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    27.3.1930, entra in servizio la regia nave Nicolò Zeno

    di Carlo Di Nitto

    Cacciatorpediniere dal 1938

    Il regio esploratore “Nicolò Zeno”, classe “Navigatori”, dislocava 2600 tonnellate a pieno carico. Costruito nei Cantieri Navali del Quarnaro di Fiume, fu impostato il 5 giugno 1927 e varato il 12 agosto 1928. Fu consegnato ed entrò in servizio nella Regia Marina il 27 marzo 1930. Il 5 settembre 1938 venne declassato a cacciatorpediniere e gli fu attribuita la sigla ZE.
    Subito dopo la consegna, venne sottoposto a grandi lavori di modifica delle sovrastrutture. Al termine rientrò in squadra iniziando la sua attività in Mediterraneo e partecipando a tutte le principali esercitazioni della flotta.
    Negli anni 1936 e 1937 partecipò attivamente alle operazioni della guerra civile spagnola.
    Declassato a cacciatorpediniere, fu dislocato nelle acque dell’Egeo.

    Nel gennaio 1940, entrò in arsenale a Taranto per grandi lavori di ammodernamento e modifiche allo scafo.
    Dopo l’inizio delle ostilità svolse servizi di squadra con compiti di scorta alla V e alla VIII divisione, partecipando alle fasi iniziali della Battaglia di Punta Stilo. In un secondo momento effettuò azioni di bombardamento contro le coste albanesi. Successivamente venne destinato in prevalenza al servizio di scorta ai convogli mercantili.
    Negli anni che seguirono effettuò 181 missioni su tutte le rotte del Mediterraneo centrale, dello Ionio e dell’Egeo percorrendo 57.856 miglia. Si caratterizzò nella difesa contraerea delle navi scortate, con l’abbattimento di numerosi aerei nemici. Il 18 dicembre 1941, durante un attacco aereo, dovette lamentare la perdita di due componenti dell’equipaggio. Si distinse anche nella caccia ai sommergibili, nel salvataggio di naufraghi, nella posa di mine e nel trasporto veloce di truppe.
    Il 28 febbraio 1943 durante una posa di mine, a seguito di una collisione con il gemello “Da Noli”, subì gravi danni e, il 15 marzo successivo, dovette trasferirsi a La Spezia per i lavori di ripristino.
    Alla proclamazione dell’armistizio era ancora impossibilitato a muoversi e, per impedirne la cattura da parte tedesca, venne autoaffondato in porto.
    Fu ufficialmente radiato dal quadro del Naviglio Militare il 27 febbraio 1947.
    Il suo motto fu: “Più oltre”.
    ONORE AI CADUTI!

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    Piroscafi di una volta e ‘mbracàta di omini e di fimmìni

    di Orazio Ferrara (*)

    Per tutto il Novecento fino agli anni Cinquanta le navi, che arrivavano a Pantelleria, dovevano necessariamente gettare l’ancora in rada e aspettare l’arrivo di una barca (poi motolancia, famosa quella dell’Agenzia Rizzo-Busetta) su cui trasbordare merci e passeggeri. Quest’ultimi scendevano sulla barca o motolancia tramite una scaletta volante, predisposta al momento lateralmente al fianco della nave. Si capisce che bastava un mare leggermente mosso per rendere il tutto difficoltoso e laborioso, oltreché estremamente pauroso per i malcapitati che non sapessero nuotare (problema che non si poneva affatto per i Panteschi).

    Invece nell’Ottocento i piroscafi, che si fermavano in rada a Pantelleria, erano del tutto sprovvisti di qualsivoglia scaletta volante, che, seppure malagevole, rappresentava pur sempre una comodità, soprattutto per i passeggeri di sesso femminile. Si ricorreva allora alla famigerata imbragata (in dialetto ‘mbracàta) per sbarcare o imbarcare i passeggeri. Operazione che dir pittoresca è dir poco.
    Nel linguaggio marinaresco e portuale l’imbragata era l’insieme di colli merci o persone o anche singolo animale, che si manovravano da bordo di una nave con un mezzo di sollevamento (il bigo di carico, una specie di gru) per sbarcarli o imbarcarli.
    Questa operazione richiedeva particolare esperienza e abilità per chi era addetto alle relative manovre volanti, in quanto un errore poteva far andare a sbattere l’imbragata di merci o peggio di passeggeri contro la fiancata della nave, con conseguenze disastrose che è facile immaginare.

    L’imbragata consisteva in un grosso sacco cilindrico di tela o di iuta molto resistente, a volte con un fondo di assi di legno, nel predetto sacco trovavano posto di norma quattro o cinque persone, poi tramite le funi del bigo di carico esso, allo sbarco, veniva calato lentamente sulla piccola imbarcazione affiancata alla nave. Logicamente si effettuava l’operazione inversa nel caso d’imbarco.
    Il rigido moralismo dei costumi di quel tempo non permetteva assolutamente che potessero essere presenti nel sacco dell’imbragata allo stesso momento uomini e donne frammischiati, in quanto durante le manovre il sacco tendeva a stringersi e i corpi venivano schiacciati l’uno contro l’altro. La cosa era stata risolta facendo carichi dello stesso sesso ovvero una ‘mbracàta di omini o una ‘mbracàta di fimmìni.
    Dell’arrivo di un piroscafo nella rada di Pantelleria sul finire dell’Ottocento (agosto 1896) abbiamo un resoconto di un inviato de L’Illustrazione Italiana. Il piroscafo è il “Principe Oddone”, proveniente da Marsala e prima ancora da Palermo. Purtroppo dell’imbragata non vi è cenno alcuno, sebbene sia stata sicuramente effettuata in quanto si parla di imbarco di emigranti e asinelli locali (assai richiesti per la loro resistenza in Tunisia). Comunque riportiamo il brano per la particolare atmosfera di un’epoca ormai andata.

    “Alle due e mezza (pomeridiane, ndr) vediamo appressarsi un’isola; il Principe Oddone getta finalmente l’ancora ed eccoci davanti alla Pantelleria, da dove ci giungono a bordo asinelli e pecore numerose, e dove la nostra ora di fermata in alto mare passa fugace nel modo più lieto, al parapetto del vapore, a vedere il tirar su e giù con una corda, dai viaggiatori e dalle eleganti viaggiatrici italiane e straniere che venivano in Tunisia, i canestri d’uva carnosa, splendida, dagli acini grossi come prune, uva di cui tutti noi – viaggiatori di prima e di seconda – si fece una vera scorpacciata!
    Alle tre e mezza il vapore toglie l’ancora – dopo aver caricato ivi altri emigranti ed asinelli famosi di Pantelleria – e dopo aver viaggiato, con un mare il più tranquillo, ancora altre dodici ore, alle due di notte il piroscafo s’arresta. Molti escono dalle cabine, salgono in coperta sotto un cielo splendidamente stellato. Ed in mezzo al silenzio della notte, lontano scorgiamo una miriade di fiammelle rifrangentisi nel mare calmo. Siamo davanti alla Goletta…”.

    (*) per conoscere gli altri suoi articoli digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome.

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    A proposito dei 18.000 prigionieri italiani in Australia

    di Mario DeLuca

    … riceviamo e pubblichiamo come testimonianza al seguente articolo:
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2013/02/quei-18-000-prigionieri-italiani-in-australia/

    Durante la seconda guerra mondiale, come nella grande guerra, civili di nazioni nemiche sono stati arrestati dietro il filo spinato, indipendentemente dell’età, dallo stato di salute o di politica. Molti emigranti italiani hanno sperimentato sulla propria pelle il risentimento del popolo australiano, anche chi era sfuggito dal fascismo e dalla guerra incombente in Europa.
    L’Italia monarchica aveva combattuto con gli inglesi durante la Grande Guerra, ma la dittatura fascista di Benito Mussolini e l’invasione dell’Abissinia a metà degli anni 1930 avevano creato alla Gran Bretagna e ad altre nazioni scomode relazioni politiche a causa anche dei forti interessi coloniali in Africa.
    Quando Mussolini dichiarò guerra alla Gran Bretagna e ai suoi alleati, il 10 giugno 1940, gli immigrati italiani in Australia divennero pedine politiche e furono considerati “stranieri nemici”.
    I successivi governi australiani hanno taciuto sulla questione del risarcimento di guerra a questi italiani civili che sono stati travolti dagli eventi.
    Il  tentativo di far riconoscere la sofferenza degli immigranti italiani in tempo di guerra per mano dei militari australiani fu perorato dal senatore liberale Giovanni Panizza che presentò la questione al governo Hawke nel 1990 ma con risultati insoddisfacenti.

    Si trattava comunque di un positivo passo per il riconosciuto dal parlamento del South Australian. Il passo successivo doveva essere il pieno riconoscimento del Parlamento federale.
    Purtroppo non si è andato oltre al “dispiaciuto riconoscimento” per i tanti  errori di giudizio e di violazioni dei diritti umani che hanno causato sofferenze incredibili per le famiglie emigrate in questa nazione che è cosa diversa dal riconoscimento limitato della xenofobia diffusa contro le famiglie italiane nel corso degli anni della guerra.
    La mia ricerca ha scoperto che anche dopo 70 anni, la questione non trova soluzione neanche per i militari prigionieri italiani che hanno vissuto quel periodo in internamento.
    Infatti le famiglie italiane internate in Australia durante la guerra non avevano accesso al sostegno del governo. L’Esercito della Salvezza ha offerto aiuti di emergenza per le famiglie indigenti, ma un certo numero di questi sono stati poi internati a Tatura.
    Le donne che sono state lasciate in libertà furono impiegate per la sopravvivenza nelle aziende agricole, nelle imprese o come sarte. Molti furono le famiglie che subirono saccheggiamenti e confische di beni materiali che successivamente vennero inutilizzabili.
    L’allora parlamento omise anche di citare i numerosi casi tristi di morti italiani durante l’internamento. In alcuni casi, gli internati hanno avuto accesso a cure specialistiche mediche essenziali. Mentre il numero dei decessi riportati sembra relativamente piccolo, molti erano evitabili, mentre altri sono rimasti non dichiarati. Fra questi c’erano anche donne e bambini che sono morti durante il loro internamento nel campo di Tatura, ma questi non sono mai discussi. A Salvatore Previtera, un internato Queensland il cui figlio è morto, non è stato permesso di partecipare al funerale.

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    Giovanni Marras (Carbonia, 29.1.1944 – Olbia, 26.3.2023)

    di Marinaio di Spirito Santo

    (Carbonia, 29.1.1944 – Olbia, 26.3.2023)

    Le persone “speciali” sono quelle che ti capiscono perfettamente e che sanno tutto di te. Sono quelle persone che ti leggono dentro e che sentono i tuoi pensieri, e che sono capaci di regalarti con un gesto, la serenità e la felicità che avevi dimenticato.

    Sono quelle persone che non ringrazierai mai abbastanza per averle incontrate sul tuo cammino.
    “Non aver mai timore di ciò che sei perché chi ti vuole bene davvero coglierà solo la parte più bella del tuo cuore”.
    “Nella vita incontrerai 3 tipi di persone: quelle che ti cambieranno la vita, quelle che ti rovineranno la vita e quelle che saranno la tua vita.” (Proverbio Africano).

    27.11.1967,  nave Impetuoso mare forza 8 in aumento
    di Giovanni Marras

    PER GRAZIA RICEVUTA

    27-11-1967-mare-forza-otto-giovanni-marras-www-lavocedelmarinaio-com27-11-1967-nave-impetuoso-www-lavocedelma-rinaio

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    Luigi Fusco (Sepino (CB), 26.3.1924 – Mare, 22.9.1943)

    di Vincenzo Campese (*)

    (Sepino (CB), 26.3.1924 – Mare, 22.9.1943)

    S.O.S. RICHIESTA FOTO E ULTERIORI NOTIZIE

    Una vicenda che vede coinvolto il Marinaio Luigi Fusco nato a Sepino (CB) il 26 marzo 1924 – In servizio presso il Porto di Taranto – morto il 22 settembre 1943 a seguito dell’affondamento del rimorchiatore Sperone della Regia Marina saltato su una mina tedesca.
    L’8 settembre 1943, giorno della proclamazione dell’armistizio dell’Italia con gli Alleati, nella rada del Mar Piccolo di Taranto, si trovavano due motosiluranti tedesche la S 54 e la S 61. Vi era poi la motozattera MFP 478 comandata anch’essa da un sottufficiale, che aveva da poco sbarcato le sue ventidue mine tipo TMA/B al deposito di Buffoluto.

    Il Comandante tedesco della S 54 K-D Schmidt, alle ore 21:28 aveva ricevuto dal comandante della 3ª Flottiglia,  l’ordine di lasciare al più presto il porto di Taranto, poco prima della mezzanotte chiese all’ammiraglio di squadra Bruto Brivonesi, comandante del Dipartimento marittimo Jonio e Basso Adriatico, l’autorizzazione a far partire le tre navi in ore notturne per un porto della Grecia, motivandolo con il timore di trovare all’alba unità navali britanniche in prossimità della base.
    Richiese anche il permesso di spostare le due motosiluranti dal Seno di Levante del Mar Piccolo, ove si trovavano decentrate, “a San Pietro per distruggere i congegni di accensione delle torpedini elettriche depositate in detta isola” dalla marina germanica. Schmidt assicurò che le motosiluranti «non avrebbero compiuto atti ostili entro le acque territoriali italiane», al che Brivonesi acconsentì alle sue richieste, facendo però accompagnare le due motosiluranti tedesche da due motoscafi italiani.
    Quella stessa notte arrivò una telefonata dal deposito munizioni di Buffoluto, in cui si domandava come comportarsi nei riguardi della motozattera germanica che con minacce pretendeva di reimbarcare le sue mine. L’ammiraglio Brivonesi capo del Dipartimento o un suo subalterno rispose: “È roba loro dategliele”.

    Quindi, le due motosiluranti tedesche S-Boote e la motozattera MFP, salparono alle 2.30 dal Mar Piccolo, passarono il canale navigabile e – nonostante che il CinC avesse disposto di tenerle sotto sorveglianza fino al passaggio delle ostruzioni esterne del Mar Grande, la MFP, contravvenendo all’impegno preso, disseminò tranquillamente le sue 24 mine nel Mar Grande tra le 3:15 e le 4:00 di quella notte senza che nessuno se ne accorgesse, e senza che nessuno notasse al passaggio delle ostruzioni esterne che non aveva più le mine sul ponte.
    L’operazione di posa mine, iniziata a poche centinaia di metri dall’imboccatura del canale navigabile, e proseguita nel Mar Grande con le navi che continuavano a procedere in linea di fila, anche per non fornire sospetti.
    Il 9 Settembre, ad iniziare dalle ore 17:00, gli incrociatori britannici cominciarono ad entrare nel Mar Grande e, mentre si portavano all’attracco nel porto mercantile per iniziare lo sbarco delle truppe, furono seguiti dalle corazzate che si ancorarono in rada. Verso le ore 24:00, mentre l’operazione per mettere a terra soldati era in pieno svolgimento, il posamine veloce Abdiel, che si era ancorato nel Mar Grande a circa 700 metri per sud-sudovest dal castello aragonese e quindi all’entrata del canale che porta al Mar Piccolo, ruotando sull’ancora finì su una delle mine magnetiche tedesche, posate nella notte precedente. In quel momento (erano le 00:15 del 10 settembre), l’Abdiel stava sbarcando i suoi quattrocento soldati del 6º battaglione paracadutisti (Royal Welsh).
    L’esplosione della mina TMA/B, fortissima, fu udita in ogni angolo del porto, ed il posamine, con le paratie dello scafo squarciate, si spezzò in due tronconi e affondò in soli due minuti.  Con l’Abdiel si persero 48 uomini dell’equipaggio, 6 ufficiali, e 101 soldati. I feriti furono 126, tra cui 6 marinai, e 150 le tonnellate di materiale perduto, sotto forma di armi ed equipaggiamenti per le truppe, incluse 8 Jeep, 76 cannoni controcarro e munizioni. Le perdite umane potevano essere molte di più se gli uomini della nave non si fossero trovati in coperta a causa del caldo opprimente nei locali inferiori.

    L’affondamento del rimorchiatore Sperone nel Porto di Taranto
    Le perdite causate dalle mine magnetiche tedesche non furono limitate a quella del solo Abdiel, dal momento che alle ore 13:50 del 22 settembre, durante un normale spostamento all’interno del Mar Grande, si verificò un’esplosione che determinò l’affondamento del rimorchiatore italiano Sperone (86 tsl) dopo aver urtato una mina tedesca.  Il rimorchiatore, al comando del 2° capo nocchiere Elio Cesari, effettuava il consueto servizio di trasporto viveri e merci varie per gli insediamenti militari sulle Isole Cheradi (San Pietro e San Paolo). In poco tempo l’imbarcazione si inabissò. A bordo c’erano 148 uomini, tra equipaggio, personale di passaggio e militari che si recavano in libera uscita dall’Isola di San Pietro a Taranto. Di questi, 51 furono i feriti, 97 le vittime. Tra le vittime anche il marinaio molisano Luigi Fusco.
    Ciò avvenne mentre dragamine italiani e Alleati stavano lavorando in un’opera di bonifica nel Mar Grande che, in una quindicina di giorni portò alla distruzione di ventuno mine.
    Il tragico affondamento dello Sperone è ricordato con una targa in marmo posta su un edificio dell’Isola di San Pietro

    Dello stesso argomento sul blog:
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2019/09/22-9-1943-regio-rimorchiatore-sperone/

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