siamo noi marinai reali e virtuali … soprattutto quelli di confine o confinati.
    Caro Francesco, io ti esorto a scrivere un libro autobiografico che può far comprendere, qualora ce ne fosse ancora di bisogno, di che cosa è capace la belva umana.
    Abbiamo parecchi amici istriani che non hanno dimenticato cosa è accaduto a loro e ai loro parenti… abbiamo il dovere “Sacrosanto” di raccontarlo a figli e nipoti.

    (*) https://www.lavocedelmarinaio.com/2014/08/angelo-fumarola-marinaio-a-tripoli/

    Giovanni Battista Acanfora, Capitano della Finanza
    di Antonio Cimmino 

    Istria (Domenico Leggiero)
    di Andy Holyred segnalato da Domenico Leggiero (*)

    L’Istria è un triangolo rovesciato di 4.956 chilometri quadrati. La base di 67 chilometri è attaccata alle radici del Carso triestino. A nord e a est è difesa dalla bianca cerniera delle Alpi Giulie e dalle creste dei monti Tricorno, Nevoso e Maggiore. Si allunga per 48 chilometri, si restringe fino ad immergere il vertice nel Quarnero.
    E’ fasciata da una costa di 500 chilometri, frastagliata da porticciuoli confidenziali e da baie sabbiose a mezza luna, circondate da rocce fantasiose che catturano e difendono il tepore.
    A sentinella delle cittadine costiere, ingioiellate di logge, di bifore e di campanili veneziani, ci sono molte piccole isole che nelle pinete nascondono ville e monasteri.
    Verso Fiume d’Italia, l’Istria si apre con un ventaglio di piante esotiche. In certi tratti, sotto il mare, sgorgano numerose polle d’acqua tiepida a 10 gradi.

    La legge agraria “Julia” del 49 d.C. aveva assegnato molti terreni costieri ai fanti, ai centurioni, ai cavalieri romani, ai veterani delle guerre di Augusto.
    I geografi hanno scelto la parola Carso per indicare un altipiano di petraia corrosa, che si presenta come tante schiene taglienti di antichi dinosauri pietrificati.
    Durante e alla fine dell’ultima Guerra Mondiale, i soldati si sono inseguiti rabbiosamente. Dodici mila, vivi e morti, sono stati buttati, come rifiuti nelle voragini. Centinaia di profughi, braccati dalle mitragliatrici, si sono mimetizzati con le pietre e i cespugli. Molti sono rimasti appesi al filo spinato. Lìalito freddo e violento della bora, l’odio e l’eroismo degli uomini hanno graffiato, inciso storie sfolgoranti di colori e di tragedie, di preghiere e di maledizioni. Poeti come Benco, Svevo e Slataper hanno celebrato l’Istria come un altare sacro e maledetto sotto un velo di fiori e di ricordi.
    L’Istria ha costituito durante la storia una frontiera difficile e tormentata tra la civiltà latino-veneziana e quella slava. Il nome Istria deriva da “Histrum”, un affluente del Danubio che scorreva attraverso la penisola. Agli albori della Storia era popolata da veneti del nord, da liburni lungo la costa, da istri del sud.
    Ai tempi dell’ impero romano e per secoli, l’Istria visse nella “Pax Romana”. Fondata Aquileia (Forum Julii), i romani inviarono in Istria 15 mila coloni e fondarono le colonie di Trieste (Tergeste) e di Pola(Pietas Julia) dal nome della figlia di Augusto), i municipi di Parenzo (Parentium), i “Vici”, cioè i villaggi di Fasana (Fasanum) e di Nesazio (Nesathium), di Orsera (Ursaria), di Rovigno (Rubinium), di Umago (Humagum). La grande via Flavia collegava Trieste, Pola, Fiume (Tarsaticum). Nel 27 d.C. Augusto concesse loro la cittadinanza romana. Il 13 gennaio dello stesso anno il Senato divise l’Italia in undici Regioni e creò la “Decima Regio Venetia et Histria” che si estendeva dall’Oglio al’ Arsa e dalle Alpi al Po. Comprendeva 51 mila chilometri quadrati.
    Un’ iscrizione augustea dice: “Haec Est Italia Diis Sacra” : questa è l’Italia sacra agli dei (si parla già di Italia non solo di Roma).
    La provincia diede a Roma guerrieri, tribuni, consoli, senatori e ammiragli e Roma lasciò le nobilissime orme della sua arte.
    Tutti conoscono ciò che accadde nel prosieguo della Storia, con l’avvento dell’Impero d’Oriente. Gli slavi avevano tentato invano di insediarsi in Istria nel 599 a seguito degli Avari, nel 602 a seguito dei Longobardi e nel 611 da soli. In piccolo gruppi apparvero nei secoli IX e X ma, come scrisse il Douroselle essi avevano “il carattere di incursioni e pirateria”. Egli aggiunge: “La lotta per la conquista della regione giuliana si riassunse storicamente tra romani e germani e, più tardi, tra italiani e austriaci. Ciò mette in luce uno dei fatti fondamentali di questa storia: mai, o quasi, gli slavi del sud, croati o sloveni, hanno preso parte direttamente in questo conflitto di sovranità e ciò è vero sino al 1918. Il regno croato ha potuto soltanto sfiorare la regione giuliana nei secoli X e XI”.
    Il leone alato è stato il simbolo della presenza veneziana. Il primo apparve nel 1250 su una vecchia torre dell’isola di Veglia. Da allora lo troviamo sulla facciata delle chiese, dei comuni, sulle porte d’ingresso, sulle vere dei pozzi, con il vangelo chiuso, simbolo di guerra, o con il vangelo aperto, simbolo di pace. Quasi sempre con la scritta: “Pax tibi Marce, Evangelista meus”.

    Per tornare ai tempi nostri non si può far a meno di evidenziare che durante la dominazione austriaca delle terre istriane e dalmate non si verificarono esodi di massa come poi avvenne con Tito. Nel 1945-47, il 90% degli italiani prese la via dell’esilio Durante la prima Guerra Mondiale ben 2.107 giuliani, dei quali 1.030 ufficiali passarono clandestinamente la frontiera e si arruolarono nell’esercito italiano, rischiando la forca. Uno spirito di italianità che trovò conferma nel primato dei caduti giuliani nel corso dell’ultima Guerra con 25.000 morti su un totale di 444.523. La Venezia Giulia ebbe 30 caduti ogni mille abitanti. La seguì il Friuli con 16 morti ogni mille. La Venezia Giulia con Trieste ha avuto 26 medaglie d’oro al Valor Militare.
    Il ministro Sforza, nel secondo dopo guerra, dichiarò in parlamento che dal 1928 al 1938 l’Italia aveva investito 430 milioni di dollari per spese speciali nella Venezia Giulia: In particolare vennero costruite 450 chilometri di strade e se ne sistemarono altri 4.034. Si costruirono 200 chilometri di ferrovia, 4 ponti, 1.065 case, 363 edifici pubblici, l’acquedotto istriano lungo 260 chilometri, 5 dighe marittime e altre portuali, 1.800 chilometri di elettrodotti, 6 centrali elettriche, 996 opere di bonifica, 14 compressori, il porto franco di Fiume e di Zara, il villaggio dell’Arsa per 6.000 minatori e potenziò la raffineria di Fiume.
    L’Italia dal punto di vista della civiltà e della cultura è la somma e la reciproca influenza fra le tradizioni, le culture, le civiltà delle sue molteplici e così varie regioni, delle sue “cento città”. Tessere insostituibili e indimenticabili sono anche quelle portate dall’Istria e dalla Dalmazia.
    L’Istria e la Dalmazia sono un immenso scrigno che custodisce l’essenza della nostra civiltà italiana: i castellieri degli antichi illirici, le pietre romane, i mosaici di Bisanzio, gli affreschi paleocristiani, le calli e i campielli veneziani etc.
    Il 16 aprile 1941 l’Italia dichiara guerra alla Jugoslavia e dopo 5 giorni le truppe italiane entrano a Lubiana ed occupano tutta la Dalmazia. Dopo soli 11 giorni la Jugoslavia capitola e chiede l’armistizio. l’Italia istituisce il Regno di Croazia e il Governatorato della Dalmazia. l’8 settembre 1943 l’Italia chiede l’armistizio agli alleati. I partigiani slavi dilagano disordinatamente nella Venezia Giulia. Trieste, Pola e Fiume rimangono, comunque, in mano ai tedeschi. Questa prima occupazione slava dura 35 giorni. Infatti, i tedeschi, appoggiati da “gruppi spontanei” italiani riprendono il dominio del territorio giuliano. Il 13 ottobre , gli ultimi gruppi slavi vengono rigettati oltre il vecchio confine e i tedeschi si inventano a Trieste l “Operationszone Adriatisches Kustenland ” (Zona di Operazioni del Litorale Adriatico) sotto il comando di un “Oberster Kommisar” (Supremo Commissario).
    Una seconda occupazione avviene dal 1° maggio al 15 giugno del 1945 e interessa tutta la Venezia Giulia, da Gorizia a Zara.
    Quando alla fine di aprile i tedeschi si ritirano, gli slavi occupano tutta l’Istria, comprese Trieste, Gorizia, Pola e Fiume. Zara è già in mani slave dal 30 ottobre del 1944. Questa seconda occupazione, si diceva, dura 45 giorni. Nel periodo tra il 12 e il 15 giugno 1945 gli jugoslavi, per ordine alleato, abbandonano i centri urbani di Gorizia, Trieste e Pola che passano alle dirette dipendenze dell’ AMG (Governo Militare Alleato). Tutto il rimanente territorio giuliano, comprese le città di Fiume e Zara, rimane definitivamente alla Jugoslavia.
    Una terza occupazione ha inizio il 15 settembre 1947. A seguito dell’entrata in vigore del trattato di pace gli alleati abbandonano la città di Pola che viene immediatamente occupata dagli slavi. In attesa della costituzione del Territorio Libero di Trieste, il Trattato di pace affida la Zona A (Trieste) all’amministrazione provvisoria alleata e la Zona B (Capodistria, Pirano, Umago, Buie, Cittanova) all’amministrazione Jugoslava. In base al “Memorandum” di Londra del 5 ottobre 1954 gli alleati si ritirano da Trieste che viene restituita alla Madre Patria, mentre la Jugoslavia continua ad amministrare “provvisoriamente” la Zona B. fino a quando, nel 1975, il governo italiano cede anche la Zona B.
    Le tre occupazioni si inquadrano in un groviglio di violenze belliche e politiche che trasformano la penisola istriana in un teatro di disumane guerriglie nelle quali si scontrano contemporaneamente sei fazioni armate. Qui, infatti, la guerra durerà più a lungo che nel resto dell’Italia. La Venezia Giulia registrerà il maggior numero di morti.
    A seguito del tradimento italiano dell’8 settembre 1943, i tedeschi entrano in Udine e Trieste dove, un reggimento di 500 soldati obbliga alla resa un Corpo d’Armata italiano. l’11 entrano a Pola e il 13 a Fiume.
    E il via ad una serie di atrocità ed atti di terrore perpetrati dalle diverse forze in campo.
    Circa 2.000 giuliano dalmati, inquadrati in 5 reggimenti della Milizia Difesa Territoriale, nei battaglioni “Zara” e “Rismondo”, nel battaglione bersaglieri volontari “Mussolini” e nella Decima Flottiglia MAS, combattono per la difesa ad oltranza dell’italianità della loro terra. In difesa dell’italianità dell’Istria lottano contro i comunisti slavi anche i volontari giuliani del 2° reggimento M.D.T. “Istria” al comando di Libero Sauro, figlio di Nazario, ed i partigiani giuliani al comando di Dino Leonardo Benussi.
    Una feroce guerra che culmina con l’esodo di 350.000 italiani.

    Con la tragedia giuliana compare un nuovo nome nel dizionario criminale “foiba” e il verbo “infoibare”. Le foibe sono voragini rocciose, create dall’erosione violenta di molti corsi d’acqua. Raggiungono i 200 metri di profondità e si perdono in tanti cunicoli nelle viscere della terra. Le pareti, viscide, nere, tormentate da sporgenze e da caverne, terminano su un fondo di melma e detriti. Le truppe slave, incattivite dall’attacco di quelle italiane che erano arrivate fino a Lubiana, provocate dagli incendi e rappresaglie italo – tedesche, logorate e incarognite dalla fame, dilagano sull’Istria con una terribile sete di vendetta. Un giornale slavo, il “Gorsk List”, scrive in data 16 agosto 1944: “irroreremo queste terre con il nostro sangue, ma porteremo i confini all’Isonzo”. I partigiani di Tito videro nella popolazione giuliana, non solo il nemico etnico secolare, ma anche i rappresentanti di un altro stato sociale, dello stato dei possidenti che venivano liquidati o radicalmente espropriati. Ora si conosce molto dell’orrore delle foibe ma non si deve dimenticare che Trieste e l’Istria hanno pagato un prezzo disumano durante l’occupazione tedesca e l’abbandono agli slavi dopo l’8 settembre del 1943. Migliaia di nostri connazionali sono stati gettati nelle foibe dai titini con un colpo alla nuca a talvolta precipitandoli senza neppure quello. Un cumulo di rancori e odi, di vendette e rappresaglie su “fascisti” che nella maggior parte dei casi erano soltanto italiani, ai quali far finalmente pagare la colpa della loro nazionalità. Molti giovani della Repubblica Sociale Italiana si sono sacrificati per difendere fino all’ultimo l’italianità delle terre di confine, ma inutilmente.
    Dobbiamo avere ancora la forza di inorridire per questo nostro olocausto, per i delitti di cui si macchiarono senza giustificato motivo i partigiani slavi: è vero che torturavano: è vero che fucilavano senza ragione. Il supplizio di legare i prigionieri per le braccia ai pali e tenerli così sospesi per molte ore era una normalità. Le grida di dolore facevano impazzire gli altri italiani prigionieri, costretti ad assistere ai supplizi.
    Non parleremo di cifre, ben altri autorevoli testimoni lo hanno fatto, ma ricordiamo, per tutti, Norma Cossetto.
    Norma era una splendida ragazza di 24 anni di S:Domenica di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l’Università di Padova. In quel periodo era solita girare in bicicletta per i Comuni dell’Istria allo scopo di preparare materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo “L’Istria rossa”(terra rossa per la bauxite).
    Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono anche nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone.
    Il giorno successivo prelevarono Norma: Venne condotta prima nella ex caserma della Finanza di Visignano assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici. Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte, con un camion, nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio; fissata ad un tavolo con alcune corde, è stata violentata da 17 aguzzini, ubriachi ed esaltati e quindi gettata, nuda, nella foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri di italiani d’Istria. Una signora di Antignana, che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì , distintamente, invocare la mamma e chiedere pietà.
    Suo padre era conosciuto e stimato per aver dedicato la sua vita allo sviluppo di quei paesi. Proprietario terriero, era stato podestà per tanti anni, commissario governativo della Case Rurali per la Provincia: Aveva dato impulso alla banda musicale ed aveva aiutato molti poveri della zona. Si trovava in quei giorni a Trieste: Informato dell’arresto della figlia, ma ignorandone la fine, si precipitò a S.Domenica con un parente invalido di guerra, Mario Bellini, giovane tenente, sposato da neppure un anno e con la moglie in attesa di un figlio. All’ ingresso del paese i partigiani lo rassicurarono che gli avrebbero consegnato la figlia. Verso sera lo trascinarono in un agguato: una mitragliata. Il Bellini rimase ucciso mentre il Cossetto rimase ferito. Si avvicinò allora un partigiano a dargli l’ultima coltellata. Si venne a sapere che proprio questo criminale,alcuni mesi prima, era stato salvato da sicura morte proprio dal Cossetto, il quale, essendo l’unico in zona a possedere un’automobile, lo aveva trasportato d’urgenza, di notte, all’ospedale di Pola. Le due vittime furono poi, a loro volta, gettate in foiba e ritrovate in seguito dal leggendario maresciallo dei pompieri Harzarich come anche le spoglie martoriate di Norma.
    L’Università di Padova, subito dopo la guerra, concesse a Norma la laurea Honoris Causa.

    Non è possibile giustificare tutto questo male fatto alla povera gente giuliana con l’attenuante di un comportamento feroce da parte dei militari italiani durante l’occupazione della Jugoslavia. Quando si è continuamente attaccati e uccisi da partigiani sanguinari è ovvio che i rastrellamenti e la “caccia ai banditi” non vengono portati avanti dai boy scouts, ma da soldati e comunque non certo dei sterminatori.
    Crediamo si sia semplicemente trattato di un odio atavico contro gli italiani ” padri, signori e artisti ” della “Decima Regio Venetia et Histria”.

    (*) Sito Web: http://www.osservatoriomilitare.it

    10 febbraio Foibe: “sono Italiano e devono morire”
    di Marino Miccoli

    Ogni 10 febbraio, ci ricordiamo di quelle vittime barbaramente trucidate sul finire della II guerra mondiale (…e purtroppo anche dopo il termine del conflitto) in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia per motivi politici ed etnici, ovvero anche per il solo fatto di essere Italiani.
    Sì, avete letto bene: uccisi perché erano Italiani.
    Considerati tutti fascisti, dal primo all’ultimo, furono giustiziati perché ritenuti oppositori del regime del dittatore Tito vittime del suo disegno che voleva l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. Tra le vittime ci furono diversi antifascisti, membri del Comitato di Liberazione Nazionale, che avevano combattuto per la Resistenza al fianco di quelli che sarebbero poi divenuti i loro assassini.
    La pianificazione dell’eccidio da parte delle Milizie Popolari Iugoslave prevedeva che gli Italiani fossero legati due alla volta, avessero i piedi e i polsi legati con del filo di ferro per poi essere condotti sull’orlo della voragine (la “foiba” appunto). Ad uno dei due italiani veniva sparato un colpo alla nuca così che il primo trascinava con sé, cadendo sul fondo dell’inghiottitoio, anche l’altro. Migliaia furono gli Italiani trucidati con questo “rituale” tragico e barbarico molti dei quali anche a guerra finita!
    Per quei pochi fortunati sopravvissuti ci fu lo sradicamento forzato e l’esilio, l’allontanamento definitivo dalle loro case, dalle loro città e da quelle terre su cui da tempi assai remoti sventolava il vessillo della Serenissima Repubblica di Venezia. Luoghi bellissimi dove il Leone di San Marco è scolpito sulle facciate di Chiese e di antichi palazzi.

    A seguito dell’occupazione slava si stima in 300.000 (trecentomila) il numero degli esuli Italiani di Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia.
    Oggi, dopo oltre 60 anni, il riconoscimento storico e l’istituzione della Giornata del ricordo ci deve far riflettere, e non poco, sull’assurda follia costituita dalla guerra e sui suoi frutti che per l’umanità sono sempre amarissimi e funesti.

    Di seguito si riporta uno stralcio della legge che venti anni fa istituì il riconoscimento di questa triste pagina di storia.

    Legge 30 marzo 2004, n. 92: Istituzione del «Giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2004).

    Art. 1. La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. […]

    La profuga Polese
    di Salvatore Contreras
    Caro Ezio,
    ricordo che negli anni ’50 Gaeta ospitò diverse centinaia di profughi Istriani. Li chiamavamo, genericamente, i “Polesi”. Propongo per la giornata di oggi la lettura di questa bellissima e sentita poesia in dialetto gaetano scritta con grande e particolare sensibilità dall’Amico Salvatore Contreras, che ringrazio. Io ne ho curato la trascrizione in italiano.
    Tuo Carlo Di Nitto