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    Enrico Evangelista (Zara, 9.7.1920 – 25.3.1995)

    di Guglielmo Evangelista(*)

    (Zara, 9.7.1920 – 25.3.1995)

    IN RICORDO DI MIO PADRE

    Cento anni fa, il 9 luglio 1920, nasceva mio padre Enrico Evangelista.
    Nacque a Zara ma non era dalmata: infatti era lì che si trovava in quel momento destinato suo padre, cioè mio nonno, capitano macchinista, credo direttore di macchina su un cacciatorpediniere.
    Venne poi il trasferimento a Genova dove frequentò tutte le scuole e, al termine del liceo, che cosa poteva fare un ligure e figlio d’arte? Fu ammesso nel 1938 all’Accademia Navale di Livorno, corso “Uragano”.
    Guardiamarina nel 1941, trascorse l’intero conflitto sugli incrociatori: partecipò alla seconda battaglia della Sirte: credo che fu lì che un cavo tranciato da una cannonata sciabolò sul ponte rompendogli una gamba e nel 1942, imbarcato sull’incrociatore  Bande Nere, fu silurato salvandosi per miracolo. Fu  poi in Grecia dove si prese la malaria.
    Certamente c’è chi ne ha passate  di peggio, ma direi che basti.
    L’8 settembre 1943, a bordo dell’incrociatore Attilio Regolo, partecipò al salvataggio dei naufraghi della Roma e poi fu internato a porto Mahon nelle Baleari dove rimase fino al 1945.
    Devo confessare di non sapere molto della sua vita in guerra: ne parlava poco, e sempre in modo pacato, niente speranze e tanto meno retorica, ma neanche paure o perplessità.
    Nel dopoguerra seguirono le destinazioni a terra: Venezia, Ancona, Varignano, Roma  intervallati dagli imbarchi: ancora gli incrociatori, e fu l’ultimo direttore del tiro  del  Garibaldi  (quello che considerava, e io concordo ancora, il Garibaldi “vero” con i 152)  prima che entrasse in bacino per la ricostruzione; vi fu anche  la vigilanza pesca al largo della Jugoslavia, ricettacolo di gente cattivissima, al comando della cannoniera Bracco,  ma soprattutto la sua vita in mare fu caratterizzata dagli imbarchi sui dragamine. Da tenente di vascello comandò una squadriglia di dragamine veloci, venne poi  il comando della 52^ Squadriglia di Messina da capitano di fregata e quello del secondo gruppo da capitano di Vascello che fu l’ultimo comando: dopodiché ebbe vari incarichi al Ministero e non si spostò più da Roma.
    L’ultima destinazione fu a Maripers dove si occupava dei trasferimenti dei sottufficiali. Come ho già detto del suo lavoro e delle sue esperienze parlava poco, ma in quegli ultimi anni ogni volta che tornava a casa raccontava spesso, addolorato, come fosse costretto a creare malumori e ad ignorare tanti casi umani, ma il servizio era il servizio.
    Nel frattempo anch’io divenni ufficiale e talvolta uscivamo di casa insieme benché diretti verso mete diverse e uno dei miei crucci è di non aver mai pensato a fare una fotografia insieme in uniforme. Non mi incoraggiò ad entrare in marina, e neppure mi scoraggiò a farlo ma molti anni dopo che lasciai la divisa mi disse: “Sapevo benissimo che non eri tagliato”. Però, dirmelo prima….avrei avuto qualche amarezza di meno.
    Lasciò il servizio da contrammiraglio “a disposizione” a fine anni ’70 pur continuando, per conto del Ministero, ad occuparsi di alcune opere di beneficenza.  Dopo il congedo arrivarono le promozioni di rito fino ad ammiraglio di squadra a titolo onorifico. In età abbastanza tarda si iscrisse all’ANMI. Ci lasciò anzitempo il 25 marzo 1995.

    Come per tutti i marinai la sua vita è stata dura e, conformemente al suo carattere, piuttosto defilata.
    Niente incarichi appariscenti, niente missioni all’estero, niente ricevimenti brillanti, niente codazzi di aiutanti di bandiera e specialmente niente eroismi di guerra e niente medaglie al valore. Ma queste cose sono solo un sovrappiù. La Marina chiede molto al corpo, alla mente, alle famiglie e sono cose che si vedono;  restituisce molto, ma solo al cuore, e quello non si vede: sono sicuro che il suo compenso l’abbia ricevuto.
    L’importante è essere umili  e fedeli, nel poco e nel molto, e così la vita militare sarà immancabilmente dignitosa e meritevole di essere vissuta.
    Almeno una volta. Oggi non lo so più.   

    (*) per conoscere gli altri suoi articoli digita sul motore di ricerca del blog il suo nome e cognome.

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    9.7.1942, viene bombardato il regio sommergibile Perla

    di Antonio Cimmino

    PER GRAZIA RICEVUTA

    Il regio sommergibile Perla il 9 luglio 1942 subì un intenso bombardamento, con cariche di profondità, dalla corvetta britannica HMS Hyacinth al largo di Cipro che costrinse il battello a riemergere.
    Fallito il tentativo di auto affondamento, il sommergibile fu catturato e incorporato nella Royal Navy (P 712) e successivamente nella Marina Greca (Matrozos).

    Tutto l’equipaggio fu recuperato e preso prigioniero dagli inglesi, tranne il sergente Antonio De Maria deceduto nello scontro.
    Nel combattimento del 27 giugno 1940 aveva già perso 13 uomini dell’equipaggio.

    Questa testimonianza è stata resa dal Marinaio Alfonso Esposito, nato a Castellammare di Stabia il 30 agosto 1914 e morto a Milano il 2 maggio 1990.
    Alfonso nel corso della sua vita ricordava spesso questo episodio e il combattimento del 27 giugno 1940 dove, con il regio sommergibile Perla, aveva perso 13 marinai suoi amici.

    Il giro dell’Africa in 80 giorni ed altre storie di Igino Isian Ripai
    di Vittorio N Guillot

    Questo libro racconta la vicenda bellica di un mio zio acquisito, ufficiale di rotta sul regio sommergibilecostiero Perla che, alla caduta dell’Africa Orientale, per sfuggire agli inglesi, fece il periplo dell’Africa ed arrivò a Bordeaux (BETASOM).

    Successivamente, entrato in Mediterraneo, il “Perla” fu catturato dagli inglesi al largo di Beirut. Mio zio fu fatto prigioniero e trasportato nel campo di Dera Duhn, ai piedi dell’Himalaya.
    Prigioniero NON cooperatore e fortemente incavolato col re e Badoglio a causa dell’infame armistizio, fu ospite di sua maestà britannica fino al luglio del ’46, quando fuggì con un compagno di prigionia e raggiunse Napoli imbarcandosi clandestinamente su una nave mercantile.
    Biagio, classe 1918, nato a Torre Annunziata, diplomato nautico, nell’ottobre del ’38 fu ammesso alla frequenza del 34° corso allievi ufficiali di complemento presso l’accademia navale di Livorno.
    Nel giugno del 1939, nominato aspirante guardiamarina di complemento imbarca sul regio sommergibile Tazzoli, e nel gennaio 1940, come ufficiale di rotta, è destinato sul regio sommergibile Perla che, poco dopo, viene inviato a Massaua, in Eritrea.
    Nel febbraio 1941, allo scadere della ferma di leva, è trattenuto in servizio per esigenze di carattere eccezionale (l’Italia è in guerra).
    Biagio segue la sorte del “Perla”; partecipa al periplo dell’Africa ed alle missioni del sommergibile, fino alla cattura, davanti a Beirut, nel luglio 1942.

    Inizia così il lungo periodo di prigionia in India, durato ben quattro anni, prima del rientro in Patria, ad agosto del 1946.

    “Facemmo il nostro dovere perché le circostanze lo richiedevano, vedemmo cadere o scoparire in mare tanti amici con i quali avevamo diviso gioie e ansie della giovinezza. Agimmo senza esaltazioni, e anche senza recriminazioni. Quelli che, dopo di noi, fossero chiamati a prove analoghe, cosa che certo non mi auguro si comporterebbero esattamente come noi, come noi ci siamo comportati come quelli che ci hanno preceduto.
    E’ una certezza , non una speranza. Biagio”.

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    Mario Gai (Buggerru, 21.12.1920 – Mare, 8.7.1942)

    di Mario Gai

    (Buggerru, 21.12.1920 – Mare, 8.7.1942)

    Mario Gai nasce a Buggerru il 21.12.1920, è stato un  marinaio del regio sommergibile Zaffiro.
    Disperso in Mediterraneo Centrale, presumibilmente fra il 9.6.1942 e l’8.7.1942.
    Il regio sommergibile Zaffiro, classe “Sirena”, dislocava in superficie 681 e in immersione 842 tonnellate.
    Costruito nei Cantieri OTO di Livorno, era entrato in servizio il 4/6/1934. Venne affondato presumibilmente, data compresa fra 9.6.1942 e l’8.7.1942, da un aereo nemico in una località del Mediterraneo occidentale non definibile a sud delle isole Isole Baleari. Con il battello scomparve l’intero equipaggio composto da 5 ufficiali e 42 tra sottufficiali, sottocapi e comuni.
    ONORE AI CADUTI!

    IN MEMORIA DEI MARINAI CHE NON FECERO PIU’ RIENTRO ALLA BASE 

    Una bella foto del regio sommergibile Zaffiro, classe “Sirena”.
    Questo battello dislocava in superficie 681 tonnellate e in immersione 842 tonnellate. Impostato il 16 settembre 1931 nei Cantieri OTO di La Spezia, era stato varato il 28 giugno 1933 ed era entrato in servizio il 4 giugno 1934.
    Nel periodo prebellico svolse le normali crociere addestrative annuali e, all’inizio del secondo conflitto mondiale, fu destinato a Lero da dove iniziò la sua attività bellica.
    In occasione della famosa missione compiuta la notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941 dagli uomini della X MAS ad Alessandria d’Egitto, che culminò con l’affondamento delle due corazzate britanniche “Valiant” e “Queen Elizabeth”, fu destinato a stazionare davanti a quel porto per recuperare gli operatori subacquei che eventualmente fossero riusciti a sottrarsi alla cattura. Per alcuni giorni pendolò nella zona disimpegnandosi anche dall’attacco di una unità antisommergibile avversaria. Dopo un’inutile attesa, il 25 dicembre fece rientro a Lero.
    Venne affondato in data imprecisabile tra il 9 giugno e l’8 luglio 1942, presumibilmente il 9 giugno, da un aereo nemico in una località del Mediterraneo occidentale non definibile a sud delle Isole Baleari. Il battello aveva lasciato la base di Cagliari l’8 giugno per portarsi in zona d’agguato a sud delle Baleari; successivamente gli erano stati ordinati degli spostamenti per intercettare una forza navale nemica proveniente da Gibilterra. Purtroppo dopo la partenza non diede più segni di vita, non rispondendo mai alle segnalazioni radio inviategli fino al 22 giugno. Da fonti ufficiali inglesi venne comunicato l’affondamento di un sommergibile per attacco aereo proprio il 9 giugno. Per la posizione e per l’epoca dell’avvenimento, si ritiene che il battello affondato era lo “Zaffiro”.
    Con l’unità scomparve l’intero equipaggio composto da 5 ufficiali e 42 tra sottufficiali, sottocapi e comuni.
    Il suo motto fu “Ubique fulgeo” (Ovunque rifulgo).
    ONORE AI CADUTI.

    I MARINAI CADUTI
    (fonte www.conlapelleappesaaunchiodo)

    Enrico Aldinucci, sottocapo
    Roberto Aprile, sottocapo
    Giulio Areggi, sottocapo
    Tristano Arich (o Arich-Tich), guardiamarina
    Bruno Bertini, sottotenente di vascello
    Bruno Bertolini, comune
    Giovanni Bona, sergente
    Giovanni Bonaldo, comune
    Alfirio Bonuccelli (o Bonucelli), capo di terza classe
    Bruno Borra, sergente
    Vincenzo Bugetti, sergente
    Giovanni Burgato, capo di terza classe
    Cesario (o Cesare) Cadario, aspirante guardiamarina
    Mario Carboni, sottocapo
    Giuseppe Coluccio, comune
    Guido Corio, comune
    Ignazio Dellarieri, capo di prima classe
    Carlo Dente, comune
    Armando (o Felice) Di Somma, secondo capo
    Vincenzo Faragalli, comune
    Raffaele Finto, secondo capo
    Cosimo Fonseca, comune
    Giovanni Gadeschi, sottocapo
    Mario Gai (o Gay), comune
    Antonio Gerardi, secondo capo
    Marcello Guidone, sottocapo
    Antonio Loni, sottocapo
    Rino Mezzenzanica, sottocapo
    Agostino Mira, sergente
    Carlo Mottura, tenente di vascello (comandante)
    Francesco Noviello, secondo capo
    Antonio Pacifico, comune
    Vincenzo Paracalli, comune
    Antonio Pedicini, secondo capo
    Raffaele Pinto, secondo capo
    Arnaldo Quaglia, sottocapo
    Gualtiero Rama, sottocapo (nato a Firenze nel 1921)
    Gigetto Ribuoli, sottocapo
    Renato Rossarola, sottocapo
    Orazio Ruvolo, secondo capo
    Pierino Santoni, comune
    Stanislao Scukovit, sottocapo
    Giuseppe Taccone, sottocapo (da Ricadi)
    Luciano Tartara, sottocapo
    Paolo Trentin, secondo capo (nato ad Arre l’8 ottobre 1914 da Ernesto e Margherita Ciceri)
    Sergio Uva, comune
    Armando Vargiu, comune
    Corrado Zanna, tenente del Genio Navale (direttore di macchina)
    Angelo Zerbinati, sergente.

    Dello stesso argomento sul blog:
    https://www.lavocedelmarinaio.com/2021/06/9-6-1942-affondamento-del-regio-sommergibile-zaffiro-3/

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    8.7.2005, in ricordo di Andrea Valcanover

    di Enrico Moizzi, Francesco Bianco, Vico Chiaverini, Raimondo Barrera 

    …riceviamo dai fratelli Marinai del rimorchiatore Titano e con commozione pubblichiamo sottolineando, qualora ce ne fosse ancora di bisogno, qual’è il legame d’amore che lega i Marinai per sempre. 

    Hai ragione,
    Andrea era un buono anche quando era sul Titano, eravamo amici.
    L’ho cercato per anni, senza riuscire a trovarlo.
    Poi con Facebook sono riuscito a contattare alcuni abitanti di Pergine che mi hanno dato la brutta notizia. Leggendo le pagine dei giornali, che mi ha mandato la cugina, ho visto che ha vissuto gli ultimi 12 anni della sua vita in Africa ad aiutare chi aveva bisogno.
    La sua è una bellissima storia, purtroppo finita troppo presto.
    Era proprio un Eroe Titanico.
    Mi piacerebbe che la sua storia fosse letta da qualcuno della <Voce del Marinaio>.
    Enrico Moizzi

    Bravo Enrico!
    Tutta la mia ammirazione per Andrea!
    Destino …
    Francesco Bianco

    Lo ricordo benissimo era il radiotelegrafista.
    Vico Chiaverini

    Siamo in pochi che l’abbiamo conosciuto….però faceva sempre parte del Titano e…
    Enrico Moizzi

    Gia’! Sfortunato
    Francesco Bianco

    Che la terra ti sia lieve Andrea!
    Riposa in pace Eroe Titanico.
    Barrera Raimondo

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    Giuseppe Pili (Tortolì, 8.7.1921 – Mare, 28.8.1943)

    di Frederic Erminio Todde

    (Tortolì, 8.7.1921 – Mare, 28.8.1943)

    Vi racconto una storia di guerra, quella che parla degli ultimi giorni del regio cacciatorpediniere Lince, perché questa? Perché proprio questa? Perché tra le vittime vi era un “Ogliastrino”, Giuseppe Pili, 22 anni, fuochista ordinario, da Tortolì, figlio di Rosa Congiu e Francesco Pili.

     

    Dedico questo articolo ad una memoria storica Tortoliese, la splendida Assunta Pili, che porta ancora il ricordo del fratello Giuseppe.

    Regia nave Lince, l’ultima torpediniera silurata
    Dopo essere sopravvissuta a tre durissimi anni di guerra sulle rotte del Dodecaneso, dell’Egeo e dell’Africa, scortando convogli, attaccando navi nemiche, contrastando lo sbarco di Castelrosso ed assolvendo a molteplici altri compiti, sempre riuscendo a rientrare alla base, la Lince ebbe l’amaro primato di diventare l’ultima torpediniera italiana ad andare perduta nel conflitto contro gli Alleati.
    Il 4 agosto 1943, poco più di un mese prima dell’annuncio dell’armistizio, la Lince, al comando del capitano di corvetta Riccardo Papino, lasciò Taranto per raggiungere Genova, dov’era stata appena assegnata di base. Il giorno stesso, però, a causa di un errore di navigazione commesso dal comandante durante l’attraversamento di un banco di nebbia (per altra versione ciò avvenne durante un attacco aereo), la torpediniera s’incagliò un chilometro ad ovest del faro di Punta Alice, vicino al paese di Cirò Marina, nel Golfo di Taranto.
    Nonostante gli ordini giunti da Taranto, non risultò possibile disincagliare subito la nave, quindi i 160 uomini dell’equipaggio si dovettero accampare sulla spiaggia di sabbia e ciottoli nella quale la nave si era arenata, aspettando di poterla liberare. Per una decina di giorni gli uomini, alloggiati in tende sulla spiaggia, lavorarono per rimuovere la ghiaia e preparare lo scivolo che avrebbe dovuto permettere alla chiglia di tornare in acque libere, poi giunsero da Taranto due rimorchiatori di grande potenza. Allestiti i cavi per il rimorchio, i due rimorchiatori iniziarono a tirare, ma nell’operazione uno scoglio nascosto dalla sabbia aprì uno squarcio nella carena. Il tentativo di creare una certa inclinazione, legando anche una cima al cannone poppiero, si risolse in un ulteriore peggioramento della situazione: il cannone venne infatti strappato dal suo alloggiamento e trascinato in mare. Alla fine, risultato inutile ogni tentativo, i rimorchiatori tornarono a Taranto.
    Sulla nave incagliata vigilavano un aereo ed un treno armato.
    Durante la loro permanenza a Cirò Marina, gli uomini della Lince fecero rapidamente amicizia con la popolazione locale, scambiando generi alimentari (provviste del luogo in cambio di barrette di cioccolato e scatolame dai marinai) e dando anche luogo a qualche episodio curioso, come quando un inesperto marinaio del nord nascose dei fichi d’india sotto la sua maglia, il che richiese poi due giorni di sforzi, da parte di una donna del posto, per estrarre tutte le spine conficcatesi nel suo corpo.
    Dopo più di tre settimane e vari tentativi andati a vuoto, la Lince non era ancora stata disincagliata: e così la colse, immobilizzata ed indifesa, il sommergibile britannico Ultor, del capitano di corvetta George Hunt, il mattino del 28 agosto, mentre rientrava da un appostamento davanti a Taranto. Proprio quello sarebbe dovuto essere il giorno in cui – si sperava – la Lince sarebbe finalmente stata in grado di disincagliarsi: una nuova squadra incaricata dei lavori di disincaglio sarebbe dovuta partire da Taranto quella sera, come il comando della piazzaforte aveva già comunicato a quello della Lince, ed inoltre alle operazioni per liberare la nave avrebbero partecipato anche una draga, la Littorio, ed altri mezzi appositamente inviati dall’Arsenale di Taranto.
    Il comandante Papino, giustamente preoccupato che prima o poi qualche sommergibile od aereo nemico avrebbe potuto trovare la sua Lince bloccata ed inerme ed attaccarla, aveva già chiesto il 18 agosto, a Marina Taranto, di mandare dieci cariche esplosive per l’eventuale autodistruzione della torpediniera (dato che quelle in dotazione, tranne una, erano state rimosse per alleggerire la nave) e sul da farsi riguardo all’archivio segreto (se mantenerlo oppure mandarlo del tutto od in parte a Taranto via nave) nonché su cosa sarebbe stato dell’equipaggio in caso di abbandono nave. Ora i peggiori timori si sarebbero avverati.
    Sull’Ultor, il comandante Hunt notò che la Lince aveva la prua profondamente arenata nella spiaggia, ma la poppa libera e galleggiante, ed osservò una moltitudine di uomini intenti a scavare due grandi fosse ai lati della nave, per tentare di disincagliarla. Hunt ordinò quindi il lancio di un siluro, da 1500 metri di distanza.

    Sulla Lince, il comandante Papino stava scendendo in cabina per lavarsi. Nei pressi della torpediniera incagliata si trovava anche la barca da pesca di una famiglia di Cirò Marina, i Martino: Francesco Martino, il capofamiglia, ed i suoi figli Pietro e Vincenzo si trovavano a bordo. Con loro c’era anche un bambino del luogo, Francesco Salvatore Tridico, di dodici anni, che trovandosi sulla spiaggia quel mattino aveva chiesto di salire con loro sulla barca (capitava spesso che dei pescatori ospitassero dei bambini) per assistere e partecipare alla pesca con la tartana. La barca dei Martino affiancò la Lince, ed un ufficiale che passeggiava sul ponte – forse il sottotenente di vascello Enzo Rossi – rispose al saluto dei pescatori.
    Alle 8.15 il siluro dell’Ultor andò a segno, colpendo la Lince a poppa sinistra e provocando una duplice violenta esplosione (tanto che da parte italiana si pensò che i siluri fossero stati due), che spezzò in due la nave: la poppa della torpediniera, dalla sala macchine poppiera in poi, saltò in aria, si staccò dal resto dello scafo ed affondò nel punto 39°24’ N e 17°09’ E; il complesso numero 2 da 100 mm, con la sua piccola plancia e tutti i serventi, venne strappato dal suo alloggiamento e lanciato tra plancia e fumaiolo, mentre schegge e lamiere vennero proiettate ovunque, sul resto della nave e sulla spiaggia circostante. Oltre ad uccidere il comandante Papino ed altri otto membri dell’equipaggio, che si trovavano sulla nave, l’esplosione travolse anche la piccola barca da pesca della famiglia Martino, che si trovava a 20-30 metri dalla riva ed a pochi metri dalla torpediniera, proprio mentre i suoi occupanti stavano salutando l’equipaggio della Lince: perse la vita il piccolo Francesco Salvatore Tridico, ed il ventenne Pietro Martino ebbe una gamba maciullata da una delle lamiere della torpediniera. Dopo l’esplosione, vedendo la nave dilaniata, Pietro Martino chiese istintivamente al padre “Papà dov’é andato il comandante?”, poi, ancora stordito, ma resosi conto della ferita, esclamò “Papà, mi manca una gamba: mi ha colpito qualche lamiera”. Fu un altro peschereccio, appartenente alla famiglia Malena, a soccorrere Pietro Martino, che fu poi portato dagli stessi pescatori fino alla ferrovia e caricato su un treno merci che lo trasportò a Rossano, dove fu condotto all’ospedale e dovette subire l’amputazione della gambaTra i feriti gravi, il sottocapo meccanico Luciano Nicosia spirò il 30 agosto, portando a dieci le vittime tra l’equipaggio.
    Tra quanti, a bordo della torpediniera, ebbero miracolosamente salva la vita, vi fu il marinaio Angiolo Mascalchi, che si salvò perché poco prima del siluramento era salito sul ponte per scrivere una lettera alla famiglia: un suo commilitone, che gli aveva prestato la penna per scrivere e lo aveva preso in giro chiedendogli se non fosse stato meglio se si fosse messo a dormire, non fu altrettanto fortunato.
    Devastata ma non doma, la Lince riuscì ancora ad aprire il fuoco con il complesso numero 1 da 100 mm quando l’Ultor tentò di emergere – probabilmente credendo la nave abbandonata – e spinse la torretta fuor d’acqua: il cannone sparò ad alzo zero, ma il sommergibile era emerso così vicino che non fu possibile colpirlo (i proiettili lo sorvolavano e cadevano oltre), poi, vista la reazione, tornò ad immergersi e si allontanò. Per la torpediniera, comunque, era la fine: non c’era nessuna ragionevole probabilità di poter riparare quel che ne restava al di sopra della superficie.
    (Un’altra versione dell’attacco presenta varie differenze: l’Ultor avrebbe dapprima attaccato con il cannone, venendo costretto all’immersione dalla reazione del cannone di prua della Lince, che avrebbe sparato almeno due colpi; solo dopo avrebbe attaccato con il siluro. Il comandante Papino si sarebbe trovato, al momento del siluramento, a poppa ed intento a dirigere il tiro del cannone, e sarebbe stato disintegrato dall’esplosione del siluro. Tale versione indica in 12 o 13, invece che in 10, i morti tra l’equipaggio della Lince).
    Delle dieci vittime dell’equipaggio, il comandante Papino fu l’unico a non essere mai più ritrovato, nemmeno quando, anni dopo, ciò che restava della torpediniera venne demolito. Nemmeno del piccolo Tridico si poté mai più trovare il corpo. Dopo un funerale celebrato da don Ernesto Terminelli nella chiesa di San Cataldo Vescovo a Cirò (alla presenza del resto dell’equipaggio, che recitò la preghiera del marinaio), il marinaio Antonio Bagnato ed il sergente Renato Pedemonte vennero sepolti nel cimitero di Crotone, le altre vittime a Cirò Marina, da dove poi le salme furono trasferite nei paesi d’origine.

    Le vittime
    Antonio Bagnato, 23 anni, marinaio nocchiere, da Parghelia
    Mario Buccirossi, cannoniere
    Elio Buraschi, 22 anni, cannoniere armaiolo, da Milano
    Luigi Cravotta, 20 anni, cannoniere, da San Cataldo
    Ruggero Fioretti, 22 anni, fuochista artefice, da Foligno
    Luciano Nicosia, 21 anni, sottocapo meccanico, da Vittoria
    Riccardo Papino, 34 anni, capitano di corvetta (comandante), da Torino
    Renato Pedemonte, 26 anni, sergente torpediniere, da Genova
    Giuseppe Pili, 22 anni, fuochista ordinario, da Tortolì
    Enzo Rossi, sottotenente di vascello (direttore di tiro)
    Francesco Salvatore Tridico, 12 anni, civile di Cirò Marina (ucciso su una barca vicina dall’esplosione)

    Il resto dell’equipaggio smantellò l’accampamento di Punta Alice e partì, destinato a nuovi incarichi. Non tutti, però, se ne andarono: il marinaio Francesco Donnici, di Cariati, che ricevette il compito di fare la guardia al relitto semidistrutto della Lince, conobbe una ragazza di Cirò Marina ed in seguito la sposò e si stabilì nel paese, passandovi il resto della sua vita.
    Ad uno dei macchinisti della Lince, emigrato nell’immediato dopoguerra in Australia, toccò in sorte di avere come vicino di casa un ex membro dell’equipaggio del sommergibile britannico che aveva infruttuosamente attaccato la torpediniera al largo di Tripoli, nel gennaio 1943.
    Il cuoco di bordo della Lince, Bruno Lombardi, costruì un albergo a San Mauro a Mare (Forlì) ed ebbe l’idea, nel 1993, di organizzare presso il suo albergo un ritrovo per i sopravvissuti della Lince: insieme ad altri tre ex commilitoni, il medico di bordo riminese Falco Lazzari, il sergente torinese Antonio Chiabotto ed il sottocapo fuochista goriziano Agostino Tacchinardi, Lombardi riuscì a rintracciare i componenti del vecchio equipaggio.

    Il troncone prodiero della Lince rimase abbandonato sulla spiaggia ancora per diversi anni, visibile ricordo della tragedia, prima di essere definitivamente demolito in loco tra il 1949 ed il 1950. I resti dilaniati della poppa, invece, giacciono tutt’ora sparpagliati a diverse profondità su un’area piuttosto vasta; non si tratta di un troncone integro di nave, bensì di un gran numero di rottami, tra cui uno dei tubi lanciasiluri da 450 mm (che giace a soli quattro metri di profondità) ed uno dei pezzi da 100/47 mm, disseminati sul fondale.
    Diversi rottami della Lince (tra cui la campana, un elmetto e due delle lettere bronzee del nome) sono stati recuperati, nel corso degli anni, dal subacqueo di Cirò Marina Vittorio Papaianni, che li ha conservati per mostrarli a chi fosse interessato alla storia della nave; dovrebbero in futuro essere esposti nel Museo del Mare di Cirò Marina.

    Il settantesimo anniversario dell’affondamento della Lince, nell’agosto 2013, è stato solennemente commemorato alla presenza di alcuni sopravvissuti, di autorità civili (tra cui il sindaco di Cirò Marina Roberto Siciliani), militari (tra cui l’ammiraglio Domenico De Michele, comandante militare marittimo della Sicilia orientale) e religiose, di associazioni d’arma e della gente del luogo. Una messa è stata celebrata in memoria dei caduti, ed una corona d’alloro è stata gettata sul punto del siluramento, nel punto 39°24’8.66″ N e 17°8’53.16″ E, da una motovedetta della Guardia Costiera, mentre la sirena della motovedetta squillava ed i bagnanti a riva applaudivano con commozione (sulla spiaggia c’era anche un gruppo dell’A.N.M.I. che teneva una bandiera nazionale, mentre a gettare la corona sono stati altri membri dell’associazione); una targa commemorativa è stata posata sul relitto. Una banchina del porto è stata intitolata ai Marinai d’Italia. Il fratello di Francesco Salvatore Tridico, unica giovanissima vittima civile, e Pietro Martino, superstite mutilato dall’esplosione, hanno ricevuto delle targhe commemorative (alla cerimonia ha preso parte anche don Ernesto Terminelli, il sacerdote che aveva officiato i funerali delle vittime nel 1943). L’iniziativa ha compreso anche la lettura di documenti dell’U.S.M.M. relativi all’affondamento della nave, convegni, la mostra di reperti recuperati dal relitto e l’ascolto delle testimonianze di alcuni sopravvissuti (nel 2010 si era già tenuta a Cirò Marina, presso il Museo Civico, anche una mostra fotografica sull’affondamento della torpediniera.
    Segue la foto del Tortoliese Pili Giuseppe
    CON L’AUGURIO CHE IL SUO SACRIFICIO NON VENGA MAI DIMENTICATO.