Racconti

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    Giovanni Bortolini (Padova, 19.7.1922 – Mare, 3.2.1943)

    di Fabio Bortolini

    … riceviamo e con orgoglio misto a commozione publichiamo.

    (Padova, 19.7.1922 – Mare, 3.2.1943)

    Gentile Ezio Vinciguerra,
    le ultime ore dell’affondamento dell’Avviso Scorta Uragano (classe Ciclone) hanno trovato nel tempo ospitalità nel suo blog.
    Mio zio Giovanni Bortolini (il fratello di mio padre Aurelio) era imbarcato sull’Uragano con il grado di Sottocapo Meccanico e scomparve in mare il 3 febbraio 1943, giorno dell’affondamento.
    Tra i pochi ricordi, di un ragazzo di  21 anni, conservati da mio padre ve n’è uno di curioso che le allego.
    Si tratta di una richiesta di breve permesso formulata durante una breve sosta a Venezia, la sua città. L’Uragano era stato varato da poco a Trieste e (credo) si trattasse del suo primo viaggio verso la sua base (Napoli?)
    Il 4 novembre 42, durante una scorta di un convoglio verso Tripoli, l’Uragano subì un attacco aereo che provocò pochi danni e in quell’occasione Giovanni venne ferito leggermente ad una gamba da una scheggia conseguente al mitragliamento.
    Giovanni prima di far parte dell’equipaggio dell’Uragano era imbarcato sul Maestrale.

    … segue:
    Buonasera signor Vinciguerra,
    grazie per la sua pronta ed affettuosa replica che mi ha commosso ma ancor di più ha commosso mio padre Aurelio “Baretina” (il fratello di Giovanni).


    Mio padre, ovviamente, è la fonte storica dalla quale ho sempre attinto. E’ un “giovanotto” del 1931, ancora in forma visto che stamane, nonostante il caldo torrido, vogava nella sua amata laguna a quasi 92 anni.
    Aggiungo qualche dettaglio.
    Giovanni nacque a Padova il 19 luglio 1922 ma la sua città, sin dai primi giorni di vita, è stata Venezia, sestiere di Cannaregio, dove i genitori gestivano una birreria giù dal Ponte degli Scalzi, a pochi passi dalla stazione ferroviaria.
    Mio padre rimase orfano di padre a soli 5 anni e il fratello maggiore Giovanni (più vecchio di 9 anni) per lui era come un papà. Inguaribile fu lo sconforto che provocò la perdita dell’amato fratello.
    Domani recupererò una foto di Giovanni (non ne abbiamo in divisa da marinaio) e mi farò raccontare meglio una vicenda postuma dell’affondamento. Infatti, alcuni dei (pochi) superstiti dell’Uragano, raggiunsero personalmente le famiglie degli scomparsi per raccontare gli ultimi tragici attimi (andarono alla deriva in quel freddo mare alcuni tronconi della nave).
    Nel frattempo le allego una foto di mio padre Aurelio, il foglio matricolare di Giovanni (che richiesi qualche anno fa a Roma) (speravo di vedere annotati anche i precedenti e certi imbarchi, ma non figurano!) e una mia modesta memoria scritta in dialetto veneziano per ricordare Giovanni (e tutti quei poveri ragazzi…) (1).


    Un’ultima cosa  …anche io faccio parte della grande famiglia della Marina Militare (FABIO BORTOLINI 56VE0330) 
    Grazie per la gioia che ha provocato a mio padre.
    A presto.
    Cordiali saluti

    (1) Regia nave Uragano
    di Fabio Bortolini

    3 febbraio 1943
    A le sinque e meza de matina del 3 febbraio 43 la torpediniera Uragano, comandada dal capitan de corveta Luigi Zamboni, xe partìa da Biserta par Napoli insieme al caciatorpedinier Saetta e a le torpediniere Sirio, Monsone e Clio, par scortar la petroliera Thorsheimer de rientro in Italia.
    La navigassion gera ostacolada da caìgo(*), mar forsa sinque e vento de Maestral forsa sìe che el provocava rolìo e scarociamento.
    A le 9.38 l’Uragano el ga urtà na mina (posada dal posamine inglese Abdiel), che ghe gà cavà via tuta la parte popiera, fermando la marcia. A le 9.40 el Clio e el Saetta le gà tentà de avicinarse par dar socorso, ma oto minuti più tardi el Saetta el gà anca lù urtà na mina afondando, spacà in dò tochi, in gnanca un minuto, portando in fondo al mar 170 fioi.
    Anca el tentativo de socorso del Clio co le scialupe de bordo no xe riuscìo, e a le diese el resto del convoglio el gà ricevùdo l’ordine de proseguir.
    L’ultimo messagio de l’Uragano xe stà ricevudo a le 13.33, dopo la nave, completamente danegiada, xe ‘ndada a fondi nel punto 37°35′ N e 10°37′ E.
    Solo ne la serata del 4 febraio dele navi partìe da Biserta e xe riussìe a ragiunger i naufraghi dell’Uragano: de l’equipagio se gaveva salvà solo quindese fioi, a bordo de tre zaterini.
    114 fioi de l’equipagio xe morti, in gran parte scomparsi in mar prima de l’arivo dei socorsi.
    Tra questi ghe gera anca Giovanni Bortolini, el fradeo del Baretina, che ea sua Canaregio no ea ga vista più a soli 21 ani.
    (*) nebbia

    Dello stesso argomento sul blog:
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2023/02/3-2-1943-le-regie-navi-uragano-e-saetta-4/

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    Frugando nella soffitta dei ricordi

    di Carlo Di Nitto

    Carlo Di Nitto per www.lavocedelmarinaio.comQuesta mattina frugando tra “antiche” cose sulla soffitta di mia madre ho ritrovato alcuni “ricordi” di Marina. Il mio vecchio solino, un camisaccio estivo ingiallito dal tempo, i gradi da sottocapo motorista “D” e da sergente, una impolverata cappelliera con impresso il mio numero di matricola, i nastrini dei berretti e tante altre piccole cose, struggenti, modesti cimeli risalenti a 47 anni fa.
    Una sola cosa non ho ritrovato: i miei vent’anni, l’ormai trascorsa spensierata gioventù …


    Da quel giorno, sono passati poco più di 47 anni (solo POCO più).
    Nello spirito niente è cambiato. Nel corpo, invece, ci sono soltanto molti capelli in meno e diversi chili in più.

  • Che cos'è la Marina Militare?,  Curiosità,  Marinai,  Marinai di una volta,  Naviglio,  Racconti,  Recensioni,  Storia

    Giuseppe Biagi (Medicina, 2.2.1897 – Roma, 1.11.1965)

    tratto da https://www.storiaememoriadibologna.it/biagi-giuseppe-519916-persona

    (Medicina, 2 febbraio 1897 – Roma1 Novembre 1965)

    Il medicinese Giuseppe Biagi, radiotelegrafista della Marina Militare, divenne popolare nel 1928, quando con la sua capacità tecnica riuscì a dare un contributo fondamentale per la salvezza dei naufraghi polari della spedizione comandata da Umberto Nobile, col suo dirigibile “Italia”: oltre a stabilire il primato mondiale della trasmissione radiotelegrafica dal Polo Nord, dimostrò in maniera clamorosa (perché ne parlarono tutti i periodici, tutte le radio e tutti i cinegiornali del mondo) la grande utilità pratica dei radiotelegrafi ad onde corte (pur se di dimensioni molto ridotte). Lo scrivente l’ha ricordato con un breve articolo nel 1º centenario della nascita, e dell’invenzione della radio, ma a seguito di una ricerca e di una mostra fatta a Medicina nel 60º anniversario della tragica spedizione polare; e pertanto qui intende fare conoscere più diffusamente i dati bibliografici raccolti, e proprio in una pubblicazione medicinese.
    Era nato il 2 Febbraio 1897 nella campagna adiacente a Medicina, ove il padre, Raffaele Biagi – fattore agricolo dei Garagnani –, e la madre – Virginia Natali – (oriundi di Casalecchio dei Conti, in comune di Castel S. Pietro), da tempo abitavano, per ragioni di lavoro, nel vecchio palazzo Albergati. Ma qui aveva appena finito le scuole elementari, che suo padre trasferì la famiglia a Bologna, dove anche i ragazzi, come allora usava, poterono trovare subito un lavoro proficuo, e meno duro di quello possibile nelle campagne medicinesi, dove la meccanizzazione, e pure il sindacalismo ed il cooperativismo dei lavoratori agricoli erano appena agli inizi. A Bologna il Biagi fece i primi tre corsi della scuola tecnica e l’apprendistato all’Istituto Aldini, ma lavorò pure, col fratello Alfredo, nella tabaccheria della Stazione ferroviaria, poi in un negozio del centro ed infine in officine meccaniche. Era comunque ancora un ragazzo quando diede prova di una vigoria ed un coraggio notevoli, salvando la sorella Cesira dalle fiamme, ed un cugino dall’annegamento nel fiume Reno. Intanto cominciavano ad affascinarlo i popolari romanzi d’avventure in terre e mari sconosciuti: e la suggestione del mare fu per lui così forte che, anche contro il parere paterno, andò a Rimini, per lavorare su una tartana da pesca, per un ben modesto salario; ma potè rimanervi pochi giorni perché, tradito dal timbro postale di una lettera scritta alla madre, lo rintracciò il fratello maggiore, che lo ricondusse a casa.

    Aveva comunque solo sedici anni quando tanto insistette coi genitori che ebbe l’autorizzazione ad arruolarsi nella Marina Militare, e la ricambiò mandando loro tutto ciò che riusciva a risparmiare sul magro soldo di marinaio. Fu sul “Palinuro”, poi sulla “Liguria” e sul “Miseno” quando c’era ancora la guerra di Libia. Interessandosi di elettricità e di telecomunicazioni – che allora avevano ben scarse applicazioni –, fu inviato alla Scuola radiotelegrafisti che la Marina aveva a Varignano di La Spezia, e poi come operatore nelle corazzate “Giulio Cesare” e “Conte di Cavour”. Nella Grande Guerra (1915-18: l’ultima del Risorgimento) fu radiotelegrafista dello Stato Maggiore sulle navi in cui risiedeva il comandante Luigi di Savoia (Duca degli Abruzzi), su sommergibili e su idrovolanti, anche in varie azioni molto pericolose, come quella della squadriglia d’idrovolanti di Valona, comandata dal tenente Pellegrini, o come i bombardamenti aerei di Durazzo e di Cattaro. Una volta che con l’aereo precipitò in mare, presso la costa albanese, potè salvarsi perché, bravo nuotatore, riuscì a mantenersi a galla per ben 6 ore, e fu poi raccolto, ma tre giorni dopo, dal cacciatorpediniere “Airone”. Ottenne vari encomi per il buon servizio prestato, e nel 1918 fu assegnato al Centro Radio di S. Paolo a Roma, come tecnico dirigente.
    Nel 1926 e nel 1927 vinse vari premi nelle manovre navali, e fu così assegnato istruttore nella Scuola di Varignano in cui era stato allievo. Ma il 12 Maggio del 1926 un radiotelegramma indirizzato al governo annunciava che la bandiera italiana era stata lasciata cadere sul Polo Nord dal dirigibile “Norge”, condotto dal generale Umberto Nobile e da equipaggio italiano, con gli esploratori Roald Amundsen e Lincoln Ellsworth, e tre giorni dopo un altro messaggio dall’Alaska annunziò che, nonostante che la radio non avesse funzionato per due giorni, era stato compiuto un percorso complessivo di 13.000 chilometri in 172 ore di volo; ma nel 1928 il Nobile ottenne di andare in dirigibile al Polo Nord ed all’Arcipelago detto dello Zar Nicola II, col comando della spedizione, che doveva comprendere anche scienziati, per nuove ricerche sul posto, quasi completamente inesplorato: anche perciò al dirigibile (identico al “Norge”) aveva dato il nome “Italia”.
    Biagi allora aveva un’abitazione presso il Centro Radio di Roma, una moglie – Anita Buccilli –, un figlioletto di 3 anni – Giorgio – ed un altro figlio in arrivo; ma già da 3 anni erano morti i suoi genitori, ad appena 3 mesi l’uno dall’altro; Nobile era divenuto generale dell’Aeronautica e Professore di Costruzioni aeronautiche all’Università di Napoli. Fu il ministro Costanzo Ciano a segnalare a Nobile il radiotelegrafista Biagi, che fu assunto a bordo dell’“Italia” comunque solo dopo che ebbe superato le prove preliminari nell’occasione stabilita.
    La partenza ed il viaggio del dirigibile furono salutati come qualcosa di eccezionale, ed i notiziari allora diffusi un po’ in tutto il mondo abbondarono nei particolari, oltre che della retorica in uso nel tempo (secondo la scuola dannunziana imperante). Dopo avere superato non poche difficoltà tecniche ed atmosferiche, e dopo che erano state esplorate varie regioni artiche sconosciute, il dirigibile “Italia” giunse sul Polo Nord il 24 Maggio 1928, mentre in Italia si celebrava il 13º anniversario dell’entrata in quella Guerra della quale si festeggiava il decennale della vittoria: poiché le bufere impedivano di scendervi, vi furono lanciate dall’alto le bandiere alla partenza ricevute da varie autorità e la croce avuta dal papa Pio XI, mentre Biagi provvedeva ad inviare a Roma i radiogrammi dettati da Nobile ed anche a fotografare l’avvenimento. Ma non fu possibile raggiungere l’Arcipelago dello Zar Nicola II, perché durante una nuova forte bufera di neve, a poca distanza dalla base artica, il dirigibile, specialmente a causa di un grave sovrappeso procurato dal ghiaccio e di varie rotture, precipitò, e strisciando sulla banchisa gettò sul ghiaccio 10 uomini (tra i quali Nobile e Biagi) – e la cagnetta Titina –, mentre altri 6 uomini scomparvero col dirigibile stesso, che riprese quota, trascinato dal molto vento, ma presto finì in un rogo fumoso.
    Di questi ultimi aeronauti nessuno fu più ritrovato, nonostante lunghe e complesse ricerche; degli altri 10, uno morì nella caduta, un altro morirà in un vano tentativo di raggiungere a piedi la base, alcuni (fra cui Nobile) riportarono ferite gravi, ma i sopravvissuti poterono salvarsi, in quello sterminato deserto di ghiaccio e bufere nevose, perché dal dirigibile con loro caddero pure una tenda, alcuni viveri, e vari attrezzi fra cui la stazione radiotelegrafica campale di soccorso, ad onde corte, ed il tecnico Biagi. I problemi più gravi furono subito posti dal disgelo e dalla conseguente deriva dei ghiacci, oltre che dalla scarsità di viveri disponibili: questi furono razionati, ma il controllo della posizione geografica faceva constatare che la base diveniva sempre più lontana, e la conclusione era nelle previsioni molto brutta, perché se non fossero arrivati presto dei soccorsi e non si potesse raggiungere quanto prima una terra ferma, entro due mesi al massimo le gelide acque polari sarebbero divenute la tomba di tutti.
    Fortunatamente Biagi era rimasto in buone condizioni fisiche, e fece presto a montare e far funzionare il radiotelegrafo, trasmettendo (ogni 2 ore) i testi degli S.O.S. stabiliti da Nobile e Mariano, e ricevendo anche le trasmissioni dell’Italia (e del suo Centro Radio di Roma), e della stessa nave “Città di Milano” che aveva seguito come appoggio il dirigibile fino presso la meta. Ma l’S.O.S. verrà sentito solo il 3 Giugno, da un radioamatore sovietico. E solamente il 20 Giugno la tenda dei naufraghi polari, ricoperta di carte rosse affinché potesse essere meglio individuata nel candore dei ghiacci (e divenuta quindi famosa col nome di “tenda rossa”), fu avvistata dall’aereo del soccorritore Giovanni Marsano, e furono così ottenuti i primi aiuti di medicinali, viveri ed attrezzi, ma con nuove vittime, perché un idrovolante italiano nel ritorno precipitò. Il 24 Giugno lo svedese Lundborg riuscì a raggiungere la tenda col suo aereo, ma potè caricarvi il solo Nobile, preferito perché il ferito più grave e perché capace di organizzare meglio i soccorsi; ma in un successivo viaggio l’aereo cappottò e lo stesso Lundborg finì fra i naufraghi della “tenda rossa”. Un altro aereo s’inabissò nel Mare del Nord, e fra i soccorritori aveva lo stesso Amundsen. Varie nazioni, specialmente del Nord, collaborarono in una gara di solidarietà con le autorità italiane che fu unanimemente ammirata, a riprova dell’importanza e sacralità della vita umana. Ma solamente il 12 Luglio giunse il rompighiaccio sovietico Krassin, il più potente dell’epoca, che dopo un’avanzata di migliaia di chilometri era arrivato alle massime latitudini artiche (nonostante avesse un’elica a pezzi ed il timone in avaria), incitato ed ammirato da tutto il mondo: erano le 5,20 quando i naufraghi, sfiniti dal gelo e dalla fame, poterono abbracciare i soccorritori. Per salvare 8 persone ne erano comunque morte altre 10, e nel commentare questi eccezionali avvenimenti i giornalisti furono veementemente polemici, ma fu trionfale il ritorno dei naufraghi e dei loro soccorritori.
    Un film della L.U.C.E. (Lega Universitaria per la Cinematografia Educativa), che comprese le principali scene della partenza, del viaggio e dell’arrivo del dirigibile nell’Artico, e poi quelle dei soccorsi, delle ricerche e del ritorno dei naufraghi, ebbe ampia diffusione e notevole successo. Era stata ammirata l’audacia italiana nel collaudare, fino alle estreme possibilità e col rischio della vita, l’efficienza di uno degli strumenti più importanti della civiltà moderna per la conquista dell’aria; ma in fine questa sconfitta fragorosa del dirigibile rivelò in modo definitivo la sua inferiorità rispetto all’aeroplano. Da quella data i dirigibili furono accantonati (in attesa di tempi migliori), mentre le radio ad onde corte furono adottate da tutti gli apparecchi e bastimenti destinati ai viaggi lunghi. I superstiti furono in vari modi onorati, ed i loro memoriali – nonostante un esplicito divieto di Mussolini avente lo scopo di smorzare le polemiche – furono contesi dagli editori, così come quelli dei loro soccorritori. Nobile fra l’altro, oltre al volume miscellaneo sui risultati scientifici della spedizione, pubblicò un suo racconto de “L’‘Italia’ al Polo Nord” (Milano 1929) che fu subito tradotto in varie lingue e poi ristampato in nuove edizioni, con aggiunte e precisazioni e polemiche, ma sempre con molte, ripetute espressioni di ammirazione, gratitudine e simpatia per Biagi. E Biagi, oltre alle interviste giornalistiche, attese al volume “I miracoli della radio nella tragedia polare – Biagi racconta…” (Milano 1929), nel quale espose con semplicità quanto accadutogli; ma del suo comportamento eroico sulla banchisa polare a specialmente accanto alla cassetta del radiotelegrafo hanno dato notizie ampie, dettagliate e specifiche, oltre ai giornali del tempo, tre importanti testimoni che furono con lui sotto la “tenda rossa”: Alfredo Viglieri (“48 giorni sul pack”, Milano 1929), Francesco Behounek (“Il naufragio della spedizione Nobile”, Firenze 1930) e Felice Trojani (“La coda di Minosse”, 3ª ediz., Milano 1964); e l’hanno elogiato pure Cesco Tomaselli (“L’inferno bianco”, 4ª ediz., Milano 1929) ed A. Majorana, (“La spedizione polare artica”, Trapani 1962), che erano stati sulla nave-appoggio “Città di Milano”.

    Era stato particolarmente toccante il fatto che sua moglie gli partorì una figlia nei giorni tremendi in cui era naufrago sul pack, ed egli ne apprese la notizia via radio, disponendo poi, con un radiogramma, che essa si chiamasse (come il dirigibile) “Italia”. Bologna e Medicina gli tributarono festeggiamenti entusiastici, ed a Medicina gli fu intitolato il nuovo campo sportivo. I rapporti fra i governi sovietico ad italiano ebbero un miglioramento (purtroppo provvisorio). Il principale storico della radio, Luigi Solari (che era un collaboratore del suo inventore, Guglielmo Marconi), pose ben in rilievo sia il suo primato polare che il nuovo miracoloso salvataggio di vite umane operato da un apparecchio di ben piccole dimensioni. Peraltro il governo italiano ritenne opportuno prendere provvedimenti riguardo il Nobile, e lo stesso Biagi, con una commissione d’inchiesta la cui relazione conclusiva fu ampiamente fatta conoscere tramite la stampa e le radio: al Biagi contestava la cessione (ai russi) dei filmini girati presso la “tenda rossa” con una cinepresa trovata fra gli attrezzi caduti sul pack, ma egli potè proseguire il suo servizio di radiotelegrafista della Marina Militare, e fu anche promosso di grado, mentre il Nobile, che si ritenne calunniato e si trovò anche ostacolato nel proseguimento del suo lavoro, preferì dimettersi, e solamente dopo la seconda Guerra mondiale ottenne giustizia e potè rientrare nell’Aeronautica coi gradi e con le promozioni spettatigli.
    Era maresciallo, in Africa Orientale, a Mogadiscio, capo della stazione radio, Biagi, quando nel corso della seconda Guerra mondiale gli inglesi conquistarono quella città, e, fattolo prigioniero lo inviarono (come innumerevoli altri) in campo di concentramento a Bopal, nell’India centrale: dove, con mezzi di fortuna, costruì una radio che, clandestinamente, potè essere fonte di notizie ad anche di sollievo per i commilitoni. Alla fine della guerra, nell’Aprile 1946 tornò in Italia, e preferì risistemarsi con la famiglia a Roma, ma si congedò dalla Marina, e per integrare una pensione troppo scarsa gestì in via Ostiense un distributore di benzina della Shell. Continuò ad essere ricordato in ogni narrazione che rievocava la vicenda della “tenda rossa”, anche poi alla televisione; nonostante che fosse estremamente riservato, accettò di essere ancora intervistato. Morì il 1º Novembre 1965, ed i giornali gli dedicarono svelti necrologi. Ma si tornò a parlare anche di lui in cronache televisive del 1967, quando in Baviera fu realizzato un telefilm sulla famosa vicenda polare, e di nuovo nel 1968, quando a Leningrado nelle carte di Samoilovich – uno dell’equipaggio del Krassin – fu trovato il suo brogliaccio di bordo nel dirigibile “Italia”. Comunque negli anni 1969-1970 fu il film italo-russo “La tenda rossa” (Krasnaja Palatka) a rievocare con molti particolari quella tragica vicenda, ed ebbe molto successo di pubblico e di critica in tutta l’Unione Sovietica, oltre che in Italia, dove lo ha riprogrammato la Televisione il 9 Settembre 1974 e di nuovo recentemente. Suo malgrado, Biagi ora fa parte della storia della radio e delle esplorazioni polari.
    Aldo Adversi
    Testo tratto da “Brodo di serpe – Miscellanea di cose medicinesi”, Associazione Pro Loco Medicina, marzo 2002.


    Giuseppe Biagi
    di Alfonso Giuliano

    …Uomo ed Eroe volutamente dimenticato.

    Radiotelegrafista della Regia Marina, esempio di passione per il proprio lavoro e di grande perizia tecnica, uomo estroso dotato di grande generosità ed infaticabilità, dimostrata anche nei momenti più difficili, come nella spedizione del dirigibile “Italia” al Polo Nord 1928.
    Con Lui Ricordiamo ed Onoriamo “l’infinita schiera di Radiotelegrafisti e Marconisti” che sono rimasti al loro posto, anche nell’estremo attimo, continuando a trasmettere fino ad affondare con la propria nave per assicurare la salvezza degli altri.

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    Amedeo Cacace (Sorrento, 2.2.1919 – Savona, 22.3.2020)

    di Antonio Cimmino (A.N.M.I. Stabia) e Luca Ghersi (Presidente Gruppo A.N.M.I. Savona)

    (Sorrento, 2.2.1919 – Savona, 22.3.2020)

    ADDIO COMANDANTE

    amedeo cacace - www.lavocedelmarinaio.comNasce a Sorrento il 2 febbraio 1919. Dal 1953 residente a Savona ove, fino al 1984, è stato Pilota del Porto. Fondatore e socio dell’A.N.M.I. di Savona. Imbarcato sui sommergibili con il grado di Sottotenente di vascello durante la guerra, dopo il congedo fu promosso Capitano di Fregata Ruoli Onore.
    Sommergibilista, fu decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare sul campo con la seguente motivazione:
“Imbarcato su un sommergibile durante una missione oceanica di eccezionale durata, dava costante prova di ottime qualità militari e di carattere contribuendo con la propria assiduità al perfetto funzionamento dei servizi di bordo e quindi al successo della missione stessa.
Nelle azioni di guerra eseguite ed in particolar modo nell’attacco ad una nave portaerei fortemente scortata che portava all’affondamento dell’unità nemica, benché conscio del rischio, con la pronta ferma esecuzione degli ordini assicurava il successo dell’azione”.
Oceano Atlantico, 25 luglio 1943
 Regio sommergibile Cagni (R.D. 2 giugno1944).
    Attestato Medagliadi Bronzo al Valor Militare ad Amedeo Cacace - www.lavocedelmarinaio.comIl Comandante Amedeo Cacace è stato insignito anche di 6 Croci di Guerra al Valor Militare (C.G.V.M.), prestò servizio come ufficiale di rotta sui regi sommergibili Baracca, Zoea, Cagni, Bragadino e Menotti. Sul sommergibile Cagni compì la più lunga navigazione di guerra eseguita da unità navale italiana durante il secondo conflitto mondiale durata ben 137 giorni.
    Il Comandante Cacace congedatosi, prestò servizio in seguito sui Liberty e dal 1953 al 1984 nei piloti del Porto di Savona dove ricoprì dal 1972 sino alla pensione il ruolo di Capo dei Piloti.
    Maggiori notizie biografiche si possono trovare nel capitolo dedicato al Comandante pubblicato nel libro “Marinai Savonesi” edito dal Gruppo nel 2007 in occasione del 50° anniversario di fondazione; l’opera tratta la biografia di 8 importanti Marinai Savonesi alcuni molto conosciuti altri meno ma che diedero tutti lustro alla nostra Forza Armata”.

    Auguri Comandante
    di Luca Ghersi
    Grande Festa per i Marinai del Gruppo ANMI Vanni Folco di Savona, oggi 2 Febbraio 2020 è il compleanno del nostro decano il Capitano di Fregata(RO) Amedeo Cacace, sommergibilista, classe 1919 che compie perciò 101 anni.
    Il Comandante Cacace è insignito di Medaglia di Bronzo al Valor Militare e 6 Croci di Guerra al Valor Militare (CGVM) ed ha prestato servizio come ufficiale di rotta sui Regi Sommergibili Baracca, Zoea, Cagni, Bragadino e Menotti. Sul sommergibile Cagni compì la più lunga navigazione di guerra eseguita da unità navale italiana durante il secondo conflitto mondiale durata ben 137 giorni. Il Comandante Cacace congedatosi, prestò servizio in seguito sui Liberty e dal 1953 al 1984 nei piloti del Porto di Savona dove ricoprì dal 1972 sino alla pensione il ruolo di Capo dei Piloti.

    Come Presidente del Gruppo ANMI Vanni Folco di Savona mi sento di dire che oggi è una di quelle giornate che entra nella Storia della Marina Militare perché il caro Amedeo non è soltanto il decano del Gruppo ma probabilmente lo è anche di tutta la Componente Sommergibilistica Italiana. Una lettera di auguri, oltre a quella scritta dal Sindaco Ilaria Caprioglio, è stata inviata anche dal Comandante dei Sommergibili Italiani l’Ammiraglio Andrea Petroni così come fece anche il suo predecessore Ammiraglio Dario Giacomin nel 2015 in occasione del suo 96esimo genetliaco. Siamo estremamente orgogliosi di avere tra noi il Comandante Cacace, un Marinaio che con il suo carattere schivo e determinato e con il suo agire sempre inappuntabile è sempre stato di esempio, stimolo e sprone per le nostre attività. Buon Compleanno Comandante Cacace, che i venti e le onde ti siano sempre propizi…

    Marinai Savonesi Presenti

    Estratto della biografia del Comandante Cacace pubblicata nel volume “Marinai Savonesi” edito dal Gruppo ANMI Vanni Folco di Savona nel 2007 in occasione del 50° anniversario della sua fondazione

    Nella casa del comandante Cacace abbondano i ricordi e le testimonianze di quella che è una vera e propria tradizione: il padre, il nonno e altri ancor prima facevano parte di una famiglia sorrentina da sempre legata alle attività marinare e, già a partire dal secolo XIX, numerosi “antenati” navigarono con navi a vela, brigantini e “vapori” in Mediterraneo e in Atlantico, prima con la bandiera borbonica e poi con quella italiana. Ed ecco quindi un altro aspetto, profondamente umano, di Amedeo Cacace e cioè il forte legame e l’ancor più forte ricordo di quanti, nella sua famiglia, lo hanno preceduto sul mare in tempi ormai lontani: quadri di velieri, diplomi, fotografie d’epoca non sono solamente una “galleria di ricordi”, ma costituiscono anche un insieme dal grande valore storico e documentale. Ma torniamo a Amedeo Cacace che nasce, per l’appunto a Sorrento, il 2 febbraio 1919; nella medesima cittadina campana frequenta tutte le scuole dell’obbligo e, successivamente, il locale Istituto Tecnico Nautico “Nino Bixio”, uscendone diplomato nel 1938 per il settore “coperta”. Era quello il periodo in cui, appena concluso il conflitto civile spagnolo, si stavano addensando sull’Europa le nubi che avrebbero portato allo scoppio della seconda guerra mondiale. La Regia Marina stava perseguendo da tempo un notevole programma di potenziamento per il quale erano richiesti uomini e mezzi, e fu quindi quasi “d’obbligo” per Amedeo Cacace fare domanda per l’ammissione ad uno dei corsi per la nomina a ufficiale di complemento. Arruolato come marinaio semplice il 26 ottobre 1939, fu ammesso all’Accademia Navale di Livorno il successivo 1° novembre e ottenne la nomina a guardiamarina di complemento (Corpo di Stato Maggiore) il 7 giugno 1940. Il nostro comandante, con arguzia e senso della fatalità tutti partenopei, ricorda i pochi giorni successivi al 7 giugno: “Subito dopo la nomina a guardiamarina, per me e per tanti altri giovani ufficiali, iniziò l’attesa – quasi spasmodica – della destinazione: attesa destinata ad una breve durata perché ricevetti ben presto il telegramma “per lista imbarchi” in base al quale appresi che dovevo raggiungere il sommergibile Maggiore Baracca. Era il 10 giugno 1940, e non fu questa l’unica volta in cui una data storica per l’Italia si incrociò con le mie personali vicende in Marina…” Il sommergibile Maggiore Baracca era uno dei sei nuovi battelli appartenenti alla classe “Marconi”: da poco varato dai cantieri OTO del Muggiano, stava completando le ultime fasi dell’allestimento in attesa della consegna alla Regia Marina. Amedeo Cacace imbarcò sul Baracca, alla Spezia, il 12 giugno e partecipò alle numerose attività (imbarco di viveri e dotazioni, controllo e calibrazione di armi e apparecchiature) che coinvolsero l’equipaggio prima della consegna dell’unità alla Regia Marina, avvenuta il 10 luglio 1940. Seguì un breve ma intenso periodo di addestramento al termine del quale – insieme ad altri sommergibili, il Baracca ricevette l’ordine di trasferirsi in Atlantico alle dipendenze del “Comando Superiore delle Forze subacquee italiane in Atlantico”, che sarebbe diventato pienamente operativo a Bordeaux dal settembre 1940. Gli accordi tra la Kriegsmarine e Regia Marina, infatti, prevedevano la partecipazione di quest’ultima alla guerra sottomarina in Atlantico, e la scelta italiana per una base logistico-operativa per i propri sommergibili cadde sul porto fluviale di Bordeaux, ubicato sulla Garonne, a una cinquantina di chilometri a monte della via fluviale d’accesso al Golfo di Biscaglia, originata dalla confluenza della Garonne e della Dordogne nell’ampio estuario della Gironde. Dalla “B” (“Beta”), lettera iniziale di Bordeaux, venne tratta la denominazione di “Betasom” (Bordeaux – Comando sommergibili) che, da allora, non soltanto nei documenti ufficiali – ma anche nell’immaginario collettivo – avrebbe contraddistinto la base atlantica dei battelli della Regia Marina. “Ricordo i momenti, emozionanti, del passaggio in immersione dello stretto di Gibilterra… All’epoca la sorveglianza a/s britannica non era pressante e continua come sarebbe stata nei mesi successivi e, partiti dalla Spezia il 31 agosto, forzammo Gibilterra il 7 di settembre… Raggiungemmo subito la zona d’agguato cui eravamo stati destinati, a Nord-Ovest di Madera, ma non incontrammo alcun traffico. Il 1° ottobre, mentre già stavamo facendo rotta verso Bordeaux, venne avvistato un mercantile nemico di medio tonnellaggio. Fermatolo ed appreso che si stava dirigendo verso Belfast con un carico destinato all’Inghilterra, demmo tempo all’equipaggio di mettersi in salvo sulle scialuppe, dopodiché affondammo la nave a cannonate. Si trattava del mercantile greco Agios Nikolaos, che venne affondato in posizione 40° N – 16°55’ W…” Dopo alcune settimane trascorse a “Betasom”, al comando del capitano di corvetta Enrico Bertarelli il Baracca fu destinato a una nuova missione in Atlantico e raggiunse la sua zona di agguato, a Ovest delle coste scozzesi tra i meridiani 15° e 20° W, ove si trattene tra il 1° e il 17 novembre 1940. Il Baracca attaccò, senza tuttavia affondarli, un piccolo mercantile (il 31 ottobre, durante la navigazione di trasferimento) e una petroliera (il 9 novembre). Il 16 novembre, ricevuto un segnale di scoperta di un convoglio diretto a ponente, ne tentò l’avvicinamento; durante la navigazione di rientro, la sera del 18 novembre, il battello italiano intercettò il piroscafo da carico britannico Lilian Moller che venne affondato con due siluri. Ma, sull’affondamento del Lilian Moller, lasciamo la parola al C.te Cacace: “Mi trovavo di servizio sulla falsatorre e, con il binocolo, avvistai il fumo di un piroscafo all’orizzonte. Passai subito tutte le informazioni al Comandante, che si trovava dabbasso in camera di manovra, e il Baracca si mise ben presto all’inseguimento del mercantile nemico. La cosa risultò parecchio difficile, perché eravamo ormai all’imbrunire e – in quelle latitudini – l’oscurità cala presto ed è subito molto fitta… non persi quindi mai di vista il fumo del piroscafo continuando a segnalarne la posizione… Alla fine raggiungemmo la distanza utile per il lancio e, con due siluri, colpimmo il Lilian Moller che affondò in posizione 52°57’N – 18°05’W. Purtroppo non vi furono sopravvissuti…”

    Il Maggiore Baracca rientrò nuovamente a Bordeaux, dove Amedeo Cacace trovò ad attenderlo gli ordini che lo trasferivano nel teatro operativo del Mediterraneo; tuttavia, sono numerosi i ricordi delle due missioni in Atlantico: “Ogni volta che uscivamo o entravamo dall’estuario della Gironde venivamo attaccati da velivoli britannici, e fummo sempre molto fortunati a non essere colpiti e affondati; questi momenti erano forse i più drammatici di ogni missione… La vita a bordo non era delle più facili, al fine di non intasare l’unico WC presente a bordo l’equipaggio utilizzava la coperta per l’espletamento delle proprie necessità “corporali” ma – se non altro – nella nostra permanenza all’esterno potevamo avvalerci di capi di abbigliamento pesanti forniti dagli alleati germanici… Infatti, eravamo stati destinati in Atlantico avendo in dotazione il normale vestiario previsto per le consuete missioni in Mediterraneo, e il freddo si era fatto sentire sin da subito durante la nostra prima navigazione oceanica. Al rientro da questa missione i tedeschi ci fornirono così di cappotti, impermeabili in tela cerata, maglioni ecc. che consentivano di proteggerci dal freddo durante il servizio in falsatorre e in coperta…” Il guardiamarina Cacace imbarcò sul sommergibile Zoea (uno dei tre battelli posamine della classe “Foca”) il 2 febbraio 1941, e il battello iniziò subito a venire impiegato per il trasporto di rifornimenti verso il fronte dell’Africa settentrionale. La scelta dello Zoea (e di altri sommergibili) per questo particolare ruolo era dovuta al fatto che gli ampi spazi presenti a bordo per il trasporto delle mine potevano essere utilizzati per stivare viveri, munizioni e combustibili. Fu questa una particolare attività che coinvolse numerosi battelli italiani durante tutto il conflitto, e testimonia non soltanto le difficili condizioni (e le missioni spesso “impossibili”) in cui operavano i sommergibili adibiti a questo compito, ma soprattutto la precarietà della situazione “trasporti” verso il fronte libico, precarietà che rendeva necessario l’impiego di unità militari, anche di superficie. Ad esempio, come ricordato nel capitolo sull’Amm. Marabotto, nel corso di una di queste missioni andarono perduti gli incrociatori Alberto di Giussano e Alberico da Barbiano, e durante le ultime fasi della campagna di Tunisia furono numerosi i cacciatorpediniere (diversi dei quali furono affondati da mine e nel corso di attacchi aerei) impiegati per il trasporto veloce di truppe e rifornimenti. L’importanza dell’attività dello Zoea e degli altri battelli impiegati per il rifornimento dell’Africa settentrionale è testimoniata da questo episodio che Amedeo Cacace ricorda ancora con orgoglio: “Eravamo appena giunti a Bardia al termine di una missione di rifornimento nel maggio 1941 e l’equipaggio stava procedendo allo sbarco del carico, costituito da 80 tonnellate di benzina in fusti da 40 litri. All’improvviso, giunsero sottobordo allo Zoea alcune autovetture “Horch” tedesche con le insegne del Deutsche Afrika Korps, e da queste discesero diversi ufficiali che indossavano la classica divisa khaki dei militari germanici destinati in Africa. Subito non facemmo caso alla presenza degli ufficiali, ma la nostra sorpresa fu grande quando a bordo si presentò il generale Erwin Rommel, comandante dell’Afrika Korps! Il generale Rommel, come ci disse l’interprete, aveva voluto venire personalmente a bordo dello Zoea per ringraziare l’equipaggio che aveva trasportato del prezioso combustibile, in assoluto il rifornimento più importante per i suoi reparti corazzati che, nella mobilità e nella rapida dislocazione sul fronte, individuavano la loro arma vincente…”
    Alcune settimane dopo, durante un’altra missione di rifornimento, lo Zoea abbatté, con le sole mitragliere di bordo, un quadrimotore “Sunderland” della RAF: fu questo uno dei pochi casi di tutto il conflitto in cui un nostro sommergibile riuscì ad abbattere uno di questi micidiali idrovolanti utilizzati dall’aviazione britannica proprio per la caccia ai battelli italiani e tedeschi, tanto nel Mediterraneo quanto nell’Atlantico. Il 14 ottobre 1941 Amedeo Cacace sbarcò dallo Zoea che, qualche giorno prima, era “affondato” all’ormeggio della banchina sommergibili di Taranto a causa di un’errata manovra delle valvole di presa a mare, durante un ciclo di lavori in arsenale. Poiché i lavori di recupero e ripristino del battello avrebbero richiesto diverse settimane, con il “pagato” del 18 novembre 1941 il GM Cacace ricevette ordini per un “temporaneo imbarco” sul nuovo, grande sommergibile Ammiraglio Cagni, entrato in servizio nell’aprile precedente. Amedeo Cacace rimase a bordo del Cagni sino al 3 gennaio 1942, ma in un futuro a lui ancora sconosciuto avrebbe nuovamente imbarcato, e per lungo tempo, su questo battello… Il 4 gennaio 1942 ripresero le navigazioni con lo Zoea, e Amedeo Cacace partecipò anche a una missione di trasporto rifornimenti a Lero: partito da Taranto lo Zoea diede fondo a Porto Lago, sulla costa meridionale di Lero (Dodecaneso italiano), rientrando subito dopo alla base di partenza. Ripresero quindi le “consuete” missioni di trasporto carburanti e munizioni in Africa settentrionale, e nel corso di una di queste… “… fummo avvicinati da un velivolo sconosciuto che iniziò una serie di manovre sospette, manovrando come se si stesse preparando ad attaccarci con bombe o siluri. In considerazione della forte superiorità aerea britannica nella zona, e visti i movimenti del velivolo ritenuto nemico, venne battuto il “posto di combattimento” e gli armamenti delle nostre mitragliere fecero fuoco più volte contro l’aeroplano, tuttavia senza colpirlo. Dopo aver circuitato parecchio sopra lo Zoea, il velivolo si avvicinò (sempre con movimenti “sospetti”) e solo allora potemmo osservare le insegne tedesche sulle ali e sulla fusoliera. Cessammo immediatamente il fuoco, ma i piloti germanici – evidentemente quasi per vendicare l’ “affronto” subito – fecero fuoco contro lo Zoea a distanza e senza colpirlo, quando sapevano benissimo che il mancato rispetto da parte loro delle procedure per l’identificazione era stato la causa della nostra reazione. Fummo lieti, qualche tempo dopo, quando giunse a bordo una lettera proveniente dal comando del X° CAT , con la quale venivano rivolte scuse ufficiali allo Zoea per l’errato comportamento dell’equipaggio di quel loro velivolo…”
    La permanenza di Amedeo Cacace a bordo dello Zoea, interrotta da un “temporaneo imbarco” (1° / 22 aprile 1942) sul Marcantonio Bragadin, si concluse il 5 settembre 1942. Amedeo Cacace, nel frattempo promosso sottotenente di vascello, ricevette ordini per raggiungere a La Maddalena il sommergibile oceanico Ammiraglio Cagni con l’incarico di ufficiale di rotta. Al comando del CF Carlo Liannazza, il Cagni lasciò la base sarda il 6 ottobre, e sei giorni dopo forzò lo stretto di Gibilterra. Il 3 novembre 1942, all’interno della propria zona di operazioni nel Golfo di Guinea, con un attacco diurno in immersione, il Cagni silurò e affondò il mercantile britannico Dagomba (di 3.845 t.s.l.), Si trattava di un piroscafo isolato, disperso dal convoglio TS 23 che aveva lasciato Takoradi (Ghana) diretto nella Sierra Leone. Dell’equipaggio del Dagomba sopravvissero 23 uomini, e a bordo del Cagni si pensò di soccorrere i marinai britannici, che apparivano in difficoltà a bordo delle scialuppe di salvataggio, a causa delle cattive condizioni meteorologiche. Ricorda con semplicità il C.te Cacace: “Portammo il Cagni in emersione tra i detriti dell’affondamento, nelle vicinanze delle scialuppe di salvataggio. Facemmo comprendere, a gesti e a parole, le nostre intenzioni e, una volta affiancate le due scialuppe, passammo ai superstiti viveri, acqua, generi di conforto e anche una carta nautica ove segnammo la rotta che avrebbero dovuto seguire per raggiungere la costa più vicina. Si trattava di uomini come noi, e c’era solo da sperare che – se ci fossimo dovuti trovare nelle loro condizioni – ci potesse venire riservato il medesimo trattamento…”
    Il comportamento dell’equipaggio del Cagni trova riscontro in quella che è sempre stata una norma di comportamento degli equipaggi italiani in generale, e di quelli dei nostri sommergibili destinati in Atlantico in particolare. Tutti conoscono la vicenda del Cappellini che, al comando del CC Salvatore Todaro, la notte sul 15 ottobre 1940, intercettò in Atlantico il piroscafo armato belga Kabalo, che venne affondato a cannonate. Dopo l’affondamento, il comandante Todaro decise di rimorchiare la lancia di salvataggio della nave vicino a terra, e quando quest’ultima cominciò a fare acqua, trasferì l’equipaggio del piroscafo sul sommergibile. I 26 naufraghi trovarono sistemazione nella falsatorre, e dopo tre giorni di navigazione, furono sbarcati in una insenatura dell’Isola Santa Maria delle Azzorre. L’umanità e il coraggio del Comandante Todaro (che in seguito avrebbe comandato i reparti d’assalto di superficie della Xa Flottiglia MAS, cadendo in combattimento il 13 dicembre 1942) sono passati alla storia e non necessitano di ulteriori commenti: l’equipaggio del Cagni, il 3 novembre 1942, seppe ugualmente tenere alto l’onore della Regia Marina in circostanze del tutto analoghe. Il 29 novembre 1942, durante la navigazione verso il Capo di Buona Speranza, il Cagni attaccò col siluro il piroscafo greco Argo, affondandolo in posizione 34°53’S – 17°54’E.
    Continuano i ricordi del C.te Cacace: “Era previsto che il Cagni, grazie alle sue grandi dimensioni e all’elevata autonomia, si dirigesse verso l’Oceano indiano per continuare la lotta al traffico mercantile alleato nelle acque ad Est dell’Africa meridionale. Tuttavia, a Sud del capo di Buona Speranza non fu possibile incontrare un’unità ausiliaria tedesca che avrebbe dovuto rifornirci di nafta; facemmo quindi rotta verso nord e nella zona dell’equatore ci incontrammo con il sommergibile Tazzoli. Purtroppo, le avverse condizioni meteo impedirono di trasferire a bordo di quel battello otto siluri che aveva ancora in dotazione; iniziammo quindi la navigazione di rientro verso Bordeaux e, il 15 febbraio 1943, fummo attaccati da un “Sunderland” britannico nel Golfo di Biscaglia. I danni non furono gravi, ma le raffiche di mitragliera partite dal quadrimotore uccisero un Sergente armaiolo e ferirono un cannoniere…” Anche se il Cagni non poté completare la sua missione, questa crociera durò 136 giorni ed è quindi la più lunga navigazione di guerra eseguita da una nave militare italiana nel corso del secondo conflitto mondiale. Come riporta la storia ufficiale della Marina, “… nel corso di questa missione … il Cagni diede prova di essere comandato ed equipaggiato da uomini di grande capacità professionale e di possedere un elevatissimo grado di efficienza; non ebbe infatti a lamentare avarie di alcun genere …”. Il Cagni partì da Bordeaux per la sua ultima missione il 29 giugno 1943, al comando del CF Roselli Lorenzini: questa volta gli ordini erano ancora più complessi perché era previsto che il battello italiano, dopo aver attaccato il traffico nemico in Atlantico e nell’Oceano Indiano, raggiungesse Singapore. Una volta giunto nel porto asiatico, il Cagni avrebbe dovuto imbarcare un carico di rame e stagno (metalli fondamentali per l’industria bellica dell’Asse) e fare rientro a “Betasom” in navigazione occulta, senza esplicare attività offensiva durante la navigazione di rientro. Il 25 luglio 1943, nel Golfo di Guinea alle ore 01.45 locali, il Cagni avvistò un convoglio britannico composto da una grande nave da guerra scortata da alcuni cacciatorpediniere e corvette. L’ufficiale di rotta (si trattava proprio del STV Cacace…) diresse con perizia il battello nella manovra di attacco al convoglio e, in breve tempo, il Cagni lanciò una salva di siluri contro la nave più grande della formazione nemica, identificata come una portaerei ausiliaria. Due siluri giunsero a segno, e a bordo del Cagni (immersosi nel frattempo per sfuggire alla reazione a/s delle unità di scorta), furono udite due distinte esplosioni. Il Comandante Roselli Lorenzini ritenne pertanto di aver affondato l’unità inglese, e manovrò con perizia il battello sino alle ore 17.00, quando cessò finalmente il lancio di bombe di profondità da parte dei caccia e delle altre navi scorta britanniche. L’unità attaccata era in realtà l’incrociatore ausiliario HMS Asturias, una grande nave passeggeri armata con numerosi pezzi di artiglieria ed equipaggiata con una catapulta e due idrovolanti. Ancorché gravemente danneggiato dai siluri del Cagni, l’Asturias – assistito da una corvetta e rimorchiato da una nave salvataggio olandese, riuscì a raggiungere Freetown il 1° agosto. I danni furono tuttavia gravissimi, e l’Asturias poté rientrare in servizio solamente parecchi mesi dopo la fine del conflitto. Per la perizia, il coraggio e la freddezza dimostrate nell’azione, Amedeo Cacace fu in seguito decorato con una Medaglia di Bronzo al V.M., ma il nostro comandante preferisce rimarcare che “L’attacco all’Asturias ebbe luogo proprio il 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo depose il Capo del Governo dando avvio a quella drammatica serie di eventi che avrebbero portato all’8 settembre… Captammo difatti alla radio le trasmissioni provenienti dall’Italia che ci informavano su questo evento, ma tutti a bordo del Cagni avevano fatto il loro dovere e avevano l’intenzione di continuare a farlo: certo, lo spirito dell’equipaggio era ben diverso da quello delle missioni precedenti, poiché da tempo sapevamo tutti che la guerra aveva preso una brutta china e poteva ormai essere considerata perduta. Ma lo spirito di corpo, l’attaccamento alla Regia Marina e l’amor di Patria ci consentivano di continuare le nostre attività e di portare avanti la nostra missione con abnegazione e senso del dovere…”. Il 28 agosto 1943 il Cagni entrò nell’Oceano Indiano, facendo rotta verso Singapore alla massima velocità consentita dai suoi motori diesel quando, l’8 settembre, vennero ricevute a bordo alcune trasmissioni radio provenienti dall’Inghilterra che comunicavano l’avvenuta firma dell’armistizio; nei giorni successivi, queste notizie furono confermate anche da Radio Roma, insieme alle istruzioni di raggiungere porti alleati dirette a tutte le navi italiane. “Il Comandante Roselli Lorenzini seppe gestire, al tempo stesso con ‘democrazia’ e fermezza, la situazione: alcuni uomini dell’equipaggio intendevano proseguire la navigazione, altri avrebbero preferito rientrare a Bordeaux… Alla fine il comandante seppe convincere tutti che il nostro dovere era quello di eseguire gli ordini impartiti da S.M. il Re. Probabilmente aveva già capito che – solo così facendo – la Regia Marina poteva mantenere quanto più possibile intatte la sua forza e la sua credibilità, e ben presto tutti convennero con Roselli Lorenzini che questa era la via da seguire… Facemmo quindi rotta verso Durban (costa orientale del Sud-Africa), ed entrammo in quel porto alle 23.30 del 19 settembre 1943…”.
    I rapporti con le locali autorità britanniche non furono subito dei migliori: agli iniziali sospetto e diffidenza fecero seguito anche veri e propri atti di prevaricazione: “Un giorno verso la fine di settembre alcuni ufficiali della Royal Navy salirono a bordo e cominciarono a impadronirsi di binocoli, sestanti, strumentazione varia e altri elementi dell’allestimento… (ciò – tra l’altro – in contrasto con le clausole armistiziali in base alle quali le Regie Navi non avrebbero mai dovuto ammainare la bandiera, mantenendo quindi inalterate le proprie prerogative e sovranità – n.d.r.). … Il comportamento di Roselli Lorenzini fu, come in tutte le altre occasioni, fermissimo ed esemplare: “sbarcò” senza tanti complimenti gli ufficiali della Royal Navy e comunicò al locale Comando britannico che era pronto anche ad autoaffondare immediatamente il Cagni se simili episodi si fossero ripetuti. La durezza e la chiarezza con cui il nostro comandante si rivolse agli inglesi consentirono di sbloccare ben presto la situazione e, dopo i primi di ottobre, l’equipaggio del Cagni (che viveva in condizioni disagiate a bordo del battello), fu trasferito a terra in un campo ove – con svariate comodità – erano alloggiati numerosi ufficiali della Marina britannica…” La situazione era mutata completamente, e gli italiani del Cagni seppero ben presto acquisire una posizione di “preminenza”: “Una volta giunti nel campo a terra, il personale di cucina del Cagni avviò subito un “servizio mensa” che – con le non molte risorse disponibili – consentiva tuttavia di disporre di un “menù” ottimo e abbondante, secondo le migliori tradizioni della cucina italiana. La fama dei nostri cuochi fu anzi tale che gli ufficiali inglesi che alloggiavano insieme a noi facevano la fila (e pagavano regolarmente il conto…) pur di poter pranzare e cenare alla nostra mensa…” Il Cagni fu sottoposto ad un ciclo di lavori di raddobbo nell’Arsenale di Durban, e l’8 novembre 1943 iniziò la navigazione di rientro verso l’Italia. Dopo aver sostato a Mombasa e Aden, il battello transitò nel Canale di Suez giungendo ad Haifa, ove l’equipaggio trascorse le festività natalizie. Ricorda ancora il C.te Cacace: “Durante la nostra permanenza ad Haifa salirono a bordo ufficiali del genio navale delle Marine britannica e americana; tutti rimasero stupiti dalle caratteristiche tecniche del nostro battello, le cui prestazioni ed armamento ne facevano una vera e propria unità “oceanica” paragonabile alle migliori realizzazioni della Kriegsmarine, della Royal Navy e dell’U.S. Navy. In particolare, il possente armamento (14 tubi lanciasiluri, con una dotazione massima di 42 armi, e due cannoni da 100/47) facevano dei battelli della classe “Cagni” delle unità potenti e ben equilibrate, contraddistinte da ottime doti di velocità e autonomia. E’ un vero peccato che gli altri tre battelli della classe (Ammiraglio Caracciolo, Ammiraglio Millo e Ammiraglio Saint-Bon) siano andati perduti poco dopo l’entrata in servizio, anche perché impiegati in ruoli diversi da quelli per cui erano stati progettati e costruiti… il solo Ammiraglio Cagni sopravvisse al conflitto e fu demolito nel 1948…” Il 4 gennaio 1944 il Cagni ormeggiò a Taranto, alla banchina sommergibili dell’Arsenale, concludendo una missione iniziata più di sei mesi prima a Bordeaux nel corso della quale erano state affondate due navi alleate, danneggiata una terza, con il periplo dell’Africa e durante la quale erano avvenute le drammatiche vicende – navali, militari e politiche, ma soprattutto umane – che avevano coinvolto le vite e le coscienze degli uomini dell’equipaggio successivamente alla proclamazione dell’armistizio l’8 settembre 1943. Poche settimane dopo, Amedeo Cacace si congedò dalla Regia Marina che – in seguito alle riduzioni di mezzi e personale dovute alla nuova posizione di co-belligeranza assunta dall’Italia – favoriva l’ “esodo” di talune aliquote di personale, ormai eccedente le proprie necessità. Il STV Cacace prese quindi servizio a bordo del mercantile Sfinge che, sin dalle prime settimane successive all’armistizio, era impiegato nel cabotaggio tra i porti dell’Italia meridionale. La permanenza del nostro comandante a bordo dello Sfinge si protrasse sino al 1946, quando entrò a far parte dei cinquanta equipaggi italiani che, a bordo della m/n Sestriere, furono inviati negli Stati Uniti per prendere in carico i primi “Liberty” destinati all’Italia, in base al “Piano Marshall”, per la ripresa dei traffici mercantili nazionali. Per un certo tempo, Amedeo Cacace navigò anche su una di queste unità: il Sirena (ex Alexander Mitchell), sbarcando nel 1952. Sul finire del 1952 Amedeo Cacace ebbe notizia che il Corpo dei Piloti del Porto di Savona bandiva un concorso per coprire alcune nuove posizioni: con lo spirito di intraprendenza che lo aveva caratterizzato negli anni di guerra, il nostro comandante partecipò al concorso risultando vincitore e – dal 1953 al 1984 – fece parte dei Piloti della nostra città. Anzi, dal 1972 e sino alla pensione, ricoprì l’incarico di Capo dei Piloti del Porto di Savona, meritando la stima di tutti gli operatori dello “shipping” (e non solo savonese…) per le sue doti professionali e di profonda umanità. Nel frattempo, transitato alla forza “ausiliaria” della Marina Militare, Amedeo Cacace venne promosso più volte, sino a raggiungere il suo attuale grado di Capitano di Fregata del Ruolo d’Onore del Corpo di Stato Maggiore. Uno solo è oggi il rammarico di Amedeo Cacace, e le sue parole sull’argomento sono forse la migliore conclusione di queste note: “Nel 1986, per il tramite dell’Ufficio Storico della Marina Militare, ricevetti la copia di una lettera inviata da un ex-marittimo inglese, Mr. David Mac Connell, imbarcato sull’Asturias all’epoca del siluramento da parte del Cagni il 25 luglio 1943. Mr. Mac Connell richiedeva notizie sul sommergibile che aveva silurato la sua nave in Atlantico, e i responsabili dell’Ufficio Storico mi avevano inviato la lettera in quanto – già all’epoca – ero uno dei pochi ufficiali “superstiti” dell’equipaggio del Cagni… Ancora oggi sono veramente dispiaciuto di non aver avuto la possibilità di organizzare un incontro con questo ex-nemico che, prima di tutto, era un uomo e un marinaio come me e che, anche se su un fronte opposto al mio, aveva condiviso le mie medesime esperienze di mare e di guerra negli anni ormai lontani del secondo conflitto mondiale…”

    Motivazioni delle decorazioni conferite al Comandante Amedeo Cacace
    Medaglia di bronzo al V. M. – Sottotenente di vascello “Imbarcato su Sommergibile Oceanico che durante la lunga missione negli Oceani Atlantico ed Indiano affondava una grande Portaerei Ausiliaria attaccata all’interno delle Siluranti di scorta, recava all’efficienza dei servizi il contributo delle proprie elevate qualità militari e professionali e con la pronta e precisa esecuzione degli ordini assicurava il successo del vittorioso attacco”. Oceano Atlantico e Oceano Indiano, 29 giugno 1943 -2 gennaio 1944.
    Croce di guerra al V. M. – Aspirante Guardiamarina “Sottordine alla rotta di un sommergibile oceanico, nel corso di due lunghe missioni di guerra nell’Oceano Atlantico dimostrava profondo entusiasmo e continuo attaccamento al servizio; in particolare, durante l’affondamento col siluro di un grosso piroscafo armato nemico, era di ausilio al Comandante dimostrando alto senso del dovere e sereno sprezzo del pericolo”. 8 gennaio 1941.
    Croce di guerra al V. M. – Guardiamarina “Imbarcato su un sommergibile, impiegato in una serie di dure missioni di rifornimento, si prodigava con entusiasmo senza misurare fatica e rischio, dimostrando dedizione al dovere, sereno coraggio ed alto senso di amor di Patria”. Maggio – agosto 1941.
    Croce di guerra al V. M. – Guardiamarina “Imbarcato su sommergibile, impiegato in una serie di dure missioni di rifornimento, si prodigava con entusiasmo senza lisurare fatica e rischio, dimostrando dedizione al dovere, sereno coraggio ed alto senso di amor di Patria” Ottobre – dicembre 1941
    Croce di guerra al V. M. – Guardiamarina “Imbarcato su sommergibile, in una missione di guerra coadiuvava con serenità e ardimento il Comandante nella efficace reazione ad attacchi di aerei nemici, contribuendo all’abbattimento di un grosso apparecchio da bombardamento”. 14 novembre 1941.
    Croce di guerra al V. M. – Sottotenente di Vascello “Imbarcato su Unità subacquea partecipava con entusiasmo alla preparazione del battello per lunga missione atlantica. Durante detta missione collaborava col Comandante per 137 giorni spiegando nella quotidiana durissima fatica spirito di sacrificio. Durante il passaggio dello Stretto di Gibilterra, l’affondamento di due mercantili e durante attacco aereo avversario esplicava con calma ed entusiasmo il proprio compito. Oceano Atlantico, 6 ottobre 1942 – 20 febbraio 1943.
    Croce di guerra al V. M. – Sottotenente di Vascello “Ufficiale di rotta di Sommergibile durante il terzo anno della guerra 1940-43, partecipava a numerose missioni di guerra, in acque contrastate dal nemico, assolvendo in ogni circostanza il proprio incarico con coraggio, abnegazione ed elevato sentimento del dovere”. Mediterraneo Orientale -Atlantico, 10 giugno 1942 -8 settembre 1943.

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    2.2.1866, il Comandante Arminjon e la traversata della regia pirocorvetta Magenta

    Partimmo da Montevideo il 2 febbraio; appena usciti dal Rio della Plata spegnemmo i fuochi, e spinti da alquanto vento variabile fra il N.O. e il S.O. corremmo a levante onde tagliare il 30° parallelo possibilmente per 35 gradi di longitudine Ovest Greenwich. La stagione non era favorevole per una traversata breve: venti contrari e fiacchi quasi fino alla linea, circa 6800 miglia da fare. E dopo due giorni di navigazione si pose a soffiare il vento del Nord, il quale regna quasi tutto l’anno in vicinanza della costa d’America.
    Il giorno 19 non avevamo ancora passato il tropico e si restava in bonaccia: poco o nulla s’era guadagnato nei giorni precedenti sul bordeggio. Si accesero due caldaie e corremmo a macchina 36 ore finché trovammo una leggera brezza dall’Est la quale ci condusse in vista delle isole della Trinità dove rimanemmo nuovamente in bonaccia.
    L’aliseo E S E s’incontrò soltanto per il 18° di latitudine il giorno 27 gennaio; egli variò dall’E all’E S E e ci condusse fino alla linea equatoriale. Sulla linea (6 febbraio) in 23° di longitudine Ovest Greenwich vedemmo parecchie navi mercantili e con alcune scambiammo segnali usando la serie Marryat, la quale per esclusione di ogni altra è divenuta un vero codice internazionale. Si comunicò una lista di queste navi al R. Console di Gibilterra perché la facesse pubblicare per utile degli armatori. Per traversare la regione di bonacce fra gli alisei dei due emisferi adoperammo la forza motrice di due caldaie. In questo viaggio non ottenemmo risultati soddisfacenti nel cammino in proporzione del carbone consumato, e questo per la mediocre qualità di Cardiff avuta a Montevideo. Con 165 tonnellate di carbone bruciato avremmo dovuto correre 800 miglia in mare tranquillo, mentre invece ne facemmo poco più di 600. Quando arrestammo s’era in 3°40’ di latitudine N, ma rimanemmo sette giorni in aspettativa del vento. Sotto la linea la macchina rimase in moto solo 36 ore.

    Il tedio di questi giorni perduti fu diminuito dall’emozione d’una pesca straordinaria di dorate che si fece il giorno 12 e di cui il prodotto fu sufficiente per l’intero equipaggio.
    Corremmo fino al 35° meridiano Ovest con venti variabili dal N. all’E, proma di volgere alquanto la prua a Levante; ma passato il 19° grado di latitudine il vento girò all’E e al SE. Nei giorni 28 e 29 febbraio la Magenta ebbe una media di 204 miglia in 24 ore, cosa insolita in questa campagna.
    Ebbimo vento da ponente nei giorni 3, 4, 5, 6, 7, 8 marzo.
    Li 6 marzo (Lat. 26° 38’ N; Long. 20° 18’ O Green) ci chiese del biscotto la barca francese Félicie diretta da Sterboro (costa d’Africa, Sierra Leone) a Marsiglia.
    Il capitano signor Solaro e il nostromo erano ammalati piuttosto gravemente: un marinaro era morto di malattia di petto. La nave avea già settanta giorni di viaggio e le provviste erano esaurite; non rimaneva neppur legna da accendere il fuoco. Si mandò una lancia con 53 chilogrammi di biscotto e tutti gli altri generi necessari, Credevamo arrivare a Gibilterra per 14 marzo e di festeggiarvi la nascita di S.M., ma i giorni 12, 13 e 14 il vento si mantenne fra il N.E. e l’E., e probabilmente saremmo rimasti qualche giorno di più di mare se non ci fossimo aiutati colla macchina.
    Accendemmo a 126 miglia da Gibilterra e nel giungervi avevamo 73 giorni di mare; cioè 20 di più della traversata che fece il Principe Umberto nel 1866.
    (7 marzo – 29 aprile)
    Il Comandante
    V. Arminjon

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    Paolo Di Domenico (Santa Maria Infante (LT), 1.2.1930 – Gaeta (LT), 15.11.1990)

    di Mario Di Domenico

    (Santa Maria Infante (LT), 1.2.1930 – Gaeta (LT), 15.11.1990)


    … riceviamo e con grandissimo orgoglio pubblichiamo.

    Ciao Ezio,
    grazie della proposta per ricordare Papà.
    Si chiamava Paolo Di Domenico, nato a Santa Maria Infante (LT) il 1° febbraio 1930, purtroppo deceduto a Gaeta (LT), (storica base della Nostra Marina Militare), abbastanza giovane, il 15 novembre 1990.
    E’ stato imbarcato sulla nave Montecuccoli (*).
    Grazie ed un caro abbraccio.

    (*) dello stesso argomento sul blog:
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2023/08/2-8-1934-varo-della-regia-nave-raimondo-montecuccoli-2/
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2023/09/8-9-1959-nave-montecuccoli-consegne-per-laccensione-4/
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2023/06/i-centum-culi-di-raimondo-montecuccoli-3/

  • Marinai,  Marinai di una volta,  Racconti,  Recensioni,  Storia

    Nicola Fele (Napoli, 1.2.1969 – Mare, 15.12.1992)

    di Anna Accardo

    (Napoli, 1.2.1969 – Mare, 15.12.1992)

    … riceviamo e con orgoglio e commozione pubblichiamo.

    Figlio mio, sono passati 31anni da quando un destino crudele ti ha strappato ai nostri affetti.
    I tuoi sogni,  i tuoi progetti per il futuro, tutto finito.
    Quanta sofferenza hai dovuto subire, là sotto, nell’oscurità, in fondo al mare. Solo!
    Mentre noi eravamo in attesa delle feste natalizie e ci preparavamo ad accoglierti per stare insieme tu sei andato dall’altra parte e per noi il Natale è solo il ricordo della tragedia che ci ha colpito.
    Ti parlo qui su questa pagina, spero che ti arrivi il mio pensiero e che tu senta il calore del mio amore infinito. Cerca di stare bene, tesoro. Che la luce e le braccia di Dio ti avvolgono in un caldo abbraccio. Quell’abbraccio che non ho potuto darti nel momento in cui hai lasciato questo mondo. A presto tesoro mio. Mamma!

     

     

     Il 15 dicembre del 1992, durante un’immersione nel basso Adriatico perdeva la vita Nicola Fele, Secondo Capo del Gruppo Operativo Incursori della Marina Militare.
    Nicola era nato a Napoli il 1° febbraio 1969, ancora bambino si trasferì a Chiavari con la famiglia e la grande passione per il mare lo portò ad arruolarsi in Marina Militare e guadagnarsi l’ambito basco verde nel 1991 frequentando il 41° corso “Ares”, alla cerimonia di imbascamento presenziò l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
    I tragici fatti raccontano di una immersione di coppia che non lo ha più visto risalire, era prevista un’attività in carena del cacciatorpediniere Audace, su cui era imbarcato, unità impegnata nell’esercitazione STANAVFORMED con attività di controllo all’interno della missione NATO Sharp Guard.
    Nicola Fele è stato insignito diMedaglia d’oro al valore di Marina con la seguente motivazione:
    Imbarcato in qualità di componente del team ispettivo di controllo di navi mercantili in ottemperanza all’embargo decretato dalle Nazioni Unite in Adriatico, offriva  volontariamente la  sua  piena  disponibilità ad eseguire una delicata operazione in carena insieme ad altro sottufficiale incursore  e  si  prodigava  ad attuarla  con  slancio,  generosità  e  piena immedesimazione con le esigenze operative dell’unita’, incurante della  potenziale  minaccia di  azioni  ostili  dall’esterno.  Dopo  aver  eseguito  con  perizia marinaresca  e  professionalità’  la  prima  parte   dell’operazione, decedeva  nel  portare  a  termine il suo compito. Fulgido esempio di assoluta dedizione al servizio, nel solco delle nobili tradizioni del Reparto  Incursori  della  Marina  Militare“.