Racconti

Lettere di marinai dai fronti della Grande Guerra

Lorenzo Vincenti www.modellistika.it

La vita dei marinai durante la guerra fu un susseguirsi di allarmi e di missioni, più in terra che in mare, perché le grandi navi nemiche restavano rintanate nei porti.

Cara mamma, sono di base in una zona che non posso precisarti, vicino a Venezia. Il posto è bello ma la gente parla una lingua che io non capisco e si comporta in modo molto diverso dal nostro popolo siciliano. Pensa che certe donne fumano in pubblico e vanno a ballare anche senza cavaliere. Purtroppo, non ho ancora avuto l’imbarco. Sono un marinaio col fucile. Sto bene e così spero di voi tutti, che qui bacio. Affezionatissimo vostro Tore.

Marietta mia bella, la naia l’è dura come l’ostrega per me, gondoliere. Sono nel fango della trincea, non mi è nemmeno permesso spiegarti dove. Quando mi rispondi, e fallo subito, indirizza al campo 112 della posta militare. Tuo per sempre Toni.

Amore mio che non tramonta mai. Sono infelice per la nostra lontananza ma molto contento della nave mia, grande come una città, con dei cannoni grossi così. Peccato che non riusciamo mai a incappare nel nemico, potremmo spaccargli tutte le ossa. Spero vederti presto, intanto molto ti bacia il tuo Gavino.

…così tutti noi siamo ridotti coi nervi a pezzi dall’ansia di uno scontro che non avviene mai. Si sta più a terra che sul mare, ho nostalgia della nostra barca.

Sono certo di fare il mio dovere verso la Patria, perché noi trasportiamo il cibo necessario alle popolazioni per sopravvivere. Però siamo sempre avanti e indietro per il Mediterraneo, con un cannone solo non possiamo difenderci se il nemico tedesco attacca.

Queste lettere rievocano, nella loro ingenuità, meglio di un documento ufficiale, l’atmosfera di quei tempi e di quelle situazioni. Gente di mare costretta a battersi, a vivere tutti o molti dei lunghissimi 41 mesi di guerra in condizioni straordinarie imprevedibili.

Disarmata Ancona, la Marina aveva porti sicuri lungo 700 chilometri di coste adriatiche soltanto a Venezia e a Brindisi. In mezzo a quelle due basi, niente. La nostra flotta benché fosse, con i reparti alleati, superiore a quella nemica, non fu mai in grado di provocare una grande, memorabile battaglia. I marinai delle basi adriatiche erano in attesa di questo scontro che non sarebbe mai avvenuto perché gli austriaci, consci della loro inferiorità, evitavano di uscire incautamente in mare aperto.

Intanto, i nervi si logoravano. Sempre all’erta, poco in azione. Sospese per lunghi periodi le licenze, frequenti gli stati di allarme, censurata la posta e le notizie, disciplina rigidissima. Gli stessi marinai accomunati nel rischio fino all’eroismo, alla più grande generosità reciproca, una volta sbarcati si ritrovavano divisi dalla differenza delle mentalità e dei costumi. Un sardo tra i veneziani, un marchigiano a Brindisi, un abruzzese sul lago di Garda. E tuttavia, proprio in grazia a ciò, l’unità delle genti italiane si andava rassodando in quel difficile periodo. Di sera, la libera uscita nelle città di porto si consumava tra osterie rumorose, qualche cinema improvvisato e squallido, la ricerca di una ragazza, il ritorno alla solita “donna di tutti”. E poi i litigi, la donna contesa, le risse colossali nel porto, le “spedizioni punitive” contro i commilitoni di altre armi che avevano osato mettere in dubbio la combattività della “arma silenziosa”.

I telefoni erano pochi e le comunicazioni difficilissime, i giornali non tutti li sapevano leggere. Restava la posta.

Ecco, scrivere a casa rappresentava una valvola di sfogo. Ma quanti erano a saper scrivere di proprio pugno? Bisognava ricorrere al cappellano e non sempre le lettere giungevano a destinazione. Oppure erano necessarie settimane d’attesa.

D’improvviso, pochi giorni di licenza, il ritorno a casa. Vedere per la prima volta l’ultimo fratellino oppure, secondo i casi, l’ultimo figlioletto. Madri, mogli pazienti portavano avanti la famiglia da sole, abituate a non lamentarsi, a tutto accettare. Abituate ai lunghi silenzi, alle grandi distanze del mare: lei qui e lui di là. Pochissimi giorni, poche ore per ritrovarsi e parlarsi.

Forse ancora più scarse le licenze e le occasioni di distrarsi per i marinai addetti al rifornimento dell’Italia affamata di materie prime vitali. Avanti e indietro verso Gibilterra e Suez, i due poli estremi: si ritorna dalle fatiche, dai rischi della missione in un porto che non è quello di casa. Giusto il tempo di ritrovare il piacere di vivere in mezzo alla gente, che non è la propria gente, e già si ricomincia. Un ritmo che sembra non avere fine.

Scriveva un nostromo: Figli amatissimi, da tempo non ho il piacere di abbracciarvi e forse non potrò più farlo per molti altri mesi. Navigare è sempre un pericolo. Navigare in tempo di guerra è un pericolo continuo. L’insidia degli elementi si moltiplica con l’insidia del nemico. Ma, nemmeno se lo volessi, potrei sottrarmi a questa fatica. Noi dobbiamo pensare alla sopravvivenza e al futuro di tanti figli come voi, nati tutti da una madre comune, l’Italia. Noi lottiamo perché voi cresciate liberi e forti, più liberi e forti di noi. Questa sicurezza ci conforta. Io sono lontano ma il mio affetto è vicino a voi. Ogni tramonto, quando il mare diventa di fuoco, mentre l’equipaggio recita la preghiera del marinaio la mia anima è vicina alle vostre. Prego il Signore di assistervi sempre, come assiste me. Ho vissuto tante avventure. Tornerò e ve le racconterò.

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *