Emigrante di poppa

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    Auschwitz (27 gennaio 2010 – 12 aprile 2016)

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    PER GRAZIA RICEVUTA

    Il 27 gennaio 2010 ho visitato il campo di sterminio di Auschwitz per poter ricordare il Giorno della Memoria, prossimo ad essere celebrato oggi e per tutta la settimana, ho deciso di pubblicare alcune delle tante fotografie da me scattate in quella occasione.

    Auschwitz composizione Antonio Cimmino per www.lavocedelmarinaio.com

    C’erano circa 20 gradi sotto zero, ma erano niente paragonati al gelo dell’anima.

    Auschwitz f.p.g.c. Carlo Di Nitto a www.lavocedelmarinaio.com
    Sono ritornato ad Auschwitz il 12 aprile 2016, non c’era la neve ma avevo ritrovato la sofferenza del gelo dell’anima mia… per mia fortuna c’erano Massimiliano Kolbe e Padre Piotr Burek.

    Auschwitz cella internamento San Massimiliano Kolbe (foto per gentile concessione padre Pietro Burek a www.lavocedelmarinaio.com

    Loro due mi hanno donato: una lacrima il primo e una speranza il secondo …per riscaldarmi!

    Ezio Vinciguerra Auschwitz 2 aprile 2016 - www.lavocedelmarinaio.com

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    Giorgio Brancatelli, era mio padre

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra
    tratto da Emigrante di poppa (diritti riservati)

    L’ultima partita di campionato mi riservò gioia e dolore. La gioia per aver segnato il primo gol della mia vita in un torneo ufficiale. I compagni mi sostennero, mi abbracciarono, gioivano per “Ricciolino” che finalmente aveva segnato un gol. In quella partita ricevetti un calcio al volto, più esattamente nella guancia destra, dove ancora oggi porto una cicatrice che sembra avermi scolpito, quando rido, una fossetta. Ma non fu il vero dolore, per me che aspettavo la fine dell’incontro di calcio per rientrare a casa e dare la bella notizia ai miei familiari. Ma l’uscio era spalancato. La casa piena di vicini con aria mesta, triste e sconsolata. Le donne piangevano, percepivo le voci dei vicini che esclamavano:
    – “Ecco è arrivato il figlio, povero bambino”.
    Capii. Corsi verso la ringhiera del balcone per nascondere le lacrime, mi accartocciai su me stesso in posizione fetale per covare il dolore. Piangevo, singhiozzavo e mi soffiavo ripetutamente il naso. Se ne era andato troppo in fretta: non avevo fatto a comunicargli che suo figlio aveva fatto finalmente “goal”, che aveva vinto qualcosa di importante e che adesso l’avrebbe fatto felice anche studiando la musica.
    Giorno triste, per quel bambino che si apprestava a diventare ragazzo. Senza un fratello, senza un confidente.
    Nell’immediatezza non ebbi il coraggio di guardare mio padre sul letto di morte. Volevo ricordarlo da vivo, mi parve. Solo l’insistenza di parenti e conoscenti mi convinsero a vederlo prima che fosse chiuso nella sua povera bara di legno di ebano liscio lucidato. Giaceva fermo e rigido sul talamo nuziale al centro della stanza con due enormi candelabri ai piedi del letto, una coroncina del rosario fra le mani e l’immaginetta di San Giorgio, il suo santo protettore, adagiata su quell’esile corpo ridotto a pelle ed ossa.
    La messa ed il funerale furono maggiormente strazianti. Il dolore di mia madre, la disperazione delle mie sorelle, specialmente di mia sorella Angela, ricordo; e l’interminabile omelia funebre del sacerdote che, pur esaltando i pregi in vita di mio padre, non esitò a dire che la vita, seppur nel dolore, continua. Continua un corno, pensavo io.
    Il rientro a scuola fu ancora piú difficile per Ricciolino, anche se erano gli ultimi giorni di lezioni. Alla vista dei compagni scoppiai in lacrime. Avvertivo come un senso di vergogna. L’insegnante di matematica, la professoressa Sozzi, mi venne subito incontro, il suo alunno prediletto aveva perso il genitore: l’unico della classe con tale lutto. Lei non era sposata ma ci sapeva fare con i ragazzi. Aveva modi spiccioli, decisi e atteggiamenti quasi maschili. Mi disse di non piangere e di comportarmi da uomo. In effetti non aveva torto.
    Il bambino che era in me, invece di diventare ragazzo, divenne uomo. Tra poco iniziavano le vacanze estive e si ritornava a Castelmola.
    Ma di quell’estate non ricordo nulla!

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    Auguri di buon compleanno a Gianni Morandi

    di Mery Esposito

    Ciao Ezio,
    grazie a te son contenta anche se le cose non sempre vanno bene per tutti e anche se ce l’ho messa tutta. La mia situazione economica precaria, ma sarebbe meglio dire la nostra con questi temi, mi fa sempre sperare ed andare avanti come dici tu nel finale del libro.
    A suo tempo ho deciso di volar dal nido anche se sono stata benissimo in una casa e in una famiglia ma non ho perso  la speranza di aver una vita migliore e una casa tutta mia …che forse arriva a luglio.
    Ora vivo sola e serena…

     

    P.s. Sono una “morandiana” accanita e stimo Gianni Bella da anni: è un grandeeeeee  e la musica italiana è la mia vita, faccio volontariato (assistenza domiciliare per i malati terminali di tumore) cosa che mi da gioia e anche un altro volontariato che è quello che mi da’ sostentamento alimentare visto che è una cooperativa che raccoglie tutto ciò che i supermercati eliminano (è una cosa che fino a poco tempo fa non sapevo neppure che esistesse).
    Ti ho raccontato una parte della mia vita così sai con chi hai a che fare….ops son troppo onesta e sincera. Rispetto tutti finché mi rispettano.
    Ciao Ezio grazie ancora.

     

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    Lettera aperta al Maestro

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra

    La vita è un abbraccio provvisorio dell’essere che si consuma nella dimensione del tempo. Questo abbraccio diventerà definitivo, quando attraverseremo, nell’attimo del decesso, quella misteriosa e misericordiosa soglia.

    Carissimo Maestro,
    quello che ci hai insegnato, che riporto sopra come incipit, rende onore a te, alla categoria dei “Professori”, quelli che credono in un “dogma” e, lasciami aggiungere, che sono sognatori, proprio come me, proprio come noi.
    La vita è il primo dono che Tu ci hai donato attraverso l’amore e spesso, sovente, in un mondo sfrenatamente materialistico pieno di relativismo storico culturale, ce lo scordiamo.
    Ho letto anche alcune Tue cose che trovo essenziali e pieni di pathos. Alcune sono finemente ironiche ma sempre con un incipit: quello di cui sopra. Stavo per cliccare mi piace su tutto quello che fai e che dici, poi è arrivato il tuo “caloroso saluto”, in questo sonnolento pomeriggio di fine estate dove i miei pensieri, le mie elucubrazioni, col Tuo aiuto, mi hanno portato al natio paese, il paese di un emigrante di poppa.
    Non so perché associo Te alla mia professoressa di filosofia del liceo. Anche lei, come Te, ha lasciato in generazioni di studenti la sua orma indelebile.

    Voglio presentarti i miei amici marinai, pescatori e sognatori… che Tu conosci già!
    Il blog, come la mia vita, come la nostra vita, parla di mare, musica, arte, sociale e solidarietà: sognatori che s’illudono, per diverse ragioni ed esperienze, che un mondo migliore sia possibile, proprio come ci hai insegnato Tu!
    Un mondo a metà tra verismo e neorealismo che parte da Socrate ed arriva a Gaber o a Battiato ma che non riesce ancora ad attraccare nel porto dell’illuminazione… la Tua!
    Spero di non averTi tediato ma in questo mondo di ladri il mio e nostro cuore è rapito da 1000 profeti e 4 cantanti che cercano l’arcobaleno, nei giardini di marzo, aspettando Godot, Pasolini, Merini, De André e tutti quelli che si ostinano a cercare un centro di gravità permanente convinti che siamo liberi ma che frequentiamo pericolose abitudini come pinocchio.
    P.s. Sono volutamente citati, direttamente ed indirettamente, quasi tutti i miei professori, proprio come questa lettera che scrivo a Te unico Maestro. (Pancrazio “Ezio” Vinciguerra)

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    Giorgio Brancatelli, era mio padre

    di Pancrazio “Ezio” Vinciguerra
    tratto da Emigrante di poppa (diritti riservati)

    L’ultima partita di campionato mi riservò gioia e dolore. La gioia per aver segnato il primo gol della mia vita in un torneo ufficiale. I compagni mi sostennero, mi abbracciarono, gioivano per “Ricciolino” che finalmente aveva segnato un gol. In quella partita ricevetti un calcio al volto, più esattamente nella guancia destra, dove ancora oggi porto una cicatrice che sembra avermi scolpito, quando rido, una fossetta. Ma non fu il vero dolore, per me che aspettavo la fine dell’incontro di calcio per rientrare a casa e dare la bella notizia ai miei familiari. Ma l’uscio era spalancato. La casa piena di vicini con aria mesta, triste e sconsolata. Le donne piangevano, percepivo le voci dei vicini che esclamavano:
    – “Ecco è arrivato il figlio, povero bambino”.
    Capii. Corsi verso la ringhiera del balcone per nascondere le lacrime, mi accartocciai su me stesso in posizione fetale per covare il dolore. Piangevo, singhiozzavo e mi soffiavo ripetutamente il naso. Se ne era andato troppo in fretta: non avevo fatto a comunicargli che suo figlio aveva fatto finalmente “goal”, che aveva vinto qualcosa di importante e che adesso l’avrebbe fatto felice anche studiando la musica.
    Giorno triste, per quel bambino che si apprestava a diventare ragazzo. Senza un fratello, senza un confidente.
    Nell’immediatezza non ebbi il coraggio di guardare mio padre sul letto di morte. Volevo ricordarlo da vivo, mi parve. Solo l’insistenza di parenti e conoscenti mi convinsero a vederlo prima che fosse chiuso nella sua povera bara di legno di ebano liscio lucidato. Giaceva fermo e rigido sul talamo nuziale al centro della stanza con due enormi candelabri ai piedi del letto, una coroncina del rosario fra le mani e l’immaginetta di San Giorgio, il suo santo protettore, adagiata su quell’esile corpo ridotto a pelle ed ossa.
    La messa ed il funerale furono maggiormente strazianti. Il dolore di mia madre, la disperazione delle mie sorelle, specialmente di mia sorella Angela, ricordo; e l’interminabile omelia funebre del sacerdote che, pur esaltando i pregi in vita di mio padre, non esitò a dire che la vita, seppur nel dolore, continua. Continua un corno, pensavo io.
    Il rientro a scuola fu ancora piú difficile per Ricciolino, anche se erano gli ultimi giorni di lezioni. Alla vista dei compagni scoppiai in lacrime. Avvertivo come un senso di vergogna. L’insegnante di matematica, la professoressa Sozzi, mi venne subito incontro, il suo alunno prediletto aveva perso il genitore: l’unico della classe con tale lutto. Lei non era sposata ma ci sapeva fare con i ragazzi. Aveva modi spiccioli, decisi e atteggiamenti quasi maschili. Mi disse di non piangere e di comportarmi da uomo. In effetti non aveva torto.
    Il bambino che era in me, invece di diventare ragazzo, divenne uomo. Tra poco iniziavano le vacanze estive e si ritornava a Castelmola.
    Ma di quell’estate non ricordo nulla!

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    4.2.1913, in ricordo di Giacomo Di Tucci

    di Salvatore Di Tucci
    https://www.facebook.com/salvatore.d.tucci

    (Gaeta 4.2.1913 – 12.5.2006)

    …un racconto di vita vissuta.

    Ciao Ezio,
    questo scritto è riferito a mio zio Giacomo Di Tucci. Spero che ti piaccia.
    Mi sono intestardito nella ricostruzione della sua vita e delle sue avventure. Ho chiesto anche al caro amico Carlo Di Nitto (1) che mi ha dispensato di suoi preziosi consigli. Questo perché dai suoi racconti mi parlava di tante cose, del Kernak e del Roma, dei suoi affondamenti…
    Sicuramente la sua vita è stata qualcosa di unico ed io cercherò di farlo rivivere.
    Chiedo scusa se ti ho causato fastidio ma caso mai sono a disposizione per tuoi eventuali consigli.
    Un caro saluto a te e per quello che rappresenti.

    Carissimo Ezio , ne sarei onorato se potessi condividere le memorie nella “banca della memoria” ricordando Giacomo Di Tucci che nacque a Gaeta il 4 di febbraio del 1913 e morì il 12 maggio del 2006.
    P.s. Ti ringrazio e saluti da Gaeta.

    Il protagonista di questo racconto è un marittimo gaetano che ha trascorso gran parte della sua vita sul mare, prima in Marina Militare durante la guerra, poi sui navi passeggeri in marina mercantile.
Durante la guerra, fu affondato due volte, restando in acqua per tante ore prima di essere soccorso, raccontava storie di salvataggi e di naufraghi.
Era imbarcato su navi ospedali, sempre in prima linea nei soccorsi e nell’aiuto ai feriti e ricerca dei dispersi. Mi parlava di “Toscana , Piave e Tevere le navi ospedali”, verniciate di bianco, navi con lo stemma della croce rossa che erano state requisite per esercitare questo nobile servizio. 
In seguito navigò su navi di linea tra la Guaira, Buonos Aires e New York erano le rotte degli emigranti… emigranti di poppa come li definisci tu nel tuo bellissimo libro (2).

    Solo adesso mi rendo conto che la sua vita e le varie vicissitudini sarebbero state testimonianze importanti da tralasciare alle future generazioni. Un grosso rimpianto, ma ero troppo giovane per prestargli la mia attenzione…
Fu decorato ed insignito di attestato di lunghissima navigazione.
    Era da poco terminata la guerra che vide la nostra città rasa al suolo.
    La popolazione sofferente cercava di reagire ai lunghi periodi di fame, miseria e tribolazione, le campagne erano tutte abbandonate, i litorali impraticabili a seguito di presenze di mine. La pesca perciò stentava a ripartire anche perché tutto il nostro naviglio era inutilizzabile e parte affondato per non essere utilizzato dai tedeschi.
    Pero c’era un grande fermento, gran voglia di fare, di produrre, una grande smania e positività…
    Anche Giacomo si dava da fare.

    Il libretto di navigazione era pronto. Fece diversi imbarchi e in uno di questi, bordo di un mercantile mi capitò un episodio che ricorderò sempre.
    C’era un gran brutto mare, una violenta tempesta che faceva rizzare i capelli a lupi di mare più incalliti, un mozzo con la sua ramazza cercava di pulire i corrugetti.
    Si notava dal colore olivastro della faccia il suo malessere, soffriva il mare che gli impediva di fare il suo lavoro con il dovuto impegno.
    Il nostromo, osservandolo, invece di confortarlo, lo redarguì severamente.
    A questo punto intervenni, “vergognati”, gli dissi, “è solo un ragazzo, potrebbe essere vostro figlio”.
    Dopo quell’episodio, con grande discrezione seguivo i suoi passi, perché avevo preso a cuore quel ragazzo che cosi giovane lottava ogni giorno la sua battaglia.
    Passarono quasi 15 anni da quel giorno…

    Anni duri, non si trovavano imbarchi e si poteva attendere diversi mesi.
    Partii da casa per il porto di Napoli il 23 di dicembre, un passeggero era in banchina pronto per partire in serata.
    Grande fu il mio stupore nel sentire il mio nome, qualcuno mi chiamava.
    Un ufficiale sulla scala mi invitava a salire.
    Mi chiese cosa facessi nel porto e se ero disponibile ad imbarcare subito essendo un componente dell’equipaggio sbarcato per malattia. Non capivo perché sapeva il mio nome ma lui ricordò quanto avvenuto circa 15 anni prima, quel mozzo che puliva i ponti ora era il primo ufficiale. Mi ringraziò e con grande commozione, mi abbracciò…

    Note
    (1) Per saperne di più, digita sul motore di ricerca del blog Carlo Di Nitto;
    (2) Per saperne di più, digita sul motore di ricerca del blog o sugli argomenti Emigrante di Poppa.