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2 dicembre 1942, affondamento della regia nave Aventino


a cura di Antonio Cimmino



Banca della memoria - www.lavocedelmarinaio.com

Convoglio “H”; Piroscafi Aventino; Aspromonte; Puccini; KT. 1 (Tedesco) scortati da cacciatorpediniere Da Recco, Camicia Nera, Folgore e dalle torpediniere Clio e Procione.
Il Piroscafo Aventino, militarizzato per il trasporto delle truppe in Africa Settentrionale, fu affondato assieme ad altre navi del “Convoglio” il 2.12.1942 nella battaglia del Banco di Skerki nel Canale di Sicilia. Per non dimenticare, mai!

2.12.1942 regia nave Aventino www.lavocedelmarinaio.com copia

3 commenti

  • ezio secci

    PASQUALE PELLICORO
    4 DICEMBRE 2015 AT 10:34
    Onore a tutti quegli uomini periti con esso..

    … e a mio padre, Giuseppe, che affondò quel giorno su quella nave.

    Avevo 18 mesi, quando ciò avvenne, ma l’amore per lui mi ha sempre accompagnato. Per lui ho scritto questo racconto.

    MIO PADRE.

    12 dicembre. Quella data l’aveva qui, dentro di se, fin dai primi anni della sua vita. 12 dicembre 1942; aveva un anno e mezzo. Mentre lui, Ezechiele, si trovava al sicuro con gli altri familiari, suo padre affondava nelle acque profonde del canale di Sicilia con il piroscafo Aventino sul quale era imbarcato. Bloccato nella sala mensa al momento dell’attacco aereo, sprofondava, serrato dentro la bara di ferro, in un baratro infinito, senza possibilità di salvezza.
    Per tutta la vita si era trascinato dietro questa immagine. L’immagine di un padre che il destino non gli aveva concesso di conoscere se non dai racconti di sua madre che lo dipingeva tenero e premuroso con lei come con loro, i suoi tre figli.
    Ora si trovava qui, nel bel mezzo del canale; sopra quell’abisso che aveva visto arrestarsi per sempre la traversata di gran parte di quel convoglio destinato a portare uomini e rifornimenti alle truppe italiane combattenti in Africa, coinvolte in una guerra che il regime rappresentava giusta, ma che le nostre truppe affrontavano con carenza di mezzi, di preparazione, di idee. Una guerra che ci vide perdenti, per fortuna.
    La giornata era splendida, il mare calmissimo. L’atmosfera era talmente tersa da consentire la vista della costa meridionale della Sicilia e, lontano, tra poco, i dolci promontori dell’Africa. Si chiedeva se il tempo fosse stato altrettanto clemente quello stesso giorno, più di cinquant’anni fa, mentre suo padre viveva le ultime ore di vita a bordo della sua nave, ignaro che entro poco tempo il fato avrebbe reciso i fili della sua giovane vita. Aveva 34 anni. Ezechiele ne aveva ormai quasi sessanta; gli sembrava che le parti si fossero invertite; d’essere lui il padre di suo padre. Pensava con tenerezza a quel ragazzo che aveva lasciato moglie e tre figli per andare ad immolarsi per una causa errata che credeva giusta. Sua madre lo aveva pregato di accettare la proposta di uno zio, alto ufficiale della marina militare, che si era offerto di farlo sbarcare per essere assegnato a lavori di ufficio.
    “Lucia”, aveva detto a sua madre, “se tutti facessero così, chi difenderebbe la nostra Patria?”
    Già, la patria. Nome che alle generazioni presenti appare vuoto di significato. Eppure sua madre, pur nel terrore per il pericolo che correva, lo aveva amato di più proprio per questo. E lui, Ezechiele, anche se scettico sul significato più profondo di quella parola, aveva sempre provato una fierezza incrollabile per un padre mai conosciuto di persona, ma che aveva occupato tanta parte dei suoi pensieri.
    Quel giorno aveva deciso di immergersi in quelle stesse acque che si scomponevano in innumerevoli riflessi sotto un sole che abbelliva la natura tutt’intorno, capace di infondere nel cuore dell’umanità il desiderio di vivere. Un sole che esprimeva talmente il senso della vita e dell’immortalità da rendere quasi incredibile che tutti i giorni vi fosse gente che muore sotto il suo sguardo eterno.
    Ecco, era in acqua. Sotto di lui, a centinaia e centinaia di metri, le stesse acque che cingevano il suo corpo dandogli quella sensazione di familiarità, cingevano ciò che restava di lui e dei suoi commilitoni. Si immerse. Lentamente il suo viaggio incominciava.
    La sagoma della nave stazionava sopra di lui, dondolando lenta e sorniona come un enorme cetaceo disteso al sole. Mentre iniziava la sua discesa verso l’abisso, la luce azzurrina, dapprima dirompente sopra di lui, si andava smorzando, si faceva via via più tenue, rimpiccoliva di momento in momento come la bocca di un pozzo, lassù, in lontananza. Una fauna a lui conosciuta lo circondava indifferente. Qualche pesce più curioso gli si accostava per poi dileguarsi velocemente. Man mano che scendeva, il buio si faceva sempre più vicino, lo stringeva inesorabilmente in una morsa d’angoscia crescente che gli toglieva il respiro.
    Il buco lassù era diventato un puntino di luce. Presto sarebbe definitivamente scomparso per lasciare il posto al silenzio, al nulla. Adesso, solo la sua immaginazione avrebbe potuto dare corpo a quel paesaggio sottomarino che certo era presente. Certamente una vita sotterranea palpitava intorno a lui; creature mai viste venivano a visitarlo. Avvertiva, di tanto in tanto, il contatto dei loro corpi freddi imprimersi come il bacio di un morto sul suo petto, sulle braccia. Pensò che se era vero che lui non conosceva queste creature, esse dovevano invece conoscere lui, attraverso migliaia e migliaia di corpi, simili al suo, che avevano visto venire giù nel corso dei secoli e dei millenni. Come ora accadeva a lui in quel viaggio che avrebbe avuto termine solamente all’impatto con il fondo. Così come era già avvenuto per suo padre.
    Suo padre era laggiù ormai da quasi sessant’anni. Un periodo lungo il doppio di quella che era stata la sua breve esistenza. Certo anche suo padre, come lui, era stato attraversato in quella discesa senza fine, da pensieri, gli ultimi della sua vita, entro i quali sicuramente vi era stato posto soltanto per la sua famiglia. Questa riflessione gli rendeva quel luogo sacro e insieme familiare. Sentì che la paura iniziale lo abbandonava e insieme ad una sensazione di tranquillità crescente, provò un amore mai sentito prima così forte, verso quell’uomo estraneo eppure così vicino, di cui i racconti della mamma e l’album di fotografie gli avevano rivelato solo un parziale ritratto.
    Rivide sua madre, triste alla finestra. Febbrile nei lavori di casa, alla vana ricerca, nelle cose intorno a lei, di qualcosa che potesse riempire quel vuoto che non riusciva ad accettare, quell’assenza alla quale non voleva arrendersi. Lui e i suoi fratelli si rattristavano della sua infelicità. Dentro di loro alimentavano la speranza che qualcosa di magico sarebbe potuto accadere; qualcosa che avrebbe portato nella loro casa quella serenità che vedevano in quelle famiglie alle quali era stata risparmiata la sorte di affrontare quella terribile prova. Rivide la speranza spegnersi lentamente nei suoi occhi, anno dopo anno. Il suo rifiuto di sostituire l’immagine di lui con una delle tante altre che nei vari tempi si erano proposte alla sua attenzione. Perché mai aveva ravvisato in alcuno di loro una figura fisica e morale che potesse reggerne il paragone.
    Cinquecento, seicento, mille metri. Quanti ancora ne mancavano alla fine di quel viaggio? Ora che la paura era passata sentiva, come una carezza, lungo il corpo le innumerevoli dita del mare levigare le sue membra. Di tanto in tanto fuggevoli luci fosforescenti si accendevano intorno a lui per spegnersi immediatamente precipitandolo di nuovo nelle tenebre. Il popolo dell’abisso dava segno della sua presenza. Il buio non gli faceva più paura ormai, anzi gli dava un senso di protezione mai provato da tempo. Si raggomitolò in se stesso come un feto. Sentiva pulsare come il respiro di una enorme madre l’immenso ventre nel quale vagava. E avvertì che quella sensazione non gli era nuova; forse dall’inconscio venne fuori una memoria lontana, di quando ignaro, fluttuava sicuro nella placenta materna. Era come il risvegliarsi di un ricordo sopito, il ricordo remoto di una vita precedente, reso labile dal tempo.
    Poi nell’oscurità si levò flebile una voce, anzi un insieme di voci. Un mormorio, come un canto, giungeva fino a lui dal fondo, attraverso vibrazioni trasmesse dall’acqua. Insieme si avvicinava un fioco barlume di luce dal profondo. Una luce flebile simile a quella di mille candele tremolanti nell’oscurità faceva comparire come per magia un paesaggio inaspettato. Un mondo incredibile gli veniva incontro. Anzi, era lui che vi andava incontro perché era ormai giunto alla fine di quella corsa che gli era parsa interminabile. Un bosco di piante d’avorio prendeva forma davanti ai suoi occhi e rupi evanescenti coperte di bianchi muschi e coralli. Un paesaggio mai visto ma che dentro di sé sentiva appartenergli. Pallide creature dai grandi occhi lo scrutavano con curiosità, prive di paura, perché l’uomo non era una creatura sconosciuta laggiù.
    Chissà quanto poteva essere lunga la vita di quelle creature. Sapeva che esistono esseri viventi capaci di vivere molto più a lungo dell’uomo. Forse qualcuno di quegli esseri, tanti anni indietro, aveva visto adagiarsi sul fondo, incollandosi a quella sabbia incolore, la grande bara di ferro contenente i corpi senza vita di suo padre e dei suoi sfortunati commilitoni. Forse alcuni di essi si erano saziati di quelle carni che un provvidenziale fato aveva loro destinato. Se ciò fosse stato questo non gli provocava orrore; anzi, il pensiero che il corpo di suo padre avesse dato un contributo all’incessante ciclo vitale della natura lo consolava più del pensiero che il suo cadavere si fosse inutilmente consumato nel putridume della decomposizione.
    Gli vennero in mente le usanze di quelle tribù africane che divorano i cadaveri dei nemici più valorosi, uccisi in combattimento, attraverso le cui carni avrebbero assunto tutti i caratteri positivi della loro personalità. Gli piacque pensare che quelle creature portassero in sé la continuità della fiamma vitale che era stata di quegli uomini e di suo padre, la stessa idea di continuità della vita che anima i parenti che donano gli organi del proprio familiare per sottrarlo ad una morte senza memoria.
    Poi vide l’immensa sagoma nera semi affondata nella sabbia. Gli sembrò ancora più grande, dirompente dall’oscurità. Riposava su un fianco scura ed immemore. Aveva sempre odiato il suo nome, perché gli aveva portato via suo padre, ma ora, vedendola, provò per lei affetto e riconoscenza perché ne aveva custodito i resti per tanti anni, sottraendoli alle correnti marine che impadronendosene ne avrebbero disperso le membra e l’anima.
    Ampi squarci come ferite aprivano il suo ventre, da quei varchi fluiva incessante la vita sottomarina; un andirivieni di creature di ogni forma e dimensione si avvicendava in una frenetica attività. La ruggine aveva fatto il resto, sfaldando parti un tempo ancora integre.
    Percorse lentamente la tolda, attardandosi ad osservare le scialuppe di salvataggio che non avevano potuto essere messe in acqua, data la repentinità del bombardamento. La tolda era squarciata in più punti dalle esplosioni delle bombe, il ponte di comando semi distrutto. I piccoli pezzi di artiglieria di cui era dotato il piroscafo, che non era unità di combattimento bensì d’appoggio, sostavano inutilizzati, ancora bloccati nelle loro sedi. Una scala di ferro si tuffava nel ventre della nave. Era quella che portava alle sale inferiori. Calandovisi, di nuovo si ritrovò vestito di buio. Percorse a tentoni un tratto che gli sembrò interminabile. Poi di nuovo, come Giona nel ventre della balena, fu guidato da una debole luce proveniente da un portello aperto.
    Man mano che si avvicinava a quella luce sentiva di nuovo levarsi quel canto sommesso. Un canto che diceva di vite prematuramente spezzate, di progetti infranti, di sogni irrealizzati. Che veniva da mezzo secolo di silenzi, da quel giorno in cui il mare si era richiuso per conservare gelosamente come un segreto la storia di quegli uomini piccoli, resi grandi dalla memoria del loro coraggio e dei loro ideali. E si ritrovò nella grande sala mensa, dove suo padre aveva certamente trovato la morte. Per ironia del destino, quel portellone che non si era aperto allora, negando la vita a tutta quella gente, ora era lì spalancato e beffardo. Un silenzio oltre la morte era presente. Si rese conto che quel silenzio immane aveva cancellato anche gli impercettibili rumori che lo avevano accompagnato fino a quel punto, sempre presenti dentro ed intorno a lui: il pulsare del sangue nelle vene, il battito del cuore, il respiro del mare.
    In quella sala coperta di ossa anonime, che avevano resistito intatte alla scarnificazione del tempo e degli abitatori dell’abisso, avvertì ora una presenza sovrumana. Capì che suo padre era entrato in contatto con lui, per trasmettergli un messaggio d’amore e di riconoscenza. Di riconoscenza per avere intrapreso quel viaggio così insolito, per avere conservato sempre, negli anni, la sua memoria affinché non cadesse nell’oblio. Trascorse tra di loro un dialogo muto capace di colmare il vuoto di tutti quegli anni trascorsi ad amarsi senza conoscersi e fu davvero come se egli fosse stato sempre presente nella loro vita, in carne ed ossa, come se le vicende tragiche che avevano impedito loro di incontrarsi prima di allora fossero state banali contrattempi privi di significato.

    Sul ponte della nave di linea Palermo-Tunisi, Ezechiele si riscosse come da un sogno. Ma non era stato un sogno. Era sicuro di non aver dormito. Volse lo sguardo scrutando intorno a sé il ponte, la distesa di mare. Lontano appariva la costa africana. Sentiva di non essere solo: vi era qualcosa nell’aria, invisibile ma reale. Qualcosa, non sapeva che cosa, era veramente accaduto. Si sentiva felice.

  • Pietro Rosica

    Sulla stessa nave viaggiava Armando Giuseppe Di Cocco cugino di mio padre disperso in mare.

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