Recensioni,  Storia

Le navi di Omero

(tratto da: I Signori del mare. Appunti per una storia delle antiche marinerie, Sarno, Centro Studi I Dioscuri, 1998) di Orazio Ferrara

Le navi e le tecniche di navigazione della marineria della Grecia arcaica, soprattutto di quella micenea, della seconda metà del II millennio avanti Cristo sono sostanzialmente quelle descritte con dovizia di particolari nei poemi omerici, in particolare nell’Odissea. Ciò è dovuto essenzialmente al fatto che per secoli quella marineria, erede della cicladica e minoica, non subisce alcun radicale cambiamento per assoluta mancanza di grandi innovazioni tecniche. Queste ultime verranno dopo Omero e porteranno a quel formidabile strumento bellico che sarà la triere, o latinamente trireme, nave che sconvolgerà gli equilibri marittimi nel Mediterraneo, un po’ com’era accaduto a suo tempo nella tattica militare terrestre quando era apparso il carro da guerra. Altro motivo, non secondario, di questa sostanziale coincidenza è che Omero o chi per esso – tralasciamo qui di entrare nell’annosa e complessa “questione omerica” – pur vivendo nel secolo VIII a.C., compone due poemi epici sulla base di una lunghissima tradizione orale, che tramanda così, in modo abbastanza fedele, non pochi aspetti di vita dei secoli precedenti. Se le imponenti rovine di Troia e di Micene confermano la veridicità del mondo cantato dal poeta, così le rappresentazioni vascolari, i modellini e le pitture parietali confermano, anche con scoperte recentissime, che le descrizioni omeriche si avvicinano, con buona approssimazione, a quella che doveva essere effettivamente la realtà marinaresca della Grecia arcaica. Nell’indicare le navi di quel tempo Omero cita con frequenza due epiteti: orthòkrairos = dalle corna erette e kòilos = concava. Questi epiteti rendono subito, in modo plastico, il profilo che presentano gli scafi a chi li guardi navigare da lontano: delle ricurve corna di toro. La sagoma ricorda, a grandi linee, quella delle navi dei Popoli del mare che, nell’ultimo quarto del II millennio, imperversano nel Mediterraneo orientale e che, in uno dei tanti raid, si scontrano nel delta del Nilo con la flotta egiziana.

La vittoria di quest’ultima è il motivo per cui il faraone del tempo fa immortalare nella pietra l’immagine delle navi nemiche. La stretta rassomiglianza tra le navi micenee e quella dei Popoli del mare evidenzierebbe l’esistenza di una medesima tecnica cantieristica nel Mediterraneo orientale, almeno per il gruppo indo-europeo, al quale appartengono ambedue i popoli. Il profilo a forma di corna di toro, oltre ad essere una necessità costruttiva, potrebbe anche essere dovuta ad influenze magico-religiose, considerando la sacralità del simbolismo del toro presso tutte le popolazioni di ceppo indo-europeo. Non a caso pitture vascolari greche del periodo geometrico mostrano navi da guerra, recanti sulla prua l’insegna di due corna taurine.

Fin dai primi tempi ritroviamo la tradizionale suddivisione tra nave da guerra e nave mercantile, come testimoniano la coeva iconografia greca e il ritrovamento del relitto di Capo Chelidonia nella Turchia sud-occidentale, relitto che si riferisce ad una nave esclusivamente da carico del sec. XIII o XII a.C.. La tecnica cantieristica, primitiva e raffinata allo stesso tempo, tende empiricamente a rapporti tra larghezza e lunghezza dello scafo, che si avvicinano di molto a quegli standard oggigiorno considerati ottimali dal punto di vista nautico per le navi antiche: 1 a 8 e 1 a 10 per le navi da guerra, da cui il classico profilo lungo; 1 a 3 e 1 a 4 per le navi mercantili, da cui il profilo tondeggiante. L’archetipo di nave lunga o tonda, a seconda della funzionalità richiesta, persisterà nei cantieri navali del Mediterraneo fin oltre il Medioevo. La propulsione della nave da guerra della Grecia arcaica è principalmente affidata alla forza dei rematori, che usufruiscono però anche dell’ausilio di una vela quadra, viceversa è essenzialmente velica la propulsione della nave da carico che, nei casi necessari di calma di vento o di manovre in porto, ricorre ai pochi rematori imbarcati. Comunque è da precisare che in Omero la suddivisione tra i due tipi di nave non è poi cosi rigida, in particolare per la nave più diffusa, quella a venti rematori, dieci per lato, che viene utilizzata indifferentemente per il trasporto di merci e passeggeri e la guerra da corsa. Per ambedue i tipi di nave il timone è costituito da due grossi remi poppieri. Questo timone è di difficilissima manovrabilità e richiede una perizia tutta particolare, acquisita con lunghi anni d’esperienza. Non a caso in molti poemi antichi, e quindi non solo in Omero, vengono citati timonieri particolarmente esperti, volendone così tramandare il nome ad imperitura memoria.

L’attrezzatura velica della nave del tempo omerico è poi di una semplicità estrema. Un’unica grande vela quadra di tela per lo più bianca, legata con numerosi lacci taurini alla lunga asta dell’antenna, che a sua volta , mediante legacci sempre di cuoio, è fissata alla parte terminale dell’albero della nave. Quest’ultimo, viene mantenuto fermo, oltre che dal suo piede posto nell’apposito incastro, da due grosse funi (sàrte o sartie) che si dipartono rispettivamente da prua e da poppa. Infine le corde (scotte) che, legate agli angoli inferiori della vela, servono a distenderla al vento. Le scotte sono due, quella di destra e di sinistra, che con moderno linguaggio marinaresco sono intese rispettivamente “poggia” e “orza” . Il materiale usato per le sartie e le scotte è costituito da budella taurine intrecciate ritorte. L’intera attrezzatura velica è completamente smontabile, essa viene tolta ogni qualvolta lo scafo è tirato in secco, il che avviene frequentemente, oppure quando, per bonaccia di vento, si ricorre alla sola forza dei rematori, infine quando infuria una tempesta. Nei casi in cui l’attrezzatura deve essere montata si procede incastrando il piede dell’albero nell’apposito alloggio, posto sulla trave di chiglia, in mezzeria o leggermente decentrato a prua, e non ricavato nella trave stessa come sostengono alcuni studiosi in quanto così si sarebbe fatalmente compromessa la resistenza di una fondamentale struttura alle sollecitazioni del moto ondoso. E’ presumibile l’utilizzo di una trave trasversale a quella di chiglia come lasciano supporre alcuni versi omerici. L’albero è poi stabilizzato dalle due sartie già descritte.

La manovra di drizzare l’albero e spiegare la velatura avviene in tempi rapidissimi e rientra nella quotidianità delle navi del tempo. Malgrado ciò si verifica, con una certa frequenza, che un vento impetuoso spezzi l’albero. Qualche volta l’incidente ha conseguenze gravissime, come nell’episodio descritto da Omero in cui una improvvisa tempesta, sorprendendo la nave di Odisseo svelle di netto l’albero, che rovinando in coperta travolge ed uccide con una ferita mortale al capo il timoniere. L’intera struttura dello scafo poggia su un’unica trave di chiglia, a cui erano collegate coste e tavole. Il tutto giuntato, secondo alcuni studiosi, soltanto con il sistema della cucitura, rinforzato forse con corde che inanellavano strettamente l’intero scafo. Questa tesi è sostenuta da autorevoli esperti di marineria antica, che portano a sostegno gli stessi versi di Omero, quando nell’Iliade descrive le pessime condizioni delle navi greche, perché le intemperie e il sole avevano allentato tutte le corde. La pratica della cucitura, antichissima riscontrandosi già ai primordi della civiltà egiziana, sarebbe poi confermata, secondo gli stessi esperti, dal relitto di Capo Chelidonia, anche se altri studiosi, non meno autorevoli, sono di parere contrario. Personalmente ritengo che già nella cantieristica di quel tempo il sistema di cucitura coesistesse con quello ad incastri e cavicchi di legno (i chiodi erano di là da venire). Un’esplicita conferma sono i versi omerici descrittivi della tecnica di costruzione di una zattera.  In ambedue i casi lo scafo richiede una buona impermeabilizzazione, che si ottiene ricorrendo alla pece, a sostanze cerose e resinose, queste ultime ricavate forse dall’incisione di alberi di pino. L’interno dello scafo è tutto catramato e questo spiega la ricorrente espressione di “nave nera”, mentre esternamente è catramata soltanto la parte immersa nell’acqua, le fiancate al di sopra della linea di galleggiamento sono di un vivace colore rosso a base di sostanze cerose o resinose. La prora è invece dipinta di colore azzurro sempre a base di cera. Deve forse riferirsi a questa eventuale utilizzazione la scorta di cera menzionata per la nave di Odisseo.

Le navi da guerra di quel tempo non hanno un unico ponte di copertura, bensì due piccoli ponti, uno a prua l’altro a poppa. I rematori stanno nel mezzo e si trovano allo scoperto, anche se occorre precisare che alcuni scafi, raffigurati nei dipinti di Thera, sono attrezzati con una primitiva tettoia, che ripara la parte remiera dal sole e dalle intemperie. E’ probabile che questa leggera tettoia smontabile sia utilizzata anche al tempo di Omero. Sulla disposizione dei rematori non vi sono dubbi in quanto è immediatamente intuibile la loro dislocazione sui banchi, a differenza dell’enigma dei vogatori di una trireme, vero e proprio rompicapo forse definitivamente risolto dalle intuitive ipotesi del Morrison. Esiste però un piccolo problema relativo ai banchi di voga di una nave omerica. Infatti dalle rappresentazioni pittoriche e dalle descrizioni dello stesso Omero non si riesce a comprendere se si tratti di un unico banco per ogni coppia di vogatori affiancati oppure ciascun rematore usufruisce di un singolo banchetto, in modo che ci sia una piccola corsia (non più larga probabilmente di un metro), che attraversa longitudinalmente il fondo dello scafo, come lasciano supporre esplicitamente alcuni versi. Noi propendiamo per quest’ultima ipotesi . Un modellino votivo siracusano però di epoca molto più tarda presenta simili banchetti di voga. Nell’Iliade e nell’Odissea la nave preferita dai guerrieri-marinai greci è senza dubbio quella a venti rematori, più il timoniere e il capitano: ciò è dovuto forse alla sua estrema versatilità operativa nell’essere, allo stesso tempo, affidabile sia per la guerra da corsa che prevede rapidi sbarchi e altrettanti rapidi imbarchi dopo le razzie, sia per il trasporto di persone e merci rare in tempi relativamente brevi. Una nave a venti remi è quella utilizzata da Agamennone per rimandare Criseide al padre, così a venti è la nave di Telemaco per andare da Itaca a pilo e quella dei Proci, che vogliono tendergli un agguato sul mare. All’esistenza nello stesso periodo di navi con un numero maggiore di rematori rimandano le pitture di Thera e lo stesso Omero. Nel cosiddetto catalogo delle navi, riportato dal II libro dell’Iliade, le navi dei territori di Metone, Taumacia, Melibea e Olizone sono a cinquanta vogatori (25 per lato); deve trattarsi certamente dei primissimi tipi del famoso pentecontero, la nave da guerra greca che successivamente dominerà incontrastata i mari fino all’avvento delle triremi. Con questo tipo di nave i greci procederanno alla colonizzazione del Mediterraneo occidentale.

Anche i Feaci, secondo Omero i migliori marinai del tempo, possiedono navi a cinquanta remi, una di esse riporterà Odisseo ad Itaca. Anzi, nel caso specifico, i versi del cantore sono talmente precisi che, citando il numero dei marinai dell’equipaggio, lo fa ascendere a cinquantadue: effettivamente si riferisce all’equipaggio completo di timoniere e di capitano. Comunque la nave a cinquanta remi resta appannaggio, come nel caso dei Feaci, di poche popolazioni all’avanguardia nella marineria della Grecia arcaica. Le tavole dell’archivio del palazzo reale di Pilo, d’età tardomicenea e quindi tra le più antiche testimonianze scritte sull’attività marinara nel Mediterraneo, riportano, per quel periodo, anche navi a trenta remi (15 per lato). Comunque la stragrande maggioranza delle navi, giunte ai lidi troiani, sono scafi a venti remi: questa ipotesi ridurrebbe ad una cifra accettabile il numero dei Greci all’assedio della città, circa 20.000 uomini. Cifra pur sempre alta per un esercito della seconda metà del II millennio a.C., ma che troverebbe una spiegazione razionale trattandosi di un esercito di coalizione. I più potenti eserciti del tempo, egiziano e hittita, hanno grosso modo anche loro circa 20.000 effettivi ciascuno.

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