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8.10.1859, la cannoniera Sesia e il primo mistero italiano

di Guglielmo Evangelista
foto internet

L’Italia è un paese di misteri.
E’ vero che tutto il mondo è già di per sé un mistero anche senza ricorrere a meditazioni trascendentali, e diceva Shakespeare:
– “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia, ma i misteri dell’Italia, come la cronaca ci insegna, sono particolari: conta poco il fatto mentre conta molto quello che succede dopo: c’è il desiderio di scoprire a tutti i costi un responsabile, di “abbellire” i fatti con particolari inventati ad hoc e, naturalmente, una sequela di polemiche sterili o interessate…”

Il primo mistero dell’Italia unita fu quello della cannoniera Sesia.
Correva l’anno 1859, e si combatteva la seconda guerra di indipendenza contro l’Austria condotta dal Piemonte con l’aiuto della Francia.
Dato che il lago di Garda e le terre vicine divennero il punto cruciale degli scontri fra i tre eserciti, si pensò di armare una flottiglia di piccole navi per pattugliare le coste lacuali e fronteggiare la Gardaseeflotille austriaca, piuttosto consistente e costituita da due grossi piroscafi-avviso, una dozzina di cannoniere e varie barche armate.
Per questo compito i cantieri francesi di La Seyne-sur-mer presso Tolone costruirono una serie di dieci cannoniere, cinque delle quali, smontate in sezioni, vennero subito inviate a Genova da dove furono avviate per ferrovia verso il Veneto. Fu un viaggio che presentò non poche difficoltà a causa delle gallerie appenniniche e dell’interruzione dei ponti sul Ticino e sul Chiese e fu anche necessario costruire un binario provvisorio dalla stazione di Desenzano al lago.
Si trattava di piccole navi, lunghe poco meno di 25 metri e dal dislocamento di 101 tonnellate armate con un unico cannone da 160 mm. La macchina aveva una potenza di soli 16 cavalli che permetteva una velocità di 7 nodi.
La loro abitabilità era risibile: la timoneria era priva di qualsiasi riparo e, a parte la sala macchine e la polveriera, c’’era un solo locale sottocoperta, giusto un ricovero per il personale libero dal servizio in caso di maltempo. Ovviamente l’equipaggio dormiva e mangiava a terra.
Insomma, non erano navi da combattimento, ma con la loro arma potevano battere efficacemente obiettivi costieri, tornando subito dopo alla base.
Erano però unità tecnicamente moderne: il cannone era rigato e a retrocarica e lo scafo aveva una robusta struttura mista legno-ferro.
Queste navi non fecero a tempo a partecipare al conflitto perché erano ancora in fase di rimontaggio al sopraggiungere dell’armistizio, ma rimasero sul lago al comando del capitano di fregata Giuseppe di Montezemolo e furono utilizzate in compiti di sorveglianza con base a Sirmione, proprio sul confine dato che il trattato di Villafranca aveva lasciato all’Austria il Veneto con l’arsenale di Pesciera e quindi metà del Garda era ancora in mano al nemico di sempre.
Le cinque navi, cedute dalla Francia al Piemonte, furono battezzate Frassineto, Torrione, Pozzolengo, Castenedolo e Sesia in ricordo di piccoli fatti d’arme della guerra appena conclusa.
Ora una piccola digressione: ogni italiano sa come alcuni anni dopo, nel 1866, le prendemmo sonoramente a Custoza e a Lissa. Beh, non fummo da meno anche sul Garda dove la nostra flottiglia di cannoniere fece una miserrima figura…le prendemmo anche lì.
Comunque torniamo al 1859, precisamente al 19 giugno.
Quel giorno l‘artiglieria piemontese aveva affondato il piroscafo Benaco, requisito e militarizzato dagli austriaci come trasporto munizioni. E’ da qui che comincia la nostra storia.
In dipendenza da quanto appena detto, una volta venuta la pace, non esistevano più sul Garda navi passeggeri e nessuna azienda si fece avanti per ottenere la concessione del servizio di linea.
Le rive gardesane sono aspre. Poche mulattiere conducevano per l’interno verso Brescia e da sempre la popolazione era abituata a spostarsi più comodamente via acqua.
Che fare?
Intervenne la Marina Piemontese (il Regno d’Italia sarebbe stato proclamato solo un anno e mezzo dopo) che decise di mettere a disposizione ogni 15 giorni, a turno, una delle sue cannoniere per effettuare servizio passeggeri lungo la costa occidentale da Salò fino a Limone.

La bellezza del lago lo rendeva già allora mèta degli escursionisti, e in quel periodo c’erano molti veneti che, piuttosto che fermarsi sulla non meno attraente riva orientale, preferivano varcare il confine e godersi l’Italia.
L’8 ottobre 1860 alcune famiglie di aristocratici e di professionisti veronesi, che si trovavano in Lombardia in visita per qualche giorno ad alcuni amici, avevano deciso di fare una gita sul lago.
Erano quasi tutte persone con un passato patriottico, molte erano note alla polizia austriaca e in realtà la gita prevista non era turistica, ma costoro volevano avere la possibilità di protestare liberamente, sensibilizzando gli italiani, contro la fucilazione del soldato Luigi Lenotti avvenuta a Verona il 29 settembre precedente.
Bisogna dire, per amor di verità, che il Lenotti era stato giustiziato in quanto aveva tentato la diserzione e come tale – non perché italiano – era stato regolarmente processato secondo le durissime norme militari austriache.
Naturalmente i piemontesi stavano facendo la stessa cosa nell’Italia meridionale con i disertori e i renitenti alla leva ma, si sa, quando si tratta di ideologie si ragiona a senso unico….
Davanti alla sponda occidentale gardesana si trova l’isola di Lechi, ben conosciuta dagli equipaggi delle cannoniere perché vi si stavano facendo dei lavori di fortificazione e in quei giorni vi trasportavano personale e materiali del Genio militare.
Come d’abitudine, quando queste navicelle erano di turno, il Sesia pernottò all’isola in modo da poter essere più vicino a Salò per iniziare il suo servizio di linea, ma la mattina successiva si recò direttamente a Fasano, presso Gardone, dove imbarcò la comitiva patriottica; saltò quindi tanto lo scalo di Salò quanto quelli successivi di Maderno e Gargnano, proseguendo direttamente per Limone, dove sostò un’ora, imbarcò vari altri comuni passeggeri e a mezzogiorno preciso cominciò il viaggio di ritorno.
Un quarto d’ora dopo, percorse un paio di miglia e a poche centinaia di metri dalla riva, di fronte alla località Bine, i contadini al lavoro sui campi a terrazze della zona udirono un boato e fecero in tempo a vedere il ponte della cannoniera che si sollevava in aria per alcuni metri mentre il fasciame sottostante si disintegrava. Quello che restava fu trascinato rapidamente sott’acqua dal peso del grosso cannone che costituiva l’armamento della nave.
Un marinaio, con prontezza di spirito, riuscì a tranciare il cavo della scialuppa che la cannoniera si portava a rimorchio e che fu raggiunta a nuoto da alcuni membri dell’equipaggio che poi riuscirono a recuperare qualche naufrago. Va notato che le fonti sono spesso discordanti: si salvò Giacomo Giorgi che, in quanto al timone, fu scambiato per il comandante Raggio, mentre quest’ultimo, un ligure appartenente al corpo dei Piloti, vi perse la vita assieme al sottufficiale macchinista Giacomo Portigliati.
Come sempre quando avvengono esplosioni di questo tipo i fortunati furono coloro che erano stati catapultati fuori bordo dalla spostamento d’aria, ma ben pochi sapevano nuotare e i così, fra annegati, morti nell’esplosione e altri trascinati sul fondo dal risucchio provocato dal relitto, le vittime furono 42: 33 passeggeri e 9 marinai.
Il rumore fu sentito e il fumo fu visto dalla sponda opposta dove il comandante del presidio della marina austriaca di Malcesine, Giorgio Shellek, fece uscire subito una lancia che riuscì a salvare cinque naufraghi che si aggiunsero ai 13 che erano riusciti a raggiungere la scialuppa.
Dopo il disastro furono promessi premi a chi riuscisse a recuperare i corpi, scatenando l’accorrere di pescatori e barcaioli che nonostante la profondità ottennero qualche successo: furono 22 i morti recuperati, che vennero in gran parte sepolti nel cimitero di Limone.

La versione ufficiale sulla causa del disastro fu lo scoppio della caldaia, ma appare strano che questa, di potenza ridicolmente esigua, avesse potuto causare un disastro così grave ad una nave da 100 tonnellate, in parte in ferro e praticamente nuova.
Così si parlò di un attentato austriaco inteso a colpire le famiglie patriottiche veronesi che erano a bordo, cosa che secondo alcuni sarebbe stata confermata dalla troppa sollecitudine dei soccorsi provenienti dall’altra sponda dove una barca sarebbe stata già pronta per salpare immediatamente: il comandate austriaco era stato informato che doveva succedere qualcosa?
Un’ altra stranezza riguarda il fatto che il comandante abbia deciso di cambiare orari e itinerari per compiacere dei viaggiatori, certo importanti, ma legalmente degli stranieri e questo su di una nave in servizio di linea e per di più militare. Raccomandazioni, connivenze o ordini dall’alto?
Nel 2011 il Sesia è stato ritrovato da ricercatori subacquei alla profondità di ben 334 metri e qui viene suggerito un ultimo mistero: nella discesa la nave non si è capovolta, segno che i pesi principali, cannone e macchina, erano rimasti al loro posto assicurando stabilità al relitto, ma se la caldaia fosse scoppiata si sarebbe frammentata alterando gli equilibri.
Inutile dire che tutti questi interrogativi sono – e forse lo saranno sempre – ancora senza risposta.

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