Racconti,  Sociale e Solidarietà

Perchè lo faccio?

di Marco Angelo Zimmile

…il 18 dicembre 2007 arrivò a Licata una carretta del mare con a bordo ben 648 disperati. Intervenimmo con la Guardia Costiera Ausiliaria, organizzazione di Protezione Civile di cui faccio parte. Non fu la mia prima esperienza e per non sfigurare il destino mi ha posto davanti al più grosso sbarco, in termini di numero, mai registratosi in Sicilia tra i disperati del mare salvati dal naufragio.

Il rettangolo rosso in plastica sul calendario della mia scrivania dice che tra una settimana è Natale. Sono quasi le 18.00, sarà un po’ per colpa dell’ora, un po’ per l’aria di un giorno nel quale tutti entrano ed escono dai negozi pieni di luci… oggi non ho voglia di restare fino a tardi in ufficio a spremermi il cervello tra l’esame di una busta paga e le chiusure contabili: maledetto mestiere. Sollevo il telefono controvoglia, è già da una decina di squilli che tenta di richiamare la mia attenzione: ho il terrore che sia un altro cliente con un problema da risolvere, che mi inchioderà qui dentro fino a notte fonda ancora una volta. Invece no. “Buonasera, qui è la Guardia Costiera Ausiliaria di Licata, siamo stati appena messi in allarme dall’Ufficio Comunale delle Protezione Civile. A 30 miglia dalla costa – avvertono – c’è un peschereccio con bordo dei clandestini”. Reagisco d’istinto, neanche mi rendo conto. Dopo pochi minuti ho già indosso la tuta operativa, controllo che tutti i pezzi dell’equipaggiamento siano al loro posto. Mentre mi infilo in macchina per raggiungere la sede operativa, so che in quello stesso momento altre decine di persone come me stanno facendo la stessa cosa in tutti gli altri gruppi di volontariato: dalla provincia di Agrigento a quella di Caltanissetta, passando per l’Ufficio Regionale della Protezione Civile. Macino la strada che è avvolta dal buio, i fari squarciano l’oscurità illuminando poco alla volta la via che mi separa dall’ufficio della Guardia Costiera. Sono anni che ci mobilitano ogni volta che arrivano i clandestini, ma ogni volta è la stessa sensazione: bisogna fare di corsa, ogni minuto risparmiato è un minuto in meno che un bambino, una donna incinta, un disperato, restano in balia dell’acqua con il rischio di scomparire per sempre.

Sono quasi le 19.00. Fermo l’auto nel piazzale della sede della Guardia Costiera Ausiliaria. Alzo lo sguardo: tutte le luci sono accese. C’è movimento, un via vai di persone, di auto che parcheggiano e ripartono. “Buona sera Marcuzzo” mi dice il centralinista. Inizia il briefing delle operazioni. Le solite raccomandazioni, ormai le conosciamo tutti a memoria. Durante la pianificazione il comandante in seconda ci riferisce che 28 persone, tutte donne e bambini, bisognose di cure, erano state prese in consegna da una motovedetta della Guardia di Finanza per essere immediatamente sottoposte ai controlli medici e per essere rifocillati. Dopo un po’ siamo pronti per raggiungere il porto, aspettiamo che le forze dell’ordine conducano in banchina l’ennesima carretta del mare. Il mio Stendardo (un altro ricordo degli anni trascorsi nel battaglione San Marco) segna le 22.00. Lasciamo la sede della Guardia Costiera Ausiliaria, ci dividiamo in squadre, saliamo sui mezzi e partiamo alla volta del porto. Giunti sul posto veniamo accolti dai marinai della Capitaneria di Porto i quali ci danno ulteriori informazioni: si aspettano circa 600 disperati. Sarà una notte lunga.

Sono le 23.00. Il tempo di una sigaretta, finalmente. La luce arancione brucia il tabacco americano ed illumina l’oscurità impregnata di salsedine e miseria. Faccio appena in tempo a buttare la cicca. Il profilo del rimorchiatore d’altura Keros, scortato da due motovedette del Circomare si delinea all’orizzonte. Sta entrando in porto conducendoci il peschereccio dove sono stipate a bordo ben 620 persone. “Picciotti, si tratta dello sbarco più imponente mai registrato sulle coste siciliane” ci dice un ex sergente. Siamo sul bordo della banchina insieme al personale della Capitaneria di porto pronti ad intervenire per operazioni di attracco e di assistenza. Guardo quel peschereccio: è lungo circa 30 metri, si tratta di un’imbarcazione in ferro, arrugginita all’80%, con sovrastrutture in legno. Dire che gli imbarcati erano stipati come sardine è usare un eufemismo. Mi domando quale strana forza del destino stia tenendo unito quell’ammasso di ruggine, metallo e legno marcio che è già sbandato di circa 15 gradi sul lato sinistro. Penso che il Dio dei disperati debba avere molta pietà per riuscire a tenere insieme quell’ammasso di rottami. “Stiamo attenti picciotti – grido ai miei compagni – questo rischia di affondarci davanti agli occhi”. Ma i ragazzi della Guardia Costiera Ausiliaria sono tutti esperti, gente che è stata in mare per anni, come militare di carriera, volontario, appassionato di navigazione che sia. I marinai della Capitaneria di Porto ed alcuni di noi ormeggiano il peschereccio. Qualcuno grida di indossare le mascherine protettive ed i guanti in lattice: iniziano le operazioni di sbarco e soccorso. I visi sono stravolti dal viaggio, faticoso ed inumano, verso una terra promessa. Sembrano fantasmi. Eppure, non appena vengono assicurate le cime alle bitte, si leva un forte applauso da tutti i clandestini.

Inizia lo sbarco. Per fortuna, sono meno malconci di quello che sembravano: solo pochi uomini hanno avuto bisogno delle cure mediche, le operazioni proseguono con celerità. Adesso, a darci una mano, sono arrivati tutti i gruppi di protezione civile disponibili: riconosco le voci e le divise di quelli con i quali ho già diviso tante notti su questo maledetto fronte del mare: la Croce Rossa, la Croce Verde, il 118, il Gruppo Regionale di Protezione Civile (formato dal oltre 8.000 uomini), le Giubbe Verdi di Realmonte, l’Associazione Nazionale Carabinieri gruppo di Volontariato e chissà quanti altri.

Un’altra sigaretta. È l’una e mezza. Tra poco abbiamo finito le operazioni di sbarco e di controllo. “Sono 648 in tutto” mi dice un collega. Con lo sguardo, seguo gli ultimi mentre scendono dal peschereccio e si avviano verso gli autobus chiamati dall’Ufficio Comunale della Protezione Civile. Penso che tra poco verranno trasferiti momentaneamente al centro di accoglienza e che lì c’è una disponibilità di soli cento posti. Non c’è tempo per pensare: devo montare le tende che dovranno ospitare più bisognosi. Poi, domani verrà istituito un ponte aereo da Catania per il trasferimento dei disperati al centro di accoglienza di Crotone; quello di Caltanissetta è già pieno per via del precedente sbarco a Porto Empedocle.

Mentre pianto a terra e picchetti ai quali fissare la tenda, l’alloggio di fortuna per questi disperati, mi passano nella mente le immagini dello sbarco appena ultimato, come un film al rallentatore: per esperienza, ormai, riconosco da quei volti e quei vestiti, che a sbarcare sono stati in prevalenza nordafricani ma anche qualcuno partito dal centro di quel continente affamato. Con molta probabilità sono partiti da un porto tunisino o libico, quasi sicuramente Zuara. Quello che non riesco a togliermi dalla mente è l’applauso fatto appena il peschereccio è stato ormeggiato. “Ma sono così disperati nei loro paesi d’origine?” mi aveva domandato il collega che mi stava affianco con il quale tiravo la cima. Nei loro occhi c’era la spossatezza del viaggio, ma vi si scorgeva anche speranza. Provo un forte senso di rabbia nel pensare che anche questa volta i disperati hanno provveduto a rimpinguare le tasche delle organizzazione che traffica carne umana. Alcuni hanno dichiarato di aver pagato 4.000 dollari a testa per il viaggio: per loro è un patrimonio immenso, quella cifra. Un ultimo colpo di martello, un’altra sigaretta. Anche per questa notte è finita. Provo rabbia perché non posso fare altro per interrompere questo traffico, ma mi sento a posto dentro di me perché ho fatto tutto quello che potevo. Qualcuno mi domanda perché lo faccio?

…Credo che ogni tanto dovremmo guardare più spesso i molti occhi presenti sulle carrette del mare.

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